L'imperialismo cinese alla ricerca di nuovi spazi... a Est e a Ovest

Le proteste contro il Giappone

Vedendo quello che succede, viene in mente quando i maoisti nostrani cantavano l'Oriente è rosso. Ma, oggi come allora, il colore delle bandiere agitate nei cortei o dei visi contratti dal furore c'entra ben poco con gli interessi del proletariato cinese. Ancora una volta le masse popolari - espressione non a caso così cara ai controrivoluzionari - scese in piazza sono cinicamente strumentalizzate dalla classe dominante per i suoi fini.

Di cosa si stia parlando, non è difficile intuirlo, il fatto è noto: verso la metà di aprile, migliaia di manifestanti hanno attaccato, in parecchie città della Cina, ristoranti, sedi commerciali e diplomatiche giapponesi, indignati per l'ennesimo rifiuto da parte del Giappone di riconoscere le atrocità compiute dalle sue truppe di occupazione durante gli anni trenta e quaranta in territorio cinese. Nella fattispecie, il governo giapponese ha riconfermato la sua approvazione a libri scolastici di storia in cui, per esempio, del massacro di Nanchino (1937: oltre 300.000 morti) e degli orribili esprimenti compiuti su decine di migliaia di cavie umane non c'è traccia alcuna. Inoltre, l'attuale governo Koizumi, esattamente come tutti quelli che lo hanno preceduto, si ostina a negare qualsiasi indennizzo ai superstiti degli esperimenti e alle "donne di conforto" cinesi e coreane costrette a prostituirsi nei bordelli riservati alle truppe giapponesi.

Tuttavia, ciò che colpisce non è, ovviamente, l'esplosione della rabbia di chi ha preso a sassate i ristoranti nipponici, indubbiamente sincera, quanto l'atteggiamento delle autorità, che si sono limitate a contenere le proteste senza pigiare il piede sull'acceleratore della repressione, il che, in Cina, è molto inusuale. Infatti, solo qualche giorno prima, due anziane contadine della provincia costiera dello Zhejiang sono state schiacciate dagli automezzi della polizia, inviata per stroncare con la solita durezza la protesta dei contadini contro la devastazione ambientale provocata dall'insediamento nella zona di industrie chimiche. Manifestazioni di questo genere, così come quelle operaie, benché completamente ignorate dai mass-media, sono pressoché quotidiane, dato che le terribili condizioni di esistenza del proletariato, unite al dilagante degrado di acqua, aria e suolo, rendono la vita letteralmente impossibile a centinaia di milioni di diseredati. Certo, massacri, carcere e botte in quantità industriali sono necessari, ma, alla lunga, non sufficienti per governare il "miracolo" cinese; ci vuole qualcosa d'altro che, annebbiando la coscienza delle masse, devii la loro rabbia su di un terreno gestibile dalla classe dominante. Cacciata in soffitta l'ideologia maoista, ecco che torna buono il nazionalismo vecchio stile, la trappola sempre efficace con cui la borghesia mette nel sacco il proletariato. In breve, si tenta di creare una valvola di sfogo alle fortissime tensioni interne - spinte separatiste comprese - dirigendole verso quello che è uno dei principali ostacoli alle aspirazioni imperialiste cinesi: il Giappone, appunto. Il fatto che il paese del Sol Levante sia il primo partner commerciale della Cina - e viceversa - non deve trarre in inganno. L'interdipendenza economica non attenua affatto i contrastanti interessi imperialistici, in primo luogo nell'area estremo-orientale, tra la seconda potenza economica del pianeta - il Giappone - tuttora in affanno, e una Cina che cresce impetuosamente proprio grazie al corrispettivo declino economico della "metropoli" capitalista. Ormai la borghesia cinese non solo si sente forte abbastanza da alzare la voce sullo scacchiere internazionale, ma è spinta dalla natura stessa della sua crescita e dal fosco contesto economico mondiale ad un nuovo protagonismo planetario. I più avvertiti esponenti di questa borghesia sanno bene che uno sviluppo così accelerato non può durare a lungo, per questo sgomita, cercando di allargarsi sui mercati di sbocco e delle materie prime, nonché dei capitali, dei propri concorrenti.

Ultimamente, la Cina ha intensificato i rapporti - anche militari - con la Russia, con alcuni paesi chiave dell'America Latina (Brasile, Argentina, Venezuela, in primis), con lo storico antagonista indiano, e sempre più insistentemente pone sul tappeto la questione di Taiwan, centrale nel suo disegno strategico. Tanto indaffararsi non può non inquietare il Giappone e, naturalmente, gli Stati Uniti, i quali non tollerano di vedere crescere politicamente e militarmente il paese che li rifornisce di merci a basso costo e di capitali con cui sostenere il loro gigantesco debito pubblico e privato. "Condy" Rice, nel recente viaggio in Estremo oriente, ha detto senza mezze parole che la Cina deve stare al suo posto, che deve mettere un freno ai piani di sviluppo della marina militare, mentre ha pubblicamente appoggiato Tokyo nella sua aspirazione ad occupare un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell'ONU: più o meno, un cazzotto nello stomaco a Pechino, che si è sempre opposta a tale prospettiva.

Se a tutto questo aggiungiamo l'inasprirsi della controversia sui giacimenti di gas situati in una zona di mare contesa da tempo immemorabile tra Tokyo e Pechino, risulta del tutto credibile ipotizzare che i disordini antigiapponesi siano stati, più che tollerati, incoraggiati dalle autorità cinesi.

Dunque, come si diceva, i sempre più stretti legami economici paralleli alla crescita imponente delle spesi militari tra le due sponde del Mar Cinese, dirette in primo luogo contro il proprio principale cliente, sono un paradosso solo in apparenza, poiché il tutto rientra perfettamente nella logica dell'imperialismo.

La partita tra l'imperialismo giapponese, in debito d'ossigeno, e la "new entry" cinese è appena cominciata: di gomitate e colpi proibiti ne vedremo certamente ancora.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.