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Home ›Le componenti di classe nella crisi irachena
Dovevano portare la democrazia e hanno portato il caos, la guerra civile, il terrorismo e la barbarie.
Hanno fatto una guerra con la scusa di impedire l'uso delle armi di distruzione di massa e non era vero. Hanno abbattuto il regime di Saddam Hussein perché era in possesso della bomba atomica ed era falso. Hanno portato la guerra preventiva per eliminare una centrale del terrorismo internazionale e l'hanno reso più attivo e violento. Hanno affermato che Saddam era un pericolo pubblico per l'intera umanità e hanno solo dimostrato che il vero pericolo è rappresentato dall'imperialismo americano che più è in crisi di profitti e più diventa aggressivo. Più le crisi avanzano e più guerre di rapina si scatenano, sui mercati finanziari, per la supremazia del dollaro, sui mercati commerciali e su quelli petroliferi che tutti li condiziona. Il futuro destino del capitalismo è la barbarie, per i proletariati sfruttati di tutto il mondo la soluzione è solo il comunismo.
A più di un anno dalla conquista militare la situazione politica in Iraq continua a degenerare. Lo sfacelo economico dovuto a due guerre nello spazio di poco più di un decennio, la devastante situazione economica derivata da dodici anni d'embargo e l'impossibilità di ricreare le benché minime condizioni per la ricostruzione della società hanno avuto come primo effetto un attacco violento che le opposizioni nazionaliste portano alla presenza militare americana e l'intensificarsi della guerra civile tra la varie frange della borghesia indigena.
Per l'infantile tattica imperialistica americana l'attacco al regime di Saddam Hussein avrebbe dovuto produrre un effetto immediatamente favorevole ai suoi interessi strategici sia all'interno del paese occupato, sia in tutta l'area del Medio Oriente. L'aspettativa prevedeva che l'esempio punitivo, veloce, determinato e ferocemente violento, avrebbe inibito sul nascere, o reso più difficile, qualsiasi forma di anti americanismo nel mondo islamico, e che in Iraq, liquidato il dittatore Hussein, la popolazione accogliesse l'armata americana come liberatrice, sventolando nella mano destra la bandiera a stelle e a strisce e nella sinistra un ramoscello d'ulivo. Il mondo islamico ha invece risposto con rabbia e indignazione. Gli stessi governi arabi moderati, tradizionalmente alleati degli Usa, hanno palesato la loro preoccupazione, non tanto per i destini degli iracheni, quanto per la sicurezza del proprio potere politico che avrebbe potuto essere messo in discussione dalle masse inferocite che da sempre a loro rimproverano di essersi venduti al potere americano e di non aver fatto mai abbastanza per impedire l'ennesima violenza ai danni di un paese fratello.
In Iraq le cose sono andate ovviamente ancora peggio. Pochi hanno pianto per la caduta del regime, solo quelli che ne traevano vantaggi economici e condizioni politiche di privilegio, molti coloro che ne hanno gioito: Curdi, Sciiti e tutti quelli che hanno subito per anni la feroce repressione del regime, tra i quali il proletariato urbano, presente nelle maggiori città e nei centri industriali legati all'estrazione di petrolio e alla produzione di beni derivati, e i contadini del nord, prevalentemente curdi dove maggiore è la produzione agricola.
L'odio nei confronti dell'invasore è stato proporzionale ai danni e alla beffa subiti. L'operazione militare è costata almeno 20 mila morti tra gli iracheni, di cui 15 mila civili. L'embargo di dodici anni voluto dagli Usa ha causato la morte di un milione e due cento mila civili, di cui seicento mila bambini. L'assetto economico, già pesantemente provato è stato completamente annullato. Morte, fame, miseria e disoccupazione sono le uniche realtà che drammaticamente sono esplose nella società irachena dopo l'occupazione.
Ancora oggi, a un anno dalla fine della guerra, manca l'acqua potabile in molte città, la luce elettrica è erogata solo per quattro ore al giorno e solo nei grandi centri urbani, mentre il resto del paese ne è assolutamente mancante. Sono insufficienti ancora gli approvvigionamenti di medicinali e i beni di prima necessità. Nessuno si è preoccupato, tantomeno il governo provvisorio, di ricreare le condizioni minimali di vita della popolazione, di iniziare la ricostruzione del paese; quello che sinora si è fatto riguarda solo ed esclusivamente la manutenzione degli oleodotti esistenti, la loro salvaguardia dagli attentati, peraltro quasi quotidiani e l'amministrazione della polizia del governo Chalabi & Bremer (ora Allawi & Bremer).
L'aggressione militare ha inevitabilmente gettato il paese nell'inferno della disperazione e dell'insicurezza con l'unica conseguenza possibile, quella della resistenza all'occupazione e, dati i rapporti di forza in campo, a colpi di guerriglia e di terrorismo. La resistenza e la prosecuzione della guerra, città per città, quartiere per quartiere, hanno fatto si che per il momento nessuno dei progetti iniziali sia andato in porto, né gli sfruttamenti di nuovi giacimenti, né il controllo del petrolio, da cui il governo americano sperava di trovare i dollari per le sue compagnie petrolifere e per finanziare la propria economia, Né tantomeno sono riusciti a comporre un governo interno capace di autorevolezza e di quella pace sociale che soli avrebbero dovuto garantire il perseguimento dell'affaire Iraq. Il governo Allawi Bremer resta in piedi grazie alla presenza di 135 mila uomini armati sino ai denti, e di altre migliaia di mercenari americani ed europei.
