Proveniente dagli Usa una nuova crisi finanziaria minaccia il Sudest Asiatico

Nonostante i bassissimi salari le economie del Sudest rischiano un nuovo tracollo

A quasi un mese dal vertice di Praga del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, durante il quale sono stati osannati i risultati raggiunti dal capitalismo in ogni angolo del pianeta, pesanti nuvole si addensano sul sistema finanziario internazionale. Passata la sbornia dei continui rialzi degli indici azionari, trascinati all'insù dalle performance dei titoli tecnologici, le borse internazionali hanno visto i propri listini sgonfiarsi. Se si esclude il Mib 30 di Milano e il Cac 40 di Parigi che segnano ancora lievi progressi rispetto ai valori di inizio anno, le altre piazze finanziarie durante il 2000 hanno ridotto di molto la propria capitalizzazione. I due indici borsistici americani, Dow Jones e Nasdaq, hanno perso rispettivamente l'otto e il venti percento, mentre la borsa di Tokyo, nonostante il tasso di sconto praticato dalla banca centrale giapponese sia prossimo allo zero, ha perso addirittura il ventitré percento del proprio valore, passando da un livello dell'indice Nikkei pari a ventimila a poco meno di quindicimila punti. I toni trionfalistici di inizio anno che inneggiavano alla new economy, descritta come la nuova frontiera dello sviluppo illimitato del capitalismo internazionale, hanno lasciato il posto a più meste riflessioni sui nuovi scenari di crisi.

Se le principali borse mondiali hanno ridotto i propri indici, quelli dei paesi periferici hanno subito dei veri e propri tracolli. In maniera particolare, le piazze azionarie dei paesi del sudest asiatico negli ultimi mesi hanno subito perdite pesantissime che richiamano alla memoria quelle fatte registrare nel 1997. Anche in questa occasione i fatti arrivano puntuali a smentire le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, che nello scorso mese di agosto si era auto lodato per gli ottimi risultati raggiunti dalle economie dei paesi del Sudest asiatico i quali avevano seguito alla lettera le ricette liberiste proposte dal Fondo Monetario stesso.

La caduta delle borse ha trascinato nel vortice della crisi anche le rispettive valute nazionali, mettendo sotto pressione la loro parità con il dollaro. Come spiegare questo nuovo tonfo delle borse mondiali e di quelle asiatiche in maniera particolare? Se dovessimo seguire le analisi che ci offre il pensiero economico borghese ci troveremmo di fronte ad un semplice calo fisiologico, che segue una fase di forte ascesa dei mercati. Tutto sommato, sempre per il pensiero borghese, è addirittura salutare che i mercati si ridimensionino e facciano selezione tra le aziende più remunerative. Ma se andiamo ad analizzare le dinamiche della crisi attuale possiamo cogliere aspetti importanti relativi ai processi di appropriazione parassitaria del plusvalore e del corrispondente processo d'impoverimento del proletariato mondiale.

A differenza di quanto sostiene l'economia politica borghese, le crisi finanziarie e monetarie non sono dovute a salutari processi d'aggiustamento di precedenti situazioni di disequilibrio, ma traggono la loro origine nelle contraddizioni strutturali del capitalismo che periodicamente esplodono, scaricando sulla classe lavoratrice internazionale i suoi devastanti effetti sociali. I meccanismi che hanno innescato la caduta delle borse e delle monete del Sudest asiatico non costituiscono una novità, ma rappresentano una conferma di un legame strettissimo tra le aree centrali del capitalismo, Stati Uniti in maniera particolare, e le sue appendici asiatiche e latino americane. Come più volte abbiamo sottolineato (vedi l'articolo sulla crisi delle tigri asiatiche apparso su Prometeo n° 14 - V serie) l'economia dei paesi del Sudest asiatico è strutturata in maniera tale che il suo andamento dipende moltissimo dalle esportazioni verso il mercato statunitense. In sostanza, visto i bassissimi salari e i bassi livelli di consumo interno, l'economia delle tigri asiatiche è orientata verso le esportazioni nei paesi a capitalismo avanzato, in maniera particolare è il mercato statunitense ad assorbire buona parte delle merci di questi paesi. Dopo la grave crisi finanziaria e monetaria del 1997, i paesi dell'area si sono ulteriormente specializzati nella produzione della componentistica informatica, diventando i principali produttori mondiali. Grazie al costo della forza lavoro bassissimo, ingenti capitali sono stati investiti nel Sudest asiatico alimentando lo sviluppo dell'industria informatica e nello stesso tempo risollevando gli indici borsistici e il valore delle rispettive monete. Questo circolo "virtuoso" (investimenti dall'estero, esportazioni, crescita delle attività finanziarie) che ha permesso ai paesi del Sudest asiatico di riprendersi dal crollo di tre anni fa si è interrotto.

La crisi è partita dal cuore dell'impero americano è immediatamente si è propagata nella periferia, scaricando su di questa i maggiori guasti economici e sociali. Il crollo dei prezzi dei microprocessori registrato sui mercati americani ha avuto degli effetti dirompenti sulle economie specializzate nella produzione di tali prodotti. Gli Stati Uniti, come abbiamo detto in precedenza, rappresentano il maggiore importatore di memorie e altri componenti elettronici prodotti nel Sudest asiatico, e il crollo dei loro prezzi ha inevitabilmente messo in forte difficoltà questi paesi in quanto hanno subito una forte riduzione del valore delle loro esportazioni. Ma la crisi è anche il prodotto del massiccio ritiro dei capitali americani e degli investitori internazionali dalle azioni tecnologiche dai mercati mondiali. L'ondata di vendite che ha colpito le azioni dell'high tech nella borsa di Wall Street, non è rimasto un caso isolato ma ha interessato soprattutto le piazze finanziarie di quei paesi in cui si concentra la produzione dei prodotti tecnologici, ossia proprio i paesi del Sudest asiatico. In questi casi i capitali internazionali accelerano la loro fuga dai mercati periferici in quanto valutano che questi paesi, proprio a causa della contrazione delle loro esportazioni, non siano più in grado di onorare il debito estero accumulato per alimentare il loro sviluppo economico.

Come nel passato, anche la crisi attuale trova la propria origine nel cuore del sistema mondiale; per i rapporti esistenti tra il centro e la periferia capitalista gli effetti si trasferiscono immediatamente su quei mercati che più di altri sono legati all'andamento della domanda statunitense e in particolare con il settore dell'high tech. La crisi dell'economia reale si riflette sul piano finanziario con crolli delle borse e delle monete dei paesi latino americani e soprattutto del Sudest asiatico. La crisi economico-finanziaria delle aree periferiche produce dei veri e propri disastri sociali. La caduta delle borse, la svalutazione delle monete nazionali, la fuga di capitali esteri impongono alle varie borghesie indigene di spremere ancora di più la propria classe lavoratrice, esasperando i ritmi di lavoro e comprimendo i già bassi livelli salariali. Per ripristinare l'equilibrio economico-finanziario tra il centro e la periferia capitalistica la borghesia dei paesi del Sudest asiatico sono costretti a comprimere ancor di più la domanda interna e rilanciare le esportazioni; ma tutto questo può avvenire solo attraverso la compressione di salari e stipendi. Ma a pagare le conseguenze di tale crisi non è solo il proletariato dei paesi periferici, ma ad essere colpita è tutta la classe lavoratrice internazionale, costretta a sostenere i processi d'accumulazione del capitale finanziario che ogni giorno di più affama miliardi di esseri umani per garantire un profitto a quelle élite sociali che possono operare sui mercati borsistici.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.