La Turchia nel vortice della crisi finanziaria

Lo scorso mese di febbraio un'altra falla si è aperta nel sistema finanziario internazionale. La nuova vittima delle attività speculative del capitale finanziario internazionale è stata la Turchia, che già nel mese di novembre dello scorso anno aveva subito grosse perdite nell'indice azionario della borsa di Istambul. In seguito allo scontro istituzionale tra il presidente della repubblica turca Ahmet Sezer e il presidente del consiglio Bulent Ecevit, avvenuto ufficialmente per una diversa valutazione data dai due alla lotta contro la corruzione, i grandi investitori internazionali hanno iniziato ad abbandonare il paese, alimentando quel fenomeno di caduta degli indici azionari e svalutazione della moneta che nel recente passato hanno scatenato il panico sui mercati finanziari mondiali.

Il crollo dell'economia turca ha assunto dimensioni e ritmi che non trovano riscontro nelle simili esperienze del recente passato. In soli due giorni, la borsa d'Istabul ha perso quasi il cinquanta per cento del proprio valore, mentre la lira turca si è svalutata nei confronti del dollaro e delle altre monete più importanti di oltre il quaranta per cento. Per fronteggiare la difficile situazione finanziaria, le autorità turche hanno alzato i tassi d'interesse per i "pronti contro termine" (ossia i tassi d'interesse per le operazioni di brevissimo periodo, legate spesso alle attività puramente speculative) al 4244%. Con tassi d'interesse così elevati tutte le operazioni finanziarie nei giorni caldi della crisi sono state di fatto congelate e le uniche attività sono quelle delle banche commerciali che scambiano lire turche contro dollari per difendere il proprio patrimonio.

Basta uno scontro, anche duro, come quello tra Sezer e Ecevit per scatenare una crisi finanziaria ed economica di tale portata? Secondo la stampa borghese la crisi turca è il prodotto di questo scontro istituzionale, è appena le cose tra il presidente della repubblica ed il presidente del consiglio saranno chiarite, la Turchia riacquisterà la credibilità degli investitori internazionali e potrà riprendere la corsa dello sviluppo economico che porterà il paese nell'Europa della moneta unica. In realtà i crolli della borsa e la svalutazione della moneta non rappresentano dei fulmini a ciel sereno, così come vuole farci credere la borghesia, ma giungono al termine di una fase particolarmente difficile per l'economia turca.

Negli anni novanta, in seguito al processo d'integrazione monetario europeo, la borghesia turca ha imposto alla classe lavoratrice pesantissime condizioni salariali e di lavoro, nel tentativo di agganciarsi all'Europa e legarsi in tal modo ai flussi d'investimenti del capitalismo del vecchio continente. Il progetto turco ripercorreva lo schema adoperato da altre aree a bassa industrializzazione; contenimento del costo del lavoro, liberalizzazione del mercato della forza-lavoro, lotta all'inflazione e agevolazioni agli investitori internazionali. Queste misure dovevano costituire l'asse portante della politica economica del governo turco, attraverso la quale il paese doveva finalmente superare la soglia del sottosviluppo ed approdare in Europa. Fino alla metà degli anni novanta la Turchia ha beneficiato dell'afflusso di una massa importante di capitali europei attratti dalla prospettiva di elevati guadagni, che hanno consentito al paese di svilupparsi ad un ritmo annuo di quasi il 5%. Alla fine degli anni novanta il meccanismo virtuoso dello sviluppo economico si è clamorosamente interrotto; nel decennio appena trascorso la Turchia ha accumulato un debito con l'estero insostenibile per la sua economia e, nonostante gli sforzi delle autorità monetarie, il tasso d'inflazione degli ultimi sei anni è stato del 2500%. Il peso del debito estero è diventato insostenibile quando le esportazioni verso i paesi dell'Unione europea si sono drasticamente ridotte a causa della congiuntura sfavorevole dell'economia mondiale e del vecchio continente in maniera particolare.

La crisi finanziaria che è esplosa in queste ultime settimane, solo parzialmente attenuata dai recuperi della borsa di Istambul e della risalita della lira turca, si spiega con gli innalzamenti dei tassi d'interesse praticati di recenti dalla Federal Riserve statunitense e dalla Banca Centrale Europea. Grazie agli aumenti dei tassi d'interesse sui mercati mondiali masse ingenti di capitali si sono spostati dai paesi periferici verso le aree centrali del capitalismo internazionale, rendendo sempre più difficile sostenere il debito estero dei paesi meno sviluppati. Nel caso specifico turco, la politica restrittiva delle principali banche centrali mondiali, ha avuto il duplice effetto di innalzare il costo del debito con l'estero e di rendere alquanto difficoltoso mantenere l'afflusso di capitali provenienti dai paesi europei; se a questa dinamica aggiungiamo che le esportazioni turche verso l'Europa si sono ridotte, possiamo immaginare come il debito sia diventato un vero macigno sotto il quale l'economia turca è destinata a crollare. Nei giorni caldi della crisi la banca centrale per contenere la fuga di capitali e sostenere in tal modo il valore della propria moneta è stata costretta a vendere quasi tutte le proprie riserve i dollari per un valore di quasi cinque miliardi, ma l'operazione non è servita per evitare la spaventosa caduta della borsa e la svalutazione della lira turca, che per le dimensioni del fenomeno ha richiamato alla mente degli economisti borghesi più illuminati l'esperienza della repubblica di Weimar.

Anche nella crisi finanziaria turca è presente lo zampino del Fondo Monetario Internazionale, che in questi ultimi due anni ha preteso dal governo della Turchia politiche monetarie sempre più restrittive e una completa liberalizzazione del sistema bancario nazionale per concedere il finanziamento di 11 miliardi di dollari. Proprio intorno alla corruzione nel sistema bancario turco si è scatenata la battaglia tra il presidente della repubblica e il presidente del consiglio e non è da escludere che nel prossimo futuro scopriremo che dietro c'è lo zampino di qualche funzionario del Fondo Monetario Internazionale così come è avvenuto per la Russia. Per smentire ancora una volta le sue previsioni, quando sembrava che il FMI stesse deliberando la prima tranche del prestito è arrivata la crisi finanziaria a bloccare il finanziamento. Una crisi che colpisce un paese che nei progetti della borghesia turca dovrebbe nel giro di qualche anno entrare a far parte dell'Unione Europea e agganciarsi in maniera permanente alla futura moneta unica. Mentre a Bruxelless i ministri europei discutono animosamente se aprire le porte dell'Europa alla Turchia, il paese e praticamente sconvolto da una crisi finanziaria che rischia di travolgere l'intera economia nazionale. È evidente che una crisi di tale portata è destinata ad avere delle ripercussioni negative sia sulle aspirazioni della borghesia turca, interessata a legarsi all'euro per avere maggiori prospettive di spartirsi quote di rendita finanziaria, sia sull'Europa che vede economicamente allontanarsi un paese di quasi settanta milioni di abitanti e che rappresenta una testa di ponte tra il vecchio continente ed il medio oriente, con indubbie ripercussioni anche nel controllo dei flussi petroliferi.

È facile immaginare gli effetti della crisi finanziaria in una società come quella turca nella quale il quintile più abbiente della popolazione s'appropria del 46% della ricchezza, mentre il quintile più povero deve accontentarsi del 7,5%. La crisi finanziaria, nella totale assenza di una ripresa della lotta di classe, sarà ancora una volta pagata dal proletariato turco, costretto a subire ulteriori attacchi alle proprie condizioni di vita dalla borghesia magari in nome dell'Europa dell'euro.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.