L'unico petrolio che si estrae ufficialmente, due milioni e trecento mila barili al giorno, contro i due milioni e ottocento del periodo dell'embargo, non sono assolutamente sufficienti, i costi di permanenza sono sempre più elevati sia in termini di morti sia in esborso di miliardi di dollari. Questi sono i dati ufficiali.
Nel frattempo però una delegazione irachena alle Nazioni Unite composta da Hamid Al Bayati, del ministero degli esteri dello stesso governo Allawi e da Muzhir al Dulaymi, portavoce della "Lega per la difesa dei diritti del popolo iracheno" ha denunciato che gli Su hanno imposto il segreto sulle operazioni sul petrolio e sull'uso dei loro proventi.
Muzir l Dulaymi ha aggiunto: "In Iraq si verifica una rapina quotidiana. Ho informazioni di prima mano da fonti nel porto di Bakr nel sud dell'Iraq e nel porto turco di Jihan che confermano che ogni giorno escono dall'Iraq tre milioni di barili di petrolio" (1).
L'affidabilità dell'Iraq è una chimera che svanisce ogni giorno che passa; repressione, scontri con la guerriglia e la latente guerra civile sono la rappresentazione del baratro in cui è caduto l'Iraq dopo l'invasione americana.
Occupazione, potere politico e ruolo della borghesia irachena
In questo scenario di devastante violenza il governo provvisorio può solo amministrare se stesso con l'aiuto delle forze armate americane. Era nato con lo scopo di dare una parvenza di pluralismo democratico alla nuova società irachena dopo la caduta di Saddam; ha dimostrato invece di essere soltanto un concentrato di collaborazionisti presi tra le varie etnie e confessioni borghesi islamiche, lo strumento iniziale di dominio politico in attesa di un altro governo, più affidabile, allineato e pacificatore per il controllo economico.
Intanto nella società irachena tutte le componenti della classe dominante stanno cercando la loro più opportuna collocazione, chi con la presenza dell'esercito americano, chi auspicandone il ritiro a tempi brevi e chi combattendo perché ciò accada subito, lasciando il paese e i giacimenti petroliferi sotto il loro controllo. Nessuna borghesia è disposta a rinunciare al potere politico e a quello economico a causa della presenza di un imperialismo esterno, a meno che, sentendosi debole e non in grado di affrontarlo, intenda ricavarne un vantaggio immediato.
Nell'attuale schema costituzionale l'Iraq si presenta come uno stato federale con un'ampia autonomia per la regione curda. La ragione di questo privilegio è semplice. Nel Kurdistan iracheno, nelle zone a nord di Arbil, Kirkuk e Mosul si estrae il 65% del petrolio nazionale, da lì partono gli oleodotti per Baghdad, per la Siria e per la Turchia, è la zona economicamente più importante e, non a caso, ha goduto delle attenzioni di Washington ben prima dello scoppio della guerra. Il 4 ottobre 2001 nasce su ispirazione americana il primo parlamento curdo. Precedentemente gli Usa avevano chiuso quattro occhi sulle attività di contrabbando di armi e droga da parte dei due maggiori partiti curdi. Quando il 9 agosto a Washington e il 17 dic.2002 a Londra sono state convocate le opposizioni irachene per definire il futuro governo provvisorio, gli spezzoni politici della borghesia curda si sono immediatamente uniti abbandonando le antiche e sanguinose rivalità, il Pdk di Barzani e Puk di Talabani non si sono fatti attendere agli appuntamenti.
Per la debole borghesia curda le future concessioni della gestione petrolifera alle compagnie Usa sul proprio territorio in cambio di royalties, di un'autonomia politica più marcata rispetto agli Sciiti e ai Sunniti e del diritto di veto nella Costituzione del futuro stato federale era quanto di meglio potesse sperare dopo la caduta del regime di Saddam.
Il gioco era così scoperto da innescare l'opposizione delle altre borghesie che si vedevano così tagliate fuori dagli obiettivi petroliferi. Arabi e turcomanni presenti in Kurdistan hanno risposto con attentati alla sede del Parlamento curdo reo di essersi venduto all'imperialismo americano e tenendo solo per sé i diritti di estrazione e transito del business petrolifero.
