Crisi, lotta di classe, partito rivoluzionario

A parte alcuni significativi episodi, l’innalzamento della temperatura sociale da tanti - noi compresi - auspicato, tarda ad arrivare...

«Senza un’organizzazione dirigente, l’energia delle masse si volatilizzerebbe come il vapore non rinchiuso in un cilindro a pistone. Eppure il movimento dipende dal vapore e non dal cilindro o dal pistone (1)

Introduzione: un nuovo Autunno caldo?

Allora, viene o non viene? Ci riferiamo a quell’innalzamento della temperatura sociale da tanti - noi compresi - auspicato, ma, finora - primi di novembre - riguardante per lo più l’ambito meteorologico, quale indizio supplementare dei probabili sconvolgimenti climatici che ci attendono nell’immediato futuro. La crisi, che politicanti ed “esperti” interessati si affrettano a dare per superata, avrà forse toccato il punto più basso, per quanto riguarda gli indicatori economici, ma, certo, sul panorama sociale regna ancora quanto meno una discreta penombra, che, per altro, minaccia di infittirsi. Diversi economisti di varia natura concordano pressoché unanimemente sul fatto che se anche l’economia dovesse uscire dalle secche in cui si trova, ciò non comporterebbe un’immediata diminuzione della disoccupazione, al contrario: la perdita di posti di lavoro continuerebbe ancora per un periodo di tempo indeterminato. Certo, ci sarebbe sempre qualcuno, come la Marcegaglia, che troverebbe anche in questo cupo scenario una nota positiva, per esempio, che i suddetti decantati segnali di uscita dal tunnel consentirebbero di limitare l’aumento dei disoccupati a settecentomila unità, e non a oltre un milione, come sostengono i soliti “gufi”. Ma dai padroni e dai loro innumerevoli servi non si può pretendere altro. Invece, anche quella prospettiva “migliorativa” significherebbe un rude colpo alle condizioni generali di esistenza di un proletariato già duramente provato da decenni di attacchi, striscianti o frontali, da parte di una borghesia “incattivita” dall’approfondirsi delle difficoltà economiche e assecondata - aspetto non secondario - dalla inadeguatezza della risposta operaia e proletaria.

