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Home ›Rogo di Hebron - L'amaro frutto delle rivoluzioni nazionali
Ancora una volta, è la classe operaia femminile a dover subire una morte orrenda per alimentare gli "spiriti vitali "del capitalismo. Il tragico rogo di Hebron illumina la natura assassina del capitale e quella antioperaia del sindacato
Il crollo dei falsi socialismi dell'Est europeo ha trascinato nella polvere miti che parevano sfidare il tempo, di cui si erano (mal) nutrite generazioni di operai e proletari sinceramente desiderosi di lottare contro la società capitalistica. Altri, invece, hanno perso poco a poco il loro smalto, finendo quasi nel dimenticatoio del variegato mondo della sinistra riformista, salvo poi di tanto in tanto essere risospinti sotto i riflettori mostrandosi per quello che effettivamente sono sempre stati: illusioni, anzi, peggio, colossali truffe ideologiche coscientemente confezionate dallo stalinismo vecchio e nuovo ai danni del "popolo di sinistra". Nell'Olimpo mitologico di quella sinistra che abbiamo sempre sbugiardato, Al Fatah, Arafat, gruppi e sottogruppi della lotta armata palestinese, un tempo hanno indubbiamente goduto di ampie simpatie tra vasti settori della classe operaia, anche per una istintiva e generosa solidarietà con i martoriati proletari e diseredati palestinesi, vittime dell'imperialismo delle grandi potenze, della borghesia israeliana e mediorentale, compresa quella...palestinese. "Come sarebbe a dire, borghesia palestinese?" Penserà un eventuale lettore del "popolo di sinistra". Arafat, Habbash e compagnia lottavano per l'autodeterminazione di tutta la Palestina, per uno stato sovrano che, per di più, andando a disturbare i maneggi dell'imperialismo statunitense, era automaticamente etichettato "di sinistra" e meritevole dunque di ogni appoggio. Noi che abbiamo sempre denunciato il carattere totalmente borghese delle organizzazioni politiche palestinesi, da quelle moderate a quelle apparentemente più radicali e addirittura "marxiste" - tipo il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, di George Habbash - eravamo qualificati come settari, non-pratici, fastidiosi grilli parlanti che rifiutavano di appoggiare lotte concrete perché accecati da ottusi pregiudizi ideologici. Avevi voglia a spiegare che la disperazione, il giusto odio per le sofferenze, le mille violenze quotidiane, lo sfruttamento del proletariato erano (e sono) una cosa, il loro uso politico un'altra: bastava l'immagine di un feddayn con kefiah e kalashnikov per spegnere qualsiasi lume di intelligenza critica e sprofondare nel buio dell'esaltazione ideologica incapace di intendere.
Ma le migliaia di proletari che ammazzavano o si facevano ammazzare (quando non erano preventivamente massacrati da sovrani "amici", da cristianissime milizie o semplicemente dalla soldataglia israeliana), per che cosa hanno combattuto? Per quello stato descritto dalla cronaca dall'ultra riformista Manifesto (22-23 ottobre), la quale probabilmente costituirà un'altra amara sorpresa per tanti "sinistri" nostrani, ma non per noi che mai ci siamo fatti abbagliare dal mito delle lotte di liberazione nazionale, del "Sud del mondo" e via discorrendo; insomma, dalla classica paccottiglia interclassista che invece ha tanto peso in tutta (o quasi) l'odierna socialdemocrazia "antagonista", non esclusi certi finti internazionalisti.
Ma veniamo ai - tragici - fatti.
Giovedì 21 ottobre, a Hebron in Cisgiordania, territorio appartenente a quella specie di stato chiamato Autonomia nazionale palestinese (Anp), scoppia un incendio in una fabbrica di accendini che provoca la morte di 14 persone e il ferimento di altre trenta, in stragrande maggioranza donne. Nella sanguinosa storia del capitalismo è quasi sempre il proletariato femminile a dover subire una fine così orribile: dal lontano 8 marzo newyorchese dei primi del secolo, passando attraverso le decine di operaie cinesi perite nel rogo di una fabbrica di giocattoli di qualche anno fa, e come sempre le fiamme di quegli incendi illuminano a giorno la natura assassina del capitalismo, che è tanto più feroce e brutale quanto più gli "spiriti vitali" del mercato non incontrano ostacoli alla loro avidità. L'Anp non sfugge a questa regola; le donne e i minori vengono utilizzati in maniera massiccia, costretti a lavorare, con ritmi massacranti, 10-12 ore al giorno per salari che non superano i 150 dollari al mese, in fabbriche e fabbrichette totalmente prive delle più elementari norme di sicurezza. E il governo palestinese, che fa? Non solo non interviene, ma, al contrario, cerca di attirare gli investitori stranieri (nonché locali) vantando le ottime opportunità d'investimento ossia, tradotto, le grandi possibilità di sfruttamento di una forza-lavoro a bassissimo costo. Il comportamento del governo è rafforzato dal mutismo complice dei partiti di sinistra e - non potevano mancare, naturalmente - dei sindacati, di qualsiasi corrente politica, che si guardano bene dal prendere anche la più piccola iniziativa contro il padronato, locale o straniero, dell'Anp per non intralciare "gli interessi del paese" cioè della borghesia. È un ritornello, questo, che sentiamo spesso anche da queste parti e che accomuna i cani da guardia dei padroni in tutto il mondo: non c'è sindacato che in nome del bene supremo della nazione non collabori attivamente con la borghesia per accrescere lo sfruttamento e conseguentemente abbassare le condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e del proletariato in generale. Infatti, se il capitale oggi ha la necessità di livellare verso il basso le condizioni della classe operaia mondiale, i sindacati sono lì prontissimi a dargli non una, ma due mani. La precarietà e la flessibilità stanno ormai per diventare la regola e il lavoro "garantito" quasi un'eccezione, e tutto ciò grazie ai contratti, ai patti, agli accordi firmati regolarmente dalle confederazioni sindacali, meglio se sponsorizzati da un governo "di sinistra". I saggi di profitto sempre più bassi (il saggio, non la massa, attenzione!) l'aumento spropositato del capitale parassitario (la finanza), che alla fin fine deve comunque nutrirsi con le fatiche e le vite degli operai, non ammettono alternative: in Italia come in Cina o in Palestina, la classe operaia deve essere spremuta come un limone anche a costo della (sua) vita. Se in Cisgiordania regna sovrano ciò che qui viene chiamato lavoro nero, i contratti di emersione, quelli d'area o semplicemente di categoria (per non parlare di quello, recente, di Milano), non hanno forse lo scopo di legalizzare il lavoro nero, anzi, di farne la forma "contrattuale" normale? Se a Hebron la mancanza di sicurezza ha provocato l'ennesimo orrendo rogo di operaie, non è forse vero che la precarizzazione diffusa (voluta anche dai sindacati, non dimentichiamolo mai!) ha fatto crescere anche qui gli incidenti e gli infortuni sul lavoro? Non è a caso, dunque, che i sindacati palestinesi abbiano l'appoggio "di organizzazioni sindacali di tutto il mondo" - non ultime quelle italiane - o che Cofferati abbia espresso la sua comprensione dicendo che "non si deve pretendere troppo da un sindacato che opera in circostanze sfavorevoli" (il Manifesto, 22 ottobre): è la natura stessa del sindacalismo nell'epoca del capitalismo imperialista ad essere organicamente e sistematicamente antioperaia e a volerlo recuperare ai fini della lotta di classe anticapitalista è non solo inutile, ma soprattutto dannoso.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #11
Novembre 1999
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