La borghesia curda non poteva percorrere altri sentieri politici, un'eventuale alleanza con le opposizioni degli Sciiti e dei Sunniti avrebbe messo in pericolo la loro autonomia e tutti quei vantaggi che derivavano dall'appoggio alle truppe di occupazione. Sul terreno nazionalistico meglio sarebbe stato perseguire la nascita di uno stato autonomo e indipendente, solo e unico gestore delle ricchezze energetiche, ma una simile pretesa avrebbe trovato l'opposizione armata non solo dell'imperialismo americano, ma anche della Turchia e dell'Iran, preoccupati di ritrovarsi una simile rivendicazione anche in casa propria, e avrebbe scatenato ancora di più l'ira delle altre frange borghesi irachene. Per la borghesia curda è valso il principio dei pochi interessi, maledetti ma subito e che questo dovesse passare attraverso un basso profilo collaborazionista con il governo di Washington e le sue truppe di invasione, era per lei, e di gran lunga, il minore dei mali.
Per Barzani e Talabani significava entrare immediatamente all'interno del governo provvisorio, controllare il territorio petrolifero di Kirkuk con le proprie truppe, mentre per l'imperialismo americano l'alleanza con il Pdk e Puk rappresentava l'opportunità di avere nella zona petrolifera più importante un alleato affidabile e sottomesso, il fronte nord iracheno coperto e quindi la possibilità di dedicarsi militarmente al fronte centrale e meridionale, quello sunnita e sciita.
Altro è il discorso per le restanti borghesie sunnite e sciite. La prima si è trovata nella posizione esattamente contraria a quella curda. Dalla presenza americana non solo non avrebbe tratto nessun vantaggio ma avrebbe perso tutto quanto era riuscita ad ottenere sotto il regime di Saddam Hussein, cui aveva fornito i quadri dirigenti dell'esercito, l'apparato burocratico statale, la nomenclatura politica, e dal quale aveva ricevuto tutti i favori economici del caso, quota parte della rendita petrolifera compresa. Lo stesso partito Baath, pur raggruppando al suo interno elementi sciiti e curdi, ha sempre avuto nel mondo sunnita la sua più solida base sociale. La guerra, la caduta del regime e l'occupazione militare hanno cancellato tutto in un attimo gettando la borghesia sunnita sul lastrico senza nessuna possibilità di riscatto economico e politico che non fosse quello di lacchè dei nuovi padroni a stelle e strisce. Non a caso uno dei principali focolai di resistenza alle forze di invasione si è costituito nel cosiddetto triangolo sunnita (Falluja, Samarra e Baghdad) e nelle vecchie roccaforti del potere governativo come a Tikrit.
Tolto il coperchio del regime la risposta della borghesia sunnita è esplosa virulenta. Sul campo innumerevoli sono le formazioni partitiche e militari che vanno organizzandosi per contrastare l'esercito della Coalizione. Prima timidamente, poi sempre con maggiore determinazione, l'arcipelago sunnita sta producendo la sua lotta di resistenza nazionalista anche se, per il momento, senza un'organizzazione centralizzata, in un'apparente confusione di mezzi e di alleanze strumentali se non contraddittorie. In tanto caos due sono però le direttrici sulle quali va organizzandosi la resistenza sunnita, la prima è quella "laica" che fa capo al Partito nazionale sunnita, che raccoglie le istanze politiche e gli elementi appartenenti alla vecchia polizia di regime e al Partito Baath. La seconda è la borghesia teocratica che ha come punti di riferimento il Partito dell'Alleanza patriottica irachena, organizzazione islamica capeggiata dall'Imam Al Kubaysi e i Mujaheddin dell'Ulema Al Duri. Dietro, si intravedono le possibili operazioni della succursale di Al Qaeda in Iraq gestita dal fantomatico Al Zarkawi. Nel mezzo le bande tribali che operano in proprio o che oscillano tra i due schieramenti e che rispondono al comando dei vari capi tribù. Le due componenti borghesi hanno in comune l'obiettivo primario di allontanare dall'Iraq le avide fauci dell'imperialismo americano, poi, se la cosa dovesse riuscire, si aprirebbe immediatamente il redde razionem sulla natura del futuro stato. Per i laici tutto dovrebbe tornare come prima, rendita petrolifera in primo luogo, per i teocratici, che covano la rivincita dai tempi dello smembramento dell'Impero ottomano, sarebbe l'occasione per un ritorno al potere in nome di Allah e del suo dono prediletto, il solito petrolio, ovviamente in un Iraq non più balcanizzato e con priorità all'autonomia curda, ma unico e amministrativamente unito come deve essere uno stato capitalistico che vuole basare la sua ricchezza sull'autonoma gestione della seconda area mondiale di risorse energetiche.
Per gli Sciiti la situazione è un po' più complessa. Pur rappresentando il 62% della popolazione non hanno mai avuto spazio politico nella gestione del potere e hanno subito nel corso degli ultimi decenni pesantissime repressioni. Sia sotto il regime repubblicano, dopo il 1958, che sotto quello baatista dal 68 in avanti, e in modo particolare sotto il regime di Saddam, gli Sciiti hanno patito repressioni, torture e morti a decine di migliaia. In primo luogo perché i regimi laici che si sono succeduti hanno ritenuto di dover fare i conti con le varie correnti politiche del fondamentalismo sciita, in secondo luogo perché la repressione ha toccato anche, se non soprattutto, il vecchio partito comunista iracheno la cui base sociale era prevalentemente sciita. Non a caso tra chi ha gioito per la caduta del regime e per la cattura di Saddam ci sono stati gli Sciiti e i vecchi membri del Partito comunista iracheno. Un partito decimato, isolato, orfano del falso comunismo sovietico, senza base sociale che ha dovuto immediatamente lasciare il campo alle forze religiose sciite.