L'inadeguata - finora - reazione proletaria

Lasciando dunque per il momento da parte un giudizio politico sull’Autunno caldo del 1969, già quell’ultimo elemento ci può aiutare a capire quanto siano diverse le condizioni generali della classe operaia (intesa in senso lato) di oggi rispetto a quella di quarant’anni fa. Allora giungeva al culmine il periodo di espansione generato dalla seconda guerra mondiale, e se la classe operaia non banchettava certo a caviale e champagne, tuttavia poteva contare su di un elemento di forza oggi, di fatto, scomparso. Parliamo della cosiddetta “piena occupazione” e della quasi certezza di poter trovare abbastanza facilmente un posto fisso - per quanto di fisso il capitalismo, oltre allo sfruttamento, possa garantire - tanto da potersi permettere persino il “lusso” di autolicenziarsi (senza esagerare, va da sé) e di cambiare lavoro. Erano poi ancora in piedi le cittadelle operaie, le grandi, gigantesche fabbriche che facevano da locomotiva della lotta di classe, benché per lo più in chiave sindacale e solo raramente - e per breve tempo - al di fuori della doppia camicia di forza imposta dal sindacato e dai partiti di sinistra (PCI in primo luogo). Va aggiunto che, tranne nelle “Vandee operaie”, era viva e pulsante l’identità di classe, intrecciata con l’aspirazione a un mondo diverso, benché profondamente distorta dallo stalinismo. Com’è noto, questo quadro è profondamente cambiato. Non è scomparsa la classe operaia, anzi; giusto per fare un esempio, in termini numerici i metalmeccanici sono più numerosi oggi che negli ani sessanta, ma il lavoro dipendente è stato sbriciolato nel territorio, frammentato fisicamente e segmentato artificialmente in mille categorie apparentemente diverse. La precarietà è ridiventata una pistola puntata alla tempia di settori sempre più numerosi di “classe operaia”, i quali, ovviamente, hanno meno possibilità di opporsi ai ricatti del padrone, indebolendo così, loro malgrado, tutta la classe. Non è un caso, per esempio, che la direzione aziendale prolunghi il contratto degli interinali proprio mentre si appresta a licenziare o a smantellare gli impianti, com’è successo alla SPX di Parma (giusto per citare un episodio tra i tanti). Ma le virtù - per i padroni - della precarietà non finiscono qui: oltre a costituire una forza-lavoro più docile, è la prima a subire i contraccolpi della crisi, preservando, fino a un certo punto, la manodopera “stabile” e solitamente meno giovane dalle prime difficoltà (2). È grosso modo lo stesso ruolo imposto alla forza-lavoro immigrata, spezzone non indifferente della classe operaia vera e propria, la cui vulnerabilità è aggravata da leggi di stampo fascista che ne rendono precario non solo il posto in fabbrica, ma l’intera esistenza. Sia chiaro, in tutti i paesi e in tutte le epoche, la borghesia ha cercato di rendere quanto più insicura possibile la vita degli emigranti, ma in un quadro di crisi come quello odierno, la posizione del migrante è ancora più difficile e questa debolezza si riverbera sull’insieme del proletariato. In breve, per un apparente paradosso, il mondo del lavoro salariato/dipendente è decisamente più robusto, dal punto di vista numerico, che ai tempi dell’Autunno caldo, ma, anche solo sul terreno sindacale, è molto più debole; almeno così sembra. Per non salire - o scendere - poi sul piano politico: dopo il crollo del “socialismo reale” (mito falsissimo, ma funzionante), la speranza in un’alternativa o non esiste o è stata così bastonata da essere considerata, ben che vada, un bel sogno. Politicamente, ampi settori di classe sono stati degradati a “branco” guidato dalle peggiori espressioni (ammesso che ne esistano di migliori) dell’ideologia borghese, sciommiottante mentalità e stili di vita della piccola borghesia. Pur dando un valore relativo alle manifestazioni politiche della classe in un’epoca non rivoluzionaria (cioè quasi sempre), è significativo che proprio la fascia più giovane del lavoro salariato voti - quando vota - a destra, se dobbiamo credere a una recente inchiesta della CGIL, e giusto in un periodo in cui le difficoltà sociali dovrebbero agitare le acque della società e quindi dell’ideologia borghese. Allora, le acque magari si agitano, ma non nel senso che desideriamo o che viene dato erroneamente per scontato in certi ambienti che si pretendono rivoluzionari. Lo schema di questo ragionamento prevede che il malessere prodotto dalla crisi inneschi un’esplosione sociale contro i meccanismo economico-sociali della società borghese. Ora, come diciamo da sempre, la crisi è la condizione necessaria perché le masse si mettano in movimento, ma non sufficiente; bisogna poi vedere in quale direzione si muovono e chi guida il movimento. Se, finora, come si è detto più indietro, la reazione proletaria a trent’anni di pestaggi sociali, in Italia e nel resto del mondo, è stata inadeguata, forse ciò non è dovuto unicamente alla frantumazione, alla ricattabilità, alla perdita di identità e di prospettive, ma anche al fatto che i margini per incassare i colpi del pestaggio erano abbastanza ampi. È un’ipotesi, naturalmente, ma a parte che una delle botte più pesanti, vale a dire la svalorizzazione verticale delle pensioni, si farà sentire davvero tra qualche anno, solo in quest’ultimo periodo si allarga la fascia di chi fa molta fatica a vivere con lo stipendio, mentre, bene o male, continuano a funzionare gli ammortizzatori sociali, ufficiali, quali la cassa integrazione, e non ufficiali, come il cosiddetto welfare familiare., spesso intrecciati. Per esempio, il “bamboccione” trentenne precario, costretto a vivere in famiglia, mantenuto, di fatto, da genitori e nonni, sarà anche giustamente “incazzato”, vivrà in un limbo di frustrazione, ma ha la certezza del vitto, dell’alloggio e di quelle piccole spese correnti che gli permettono un livello minimo di vita sociale: discoteca, bar, la benzina nella macchina e persino, forse, una breve vacanza d’estate. Inoltre, precario o fisso, non è per niente raro che tenga per sé gran parte, per non dire la totalità dello stipendio.

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Dunque, tra la crisi e i contraccolpi materiali della stessa a livello di massa - non di minoranze politicizzate - si sono interposti una serie di filtri che hanno la funzione di attutire i morsi più dolorosi. Nessuno però può dire quale sia il livello di sopportazione, il punto di rottura di un malessere sociale che esiste indipendentemente dalle sue manifestazioni politiche di superficie, compreso dunque il razzismo o lo scoramento fatalista:

«… non c’è affatto bisogno dell’impoverimento assoluto per produrre sentimenti rivoluzionari. Non c’è bisogno di ridurre la gente in miseria perché essa cominci a ribellarsi; la ribellione può nascere non appena la gente vede colpire profondamente il proprio abituale livello di vita o si vede impedire l’accesso la livello di vita che considera proprio. La gente che sta bene economicamente trova difficile sopportare le privazioni ed è tenacemente attaccata all’abituale livello di vita. In questo senso, la parziale perdita della diffusa “opulenza” può bastare a distruggere l’esistente consenso (3)

È anche vero, però, che le capacità di adattamento e di sopportazione della “gente” alle situazioni più difficili possono essere notevoli e allora, ancora una volta, diