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In occasione dell'annuale assemblea dei soci, durante la quale le società approvano i bilanci, è scoppiata in tutta la cruda realtà dei numeri la crisi della Fiat. Una crisi che è iniziata nel corso dei primi anni novanta ma che negli ultimi mesi, per tutta una serie di fattori economici interni e soprattutto esterni all'impresa, ha subito una violenta accelerazione. Il management della più grande fabbrica italiana non ha potuto far altro che mettere sul tavolo degli azionisti i numeri di una crisi aziendale senza precedenti.
Partiamo dalle cifre esposte dagli amministratori Fresco e del dimissionario Cantarella. Nel corso del primo trimestre del 2002, malgrado le previsioni ottimistiche di rilancio del gruppo, il settore auto del gruppo ha subito una perdita di 430 milioni di euro, mentre nello stesso trimestre dello scorso anno le perdite erano state, si fa per dire, di solo 16 milioni di euro. Il passivo trimestrale è da attribuire essenzialmente alla contrazione del mercato internazionale dell'auto, con punte del 7% negli Stati Uniti e del 13% in Italia. Nei cosiddetti paesi emergenti, come la Turchia e l'Argentina il mercato dell'auto ha subito un vero e proprio collasso; se consideriamo che la Fiat, se escludiamo il mercato italiano, vende esclusivamente in questi paesi possiamo immaginare l'impatto sui conti aziendali del crollo delle vendite registrato in Turchia, Argentina, Brasile e Polonia. La perdita d'esercizio del primo trimestre 2002 è solo la punta dell'iceberg dei debiti che rischia di affondare la Fiat.
I debiti della Fiat sono pari a 35 mila milioni di euro, mentre i crediti ammontano a poco più di 28 mila milioni di euro; in sostanza la posizione debitoria netta della società è di quasi 7 mila milioni di euro, una cifra di per sé enorme ma che non ci dice tutta la verità sullo spessore della crisi. Infatti, oltre la metà dei crediti dell'azienda torinese sono di fatto inesigibili, in quanto vantati nei confronti di debitori turchi, brasiliani, polacchi e argentini, i quali tutto possono fare tranne che pagare alla Fiat le macchine in precedenza acquistate. Da questa semplice considerazione si comprende meglio che il debito della Fiat sia molto di più dei settemila milioni di euro di cui parlano gli amministratori dell'azienda. Per sopperire all'assoluta mancanza di liquidità, tre tra la maggiori banche italiane (San Paolo, Banca Intesa e Banca di Roma) hanno siglato con la Fiat un accordo in base al quale, i tre istituti bancari non solo s'impegnano a rifinanziare la Fiat ma si accollano gli eventuali crediti che la stessa Fiat non dovesse riscuotere. Nell'accordo la Fiat si è impegnata a vendere alcune imprese del gruppo come Teksid e Comau, e a quotare in borsa la Ferrari; in queste operazioni le tre banche finanziatrici hanno dei diritti di opzione sulle azione vendute o collocate in borsa, nonché riscuotere le commissioni per tutte le operazioni necessarie alle dismissioni e alla collocazione in borsa della Ferrari.
Per il ruolo centrale che la Fiat svolge nel panorama del capitalismo italiano, la crisi del gruppo torinese rischia di travolgere un settore importantissimo dell'intero sistema produttivo e finanziario italiano. La Fiat, oltre a produrre auto, è al centro di una rete d'interessi finanziari che vanno oltre le dimensioni dello stesso gruppo torinese. Proprie per le sue enormi dimensioni la crisi della Fiat non può essere isolata, ma rischia di travolgere l'intero sistema bancario. Il patto siglato tra la Fiat e i tre istituti bancari potrebbe sembrare un suicidio per le banche se non tenessimo in considerazione i rapporti finanziari tra le diverse realtà aziendali. Se consideriamo che la Fiat è tra i più importanti azionisti dei tre istituti bancari e questi ultimi a loro volta possiedono una quota rilevante del capitale Fiat, comprendiamo in pieno che se la Fiat crolla crollano anche le banche. La crisi della Fiat ha assunto una dimensione tale da investire settori che in apparenza sembrano assolutamente al riparo da eventuali contraccolpi. L'impegno assunto dalle tre banche italiane di finanziare tutti gli eventuali crediti che la Fiat non dovesse riuscire a riscuotere è di una gravità contabile enorme. Infatti, visto che una buona parte dei crediti della Fiat sono vantati nei confronti di clienti turchi, argentini, polacchi e brasiliani, che difficilmente onoreranno gli impegni, per le banche finanziatrici significa peggiorare ulteriormente i propri deficitari bilanci.
La crisi della Fiat non è solo nei numeri del bilancio, ma travalica i confini aziendali in quanto va legata alle dinamiche in corso nell'intero settore internazionale dell'auto. Negli anni ottanta la Fiat è riuscita a rimanere competitiva sui mercati internazionali, raggiungendo una dimensione internazionale grazie ai regali ricevuti dal governo italiano con l'acquisizione dell'Alfa Romeo, della Lancia e di tutte le altre case automobilistiche italiane. La crisi economica degli anni settanta ha spinto il settore dell'auto a ridurre i costi di produzione attraverso un feroce processo di concentrazione; in pochissimi anni sono rimasti sul mercato solo quelle imprese che erano riuscite durante questa fase a raggiungere dimensioni tali da reggere la competizione internazionale. Negli anni novanta il settore auto ha subito un secondo grande processo di concentrazione, ma in questo caso la Fiat per tutta una serie di scelte strategiche è rimasta esclusa dalle alleanze che si sono realizzate tra le varie imprese del settore. Per tutto il decennio 1991/2000 la Fiat ha retto la concorrenza internazionale solo grazie agli aiuti elargiti dallo stato italiano, ammontanti a 10 mila miliardi delle vecchie lire. Una montagna di soldi regalati dai vari governi che si sono succeduti in questo decennio alla guida del paese per finanziare un'impresa che non solo non si è espansa ma ha ridotto il numero dei propri dipendenti. L'accordo con la General Motors presentato come il primo segnale di un prossimo rilancio dell'azienda, non solo è arrivato in ritardo rispetto agli avviati processi di concentrazione, ma per le dimensioni delle due imprese vede la Fiat necessariamente in una posizione subalterna rispetto al gigante americano. L'aggravarsi della crisi Fiat pone la casa torinese nella condizione di perdere la propria autonomia gestionale per entrare definitivamente nell'orbita di uno dei quattro o cinque gruppi automobilistici che nei prossimi anni si spartiranno l'intero mercato mondiale dell'auto.
Nell'immediato, le conseguenze sul piano occupazionale della crisi Fiat sono la perdite del posto di lavoro per almeno trenta mila lavoratori, indotto compreso. Per la Fiat è il costo sociale da far pagare agli operai per non far fallire l'azienda, il governo s'impegna a coprire la cassa integrazione e i sindacati parlano di rilanciare la Fiat attraverso un piano industriale che dovrebbe permettere di costruire automobili migliori e più competitive. Ma piano industriale non significa forse introduzione di nuova tecnologia ed espulsione di forza-lavoro per abbassare i costi di produzione? Nella sostanza padroni, governo e sindacati, nell'ambito delle proprie competenze, dicono tutti la stessa: la Fiat va sostenuta e a pagare le conseguenze della crisi del capitalismo deve essere sempre e solo i lavoratori.
plBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #7
Luglio-agosto 2002
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