La rivincita della borghesia teocratica per la scalata al potere è andata articolandosi in tre distinte modalità politiche di azione. La prima, molto compromissoria, umiliante per una forza borghese, è consistita nell'assumere direttamente responsabilità politiche nel governo provvisorio dando vita al più ripugnante collaborazionismo. Una sorta di rinuncia al suo ruolo nazionalistico ma funzionale nel breve periodo al privilegio politico, e in prospettiva, a quello economico, che l'amministrazione americana intenderà concederele. In questa prospettiva si muove lo Sciri (Consiglio supremo della rivoluzione islamica in Iraq) di Al Hakim e il Partito Dowa di ispirazione islamica moderata. Il primo controlla una parte del territorio a sud del 32° parallelo, è organizzato con un esercito di dieci mila uomini, filo iraniano nella fase precedente alla guerra, filo americano nel periodo successivo. È rappresentativo di quella borghesia teocratica moderata che ha ritenuto opportuno di scalare il potere sotto l'ombrello protettivo americano, una borghesia che punta al controllo dei pozzi petroliferi e delle raffinerie della zona di Bassora, beninteso sotto l'egida delle Compagnie americane, che riproporrebbe volentieri il latifondo nel sud del paese come ai tempi dell'Impero ottomano, controllando l'area idrica del corso meridionale del Tigri e dello Shatt el Arab. Il Partito Dowa è più piccolo, quasi insignificante ma la sua posizione all'interno del governo è giustificata dalla presenza di alti quadri di una parte del clero sciita tanto funzionale al governo Bremer - Allawi.
Il secondo segmento della borghesia teocratica sciita è rappresentato dalla figura carismatica dello Ayatollah al Sistani. Più che riferirsi a partiti organizzati, che peraltro ci sono e operano sul territorio, si confonde all'interno di un movimento nazionalistico religioso moderato dal perimetro molto ampio. Si calcola che la stragrande maggioranza della popolazione sciita segua le direttive di Al Sistani e di quella borghesia che lo sostiene e dal quale si sente rappresentata. Il suo atteggiamento nei confronti della presenza di truppe di occupazione e del governo Bremer è ambivalente. Da un lato accetta, a tempo determinato, lo stazionamento delle truppe americane sul suolo iracheno, dall'altra ne contrasta gli aspetti più colonialistici, invoca le elezione dirette e subito e chiede un ruolo più autorevole da parte dell'Onu. È in polemica con le altre due formazioni sciite al governo, rimprovera loro un eccesso di zelo nei confronti degli Americani e si propone come quella forza che sola potrà dare unitarietà politica alla società irachena dopo il ritiro delle milizie di Washington e il passaggio di consegne del potere. Invoca l'omogeneità politica, religiosa, anche se non necessariamente fondamentalista, e di classe, come si conviene ad una forza borghese. L'illusione è che le truppe americane se ne vadano presto, e anche qualora se ne andassero, il futuro governo sarebbe comunque vassallo delle strategie del governo americano con cui qualsiasi forza borghese indigena non collaborazionista sarebbe costretta a fare i conti. La borghesia che fa capo ad Al Sistani dispone di una base sociale variegata che va dalla piccola borghesia urbana ai contadini del sud e a una piccola parte del proletariato, meglio sarebbe dire ex proletariato, industriale e quello occupato nel settore petrolifero. Per un verso invita alla calma la popolazione, per un altro minaccia la guerra santa se i tempi e i modi del promesso disimpegno non fossero rispettati e se la repressione militare alle manifestazioni di opposizione e di scontro nei confronti degli occupanti superasse i limiti della sopportabilità. Quella rappresentata da Al Sistani è una borghesia accorta, che non vuole giocare immediatamente una partita di scontro frontale contro l'imperialismo americano. È attenta agli equilibri internazionali ed interni, Non è con il governo di occupazione ma non è nemmeno contro, si muove sul terreno del realismo politico accontentando quegli elementi della borghesia che non vogliono rischiare di perdere tutto sin dall'inizio, e scontenta le fasce più radicali che si propongono immediatamente sul terreno dello scontro frontale per creare le condizioni di uno sfruttamento autonomo delle ricchezze energetiche e della forza lavoro richiesta, senza condizionamenti internazionali che non siano quelli dettati dal mercato petrolifero. Di questa ultima fascia fa parte Moqtada Al Sadr, figlio dell'Ayatollah Al Sadr giustiziato nel '99 da Saddam Hussein.
Le terza componente della borghesia sciita, integralista e filo iraniana, ha come modello politico la rivoluzione Khomejnista, come modello sociale la Repubblica islamica con la sharja quale bussola giuridica per il comportamento dei cittadini e delle istituzioni sociali. Impone la ferrea osservanza alle leggi coraniche, l'assoluta obbedienza alle normative economiche che regolano la società: niente sindacati, nessuna rappresentanza da parte del mondo del lavoro, ferrea disciplina nei rapporti tra capitale e forza lavoro. Vagheggia una Repubblica sotto l'egida della teocrazia integralista senza nessun cedimento nei confronti dei debosciati modelli occidentali, comunismo compreso. Anzi, all'ideologia comunista è riservato un trattamento particolare in quanto atea e inconciliabile con la sharja. È un atteggiamento assolutamente non nuovo nelle formazioni politiche integraliste, è bagaglio ideologico anche per le altre formazioni islamiche, ma con una particolare applicazione repressiva, che fa delle Brigate di Moqtada Al Sadr il perno reazionario contro qualsiasi possibile ripresa di lotta di classe in Iraq.
In questo primo anno di amministrazione americana Al Sadr si è proposto come il rappresentante dell'unica, vera forza borghese, fortemente nazionalista e coerentemente integralista. Ciò lo ha portato a tentare di risolvere i problemi di egemonia all'interno del mondo sciita sul terreno della forza. A lui si imputano alcuni omicidi eccellenti, tra i quali quello di Abdul Majid al Khoei e dell'Ayatollah Al Hassin e l'attentato nei confronti dello stesso Al Sistani. Il suo territorio si estende attorno alle città sante di Kerbala e Najaf e Kufa. La sua base sociale raccoglie, oltre al mondo religioso ultra ortodosso, i diseredati delle città a maggioranza sciita e alcuni sotto proletari dei quartieri più poveri di Baghdad. Sul fronte della resistenza è certamente la forza che maggiormente si oppone alla presenza della Coalizione, le sue Brigate (al Mahdi) si muovono sul terreno della guerriglia e dell'imboscata. Nessun atteggiamento compromissorio con il nemico, guerra senza quartiere all'esercito occupante. C'è chi lo definisce un parvenu, un personaggio di poco conto che sta giocando una partita disperata. Nei fatti, al momento, la sua azione gode dell'appoggio sempre crescente della popolazione sciita e sta costringendo le altre forze a misurarsi sul terreno della radicalizzazione politica e della resistenza armata.
Al panorama delle forze borghesi, curde, sunnite e sciite, laiche o confessionali, compromesse con il governo Bremer, in aperta contrapposi-zione o nel mezzo del guado, mancherebbero decine di altre formazioni il cui ruolo risulta secondario e destinato ad essere convogliato all'interno dei tre filoni che oggi appaiono per essere quelli trainanti. Una sola la caratteristica che le accomuna: il nazionalismo borghese; il suo contenuto economico: il capitalismo; la sua appendice politica: l'anti comunismo e l'assoluta indifferenza nei confronti di un mondo del lavoro completamente distrutto e devastato dalla guerra.
Il fronte proletario
Il disastro economico prodotto dalle conseguenze delle due guerre e dall'embargo, le centinaia di migliaia di morti, gli effetti devastanti delle scorie all'uranio impoverito, la fame e la miseria hanno determinato il collasso anche nel mondo del lavoro iracheno.
I dati sono impressionanti: dei sei milioni di lavoratori dipendenti nei settori non agricoli, su di una popolazione di 24 milioni, il 65% è disoccupato. In realtà il dato statistico è errato per difetto. Gli unici nuovi impieghi disponibili sono quelli della ricostruenda pubblica amministrazione, in altre parole della Polizia al servizio del governo provvisorio e poco altro.
Lunghissime sono le file per iscriversi ai corsi di addestramento nella speranza di avere un salario, anche minimo, ma in grado di sfamare una famiglia. Ciononostante è successo che alcuni poliziotti, finito il periodo di addestramento, si siano rifiutati di andare a sparare contro altri proletari in manifestazioni di protesta per un posto di lavoro e per un pezzo di pane.
Gli addetti alla produzione petrolifera e alle raffinerie sono pochissimi, sia perché la produzione è ancora sotto ritmo, non si è nemmeno superata la quota di due milioni e ottocento barili al giorno che era prodotta durante il periodo dell'embargo in base alla risoluzione Oil for food, sia perché gli oleodotti sono quotidianamente oggetto di attentati, e per l'amministrazione americana è più importante vigilare con truppe in affitto e con i propri uomini che assumere nuova forza lavoro, e sia perché la stragrande maggioranza degli addetti ai pozzi e alle raffinerie fa parte dell'oil corp, ovvero delle maestranze e dei tecnici delle compagnie petrolifere americane. Le raffinerie di Mosul, Baghdad, Bassora e Maditha lavorano poco, sono sotto organico o addiritura ferme. Le attività estrattive di fosfati a Akashat e di zolfo a Mishraq hanno quasi cessato ogni attività. Funzionano a rilento le miniere di sale a Fao. L'industria siderurgica di Khor al Zubair ha praticamente chiuso licenziando tutti i suoi dipendenti. Producono a bassi livelli le cartiere di Bassora, i cementifici di Baghdad, di Sinjar e Kirkuk. Gli altri settori produttivi versano nella più assoluta depressione. Si salva, ma a livello di sussistenza locale, un po' di agricoltura nel nord, nella zona di Kirkuk e Mosul, a sud nell'area agricola di Bassora, attorno allo Shatt el arab dove si produce riso e frumento, e poche altre attività a prevalenza artigianale. Ne consegue che, distrutto il tessuto produttivo, anche il proletariato iracheno è stato brutalmente gettato nel girone infernale della disoccupazione e della fame, quella vera, non quella della letteratura sociologica spicciola.
La risposta c'è stata a questo stato di cose e a chi le ha create, ed è stata violenta e determinata. Nelle grandi città come Baghdad e Bassora, nei centri più periferici come Kerbala e Najaf, la resistenza alle truppe della Coalizione ha assunto livelli di vera e propria guerriglia. Proletari, sotto proletari, diseredati sociali delle grandi periferie urbane si sono mobilitati in uno sforzo di reazione spontanea all'arroganza militare e all'umiliazione politica subite. Ma la loro mobilitazione ha avuto come sponda soltanto la strumentalizzazione nazionalistica della varie componenti borghesi.
La rabbia e la disperazione di milioni di proletari è stata ingabbiata nella trappola delle più reazionarie ideologie teocratiche o integraliste delle fazioni borghesi o dal laicismo revanscista dei resti baatisti del vecchio regime. Persino i due sedicenti partiti comunisti non hanno saputo dare una risposta di classe alla mobilitazione del proletariato iracheno. Il vecchio partito comunista, quello stalinista, che è stato decimato dal partito Baath negli anni settanta e completamente annichilito dalla feroce repressione di Saddam Hussein negli anni ottanta, risorto dalle sue ceneri dopo la caduta del regime, non ha trovato di meglio che candidare alcuni dei suoi membri a posti di responsabilità politica all'interno del governo provvisorio di Bremer - Chalabi prima, Allawi poi. Quel Partito, che per decenni ha rappresentato la lunga mano dell'imperialismo sovietico in Iraq e in buona parte del mondo medio orientale, si è messo a disposizione dell'imperialismo americano convinto di usufruire, con l'avvento della democrazia made in Usa, degli spazi politici idonei alla sua ricostruzione. Nel frattempo si comporta a tutti gli effetti come un partito collaborazionista, non operando nemmeno come una qualsiasi forza borghese nazionalistica e contribuendo a deprimere ancora di più l'aggettivo comunista che spudoratamente pretende di esibire sulla scena politica irachena.
Di diverso tenore ma di uguale fallimento politico è il comportamento del Partito comunista operaio iracheno. Di recente formazione è gemellato con l'omologo Partito iraniano. In nome di un internazionalismo di facciata, di fronte alla guerra di aggressione americana, in risposta al dilagante opportunismo nazionalistico delle forze politiche laiche e contro le varie fazioni borghesi della teocrazia islamica, la sua scelta è stata quella di chiamare le masse a sostenere il vero processo di democratizzazione della società.
La sua mobilitazione politica si articola su di un programma minimo che prevede un lungo elenco di conquiste democratiche che vanno dalla ricostituzione delle rappresentanze sindacali, ad una maggiore tutela del mondo del lavoro, alla creazione di tutte le istanze di rappresentatività sociale e di libera associazione dei cittadini, per un futuro Iraq laico, democratico e indipendente. A questo scopo, e per risolvere l'immediata questione bellica e di latente guerra civile che oggi pesano come macigni sulle spalle del proletariato, invoca l'intervento dell'Onu quale unico ente superiore in grado di creare le condizioni per un futuro processo di vera democratizzazione della società irachena. Poi si potrà ricominciare a parlare di lotta di classe e di comunismo.
Dello stesso tenore, se non peggio, è il comportamento dei Sindacati. Il primo IFTU (iraqi free trade unions) è l'unico ammesso dal governo ed è, a tutti gli effetti, un Sindacato di regime. I disoccupati iracheni che aspirano a trovare un posto di lavoro devono passare attraverso il suo controllo che è essenzialmente politico. È una organizzazione che non protesta, non organizza i lavoratori e i disoccupati per migliorare le condizioni di vita, in compenso favorisce l'agibilità economica delle imprese straniere operanti sul territorio.
Un altro è UUI (Union of the unemployed in Iraq) è il classico Sindacato che cerca di affrontare i problemi del mondo del lavoro, della tutela dei salari, nel quadro delle compatibilità della situazione. Si propone anche come forza politica per una società laica e democratica.
Secondo le informazioni di cui disponiamo questo è tutto quello che si muove sul fronte di classe in Iraq in questo momento.
In un simile quadro per il piccolo proletariato iracheno - che ha perso i riferimenti materiali al suo essere classe e che non ha più, da decenni, un punto di riferimento politico e che è completamente isolato nel dramma di una guerra di feroce rapina - la trappola nazional borghese dell'integralismo, o della sue versioni islamiche più moderate, ha avuto facilmente spazio e agibilità d'azione.
Nessuna borghesia, tanto meno quella islamica impegnata nello sforzo di resistenza nazionale, può fare a meno di avere dalla sua parte una quota, la più consistente possibile, di proletariato. Ogni suo anelito di autonomia sarebbe vano, se non facesse salire sul carro dei suoi interessi la rabbia e l'insoddisfazione delle masse proletarie.
La tattica è vecchia quanto è antica la divisione della società in classi. Si può impugnare lo spirito nazionalistico, si sventola la bandiera della democrazia contro il totalitarismo, ci si può attaccare al sentimento religioso, al vero verbo dell'unico dio e alle sue inviolabili leggi trascendenti, ma l'obiettivo è sempre lo stesso: avere a disposizione una massa di manovra da usare per il raggiungimento dei propri fini di classe.
Per i comunisti questo è il nodo che occorre sciogliere prima di tutto. O si lavora, nella situazione data, per sottrarre le masse proletarie all'influenza ideologica della loro borghesia, comunque venga proposta, oppure qualsiasi movimento finisce per rimanere all'interno della strategia borghese senza nulla aggiungere al crescere della coscienza di classe, ai suoi obiettivi contingenti e strategici, anzi negandoli e rendendo più difficile qualsiasi futura ripresa della lotta di classe.
È quello che è avvenuto in Iran nel corso della rivoluzione khomejnista contro lo Shà e l'ingerenza petrolifera americana, è quello che sta avvenendo nei territori occupati da parte delle forze nazional integraliste palestinesi contro Israele e l'appoggio americano, è quello che sta avvenendo in Iraq.
È palese sino all'evidenza che, nonostante il potere propulsivo della crisi economica, che esiste, e forte, benché si sia prodotta la disponibilità alla lotta di segmenti consistenti del proletariato e delle masse diseredate, niente e nessuno sarebbe in grado di spostare l'asse dello scontro verso una prospettiva di classe in senso rivoluzionario. Non è all'ordine del giorno, in un paese come l'Iraq, né una consistente ripresa della lotta di classe, né tanto meno, la presa del potere politico.
Chi lo pensasse o soltanto lo sperasse si collocherebbe nel regno delle perturbazioni oniriche. Sarebbe come sperare che una piccola talpa, debole e isolata, facesse crollare una montagna. Mancano tutte le condizioni soggettive.
Il proletariato iracheno è ben lontano dall'aver riconquistato un minimo di coscienza di classe. Manca la presenza di un partito rivoluzionario che abbia significativi radicamenti all'interno del proletariato e visibilità politica nelle altre stratificazioni sociali. È assolutamente inesistente qualsiasi forma di collegamento di classe con i proletariati dell'area. La prospettiva comunista, lì come nel resto del mondo occidentale, arranca, è debole dopo il decennale lavoro di sistematica falsificazione dello stalinismo. Dopo il crollo dell'Urss, le borghesie internazionali, quelle islamiche comprese, hanno avuto buon gioco a richiamare all'ordine i rispettivi proletariati ingannandoli per la seconda volta.
Queste situazioni non possono però trasformarsi in un tragico alibi per le eventuali sparute forze comuniste interne e per quelle internazionali che fanno ancora riferimento alla lotta di classe, alla rivoluzione e alla prospettiva del comunismo.
C'è chi dice: non esistono le condizioni soggettive per una vera lotta di classe, manca il partito, mancano i minimi agganci internazionali, siamo in presenza di una guerra di liberazione nazionale con tutto ciò che comporta sul ridotto quadro politico, per cui viene drasticamente abbassato il registro tattico; occorre alloora essere realisti e agire di conseguenza.
Ne discenderebbe quindi che l'unico percorso praticabile sarebbe quello delle conquiste democratiche, oppure, ed è bagaglio teorico di molti sedicenti comunisti europei ed italiani in particolare, che la sola azione vincente consisterebbe nell'appoggio alle masse arabe qualunque fosse la loro guida politica.
Ciò è semplicemente e drammaticamente rinuncia a qualsiasi prospettiva di classe nell'immediato e, cosa ancora più grave, rinuncia a una ripresa rivoluzionaria in prospettiva, se dalla situazione attuale non si lavora per la costruzione di tutto ciò che manca.
Se manca il Partito di classe, se latitano persino le avanguardie rivoluzionarie, il primo inderogabile compito dei comunisti è quello di lavorare - nella situazione data, e non in una ipotetica che nei termini auspicati non si produrrà mai da sola - per la loro formazione e il loro sviluppo. Se non esistono nell'area interessata altre organizzazioni di classe, se mancano i minimi collegamenti tra frange proletarie che ancora subiscono il richiamo delle rispettive borghesie, l'altro obiettivo che va costruito giorno per giorno, lotta dopo lotta, è quello di favorire un minimo di coscienza internazionalista tra le varie esperienze proletarie nazionali.
Se il comunismo è al momento considerato, nella migliore delle ipotesi, un'utopia che la storia si sarebbe incaricata di cancellare dalla faccia della terra, o una tragedia per i proletari peggiore del dramma capitalistico, il lavoro politico che occorre fare è quello di riproporre, con chiarezza di analisi e concretezza propositiva, che il comunismo è l'unica alternativa allo sfruttamento, alle guerre e alla barbarie sociale che progressivamente l'umanità è costretta a subire.
Quando si viene meno a questi fondamentali parametri, qualunque sia la soluzione tattica alternativa, si cessa di appartenere al campo proletario per passare nei fatti in quello borghese. Il compito dei rivoluzionari è quello di tessere le condizioni soggettive, là dove non esistono, per mettersi nelle migliori condizioni possibili in una fase di ripresa della lotta di classe. Altrimenti si sarà sempre in presenza di una situazione anomala, arretrata, priva dei requisiti soggettivi idonei a produrre una politica di classe.
Il capitalismo di situazioni analoghe a quelle medio orientali è destinato a produrne ancora e sempre più virulente sotto qualsiasi latitudine politica Tutte le volte ci troveremmo a tralasciare il lavoro di impostazione rivoluzionaria perché le condizioni soggettive non sarebbero mai sufficientemente mature.
O si teorizza che queste condizioni matureranno autonomamente, magari sotto la spinta di fattori oggettivi (ma non ci sono già?), in una sorta di delirio meccanicistico dove tutto si produce per germinazione spontanea, oppure è assolutamente necessario concorrere alla loro nascita. Certamente non si stimola la formazione di avanguardie comuniste in Iraq, come in qualsiasi paese medio orientale, dando indicazione alle masse proletarie di combattere contro l'occupazione dell'imperialismo americano solo per ottenere gli spazi democratici, o per appoggiare le varie frange borghesi dell'integralismo islamico. Ciò significherebbe soltanto portale verso la sconfitta immediata e consegnarle per altri episodi di guerra nazionale e/o di guerra civile, alla perenne mancanza o debolezza dei loro strumenti politici di classe che soli consentirebbero il rovesciamento rivoluzionario.
Né vale la tesi, tanto esibita dai soliti rivoluzionari nostrani, che ogni concreto atto di opposizione contro la protervia dell'invasore si configura come un atto di lotta anti imperialista.
La storia della lotta di classe ha ampiamente dimostrato che l'unico anti imperialismo possibile è quello anticapitalistico, tutto il resto è, e rimane, all'interno del quadro capitalistico e borghese, conservatore per sua natura, reazionario quando è il caso.
Anche supponendo che la guerra di liberazione nazionale irachena ottenesse il risultato di scacciare l'esercito d'invasione e che la gestione del petrolio e della rendita conseguente rimanessero all'interno dello stato liberato, non si creerebbero nemmeno le condizioni perché le briciole della suddetta gestione petrolifera arrivino a migliorare le condizioni del proletariato indigeno. Innanzitutto va detto, e saremmo sempre all'interno di una visione fanta politica, che per ottenere un simile risultato occorrerebbe non solo l'unità delle fazioni borghesi interne, ma anche l'unità del proletariato iracheno con altri proletariati dell'area, all'interno di uno sconvolgimento economico e politico ben più ampio di quello attuale.
Se ciò si verificasse, a maggior ragione, l'indicazione che i rivoluzionari dovrebbero dare sarebbe quella del coagulo delle forze proletarie di tutta l'area e, possibilmente, porre concretamente il problema dell'appoggio delle forze proletarie internazionali, per rovesciare i termini della questione accelerando tutti i fattori soggettivi della prospettiva rivoluzionaria; non certo quella di appiattirsi sul terreno degli interessi economici e politici nazionali.
In seconda battuta va rilevato come le borghesie petrolifere, anche quando libere e autonome, dall'Arabia Saudita al Kuwait, dall'Iran agli Emirati Arabi Uniti, dallo stesso Iraq alla Libia, abbiano concesso ben poco ai proletariati nell'ambito della loro amministrazione teocratica o laicista della rendita petrolifera e che quel poco è stato sempre pagato con la valuta dello sfruttamento più vergognoso.
Questa impostazione non è nemmeno paragonabile al vecchio, becero, programma minimo di riformistica memoria, è, e rimane, la rinuncia a qualsiasi passo in avanti verso la prospettiva di enucleare le prime avanguardie comuniste e rivoluzionarie in un'area che, per interessi economici e strategici e per slanci ribellistici, solleciterebbe ben altre analisi e prassi politiche anche se piccole e in un mare immenso di problemi.
È storicamente l'ora, in termini assoluti ed impellenti, della costruzione dei primi nuclei del futuro Partito di classe, in ogni situazione sociale, sotto qualsiasi latitudine politica, in modo particolare là dove gli eventi bellici provocati dall'imperialismo si esprimono in tutta la loro devastante opera di aggressione e di distruzione. Altrimenti i proletariati saranno sempre facile preda delle loro borghesie e costretti soltanto a scegliere tra un aggressore esterno e uno sfruttamento domestico, tra una situazione pessima e una apparentemente meno peggio, senza mai tentare di imboccare l'autonoma strada della rivoluzione proletaria.
fd(1) Vedi "Iraqi fail to regain control of oil revenue" su aljazeera.com 1 giugno 2004
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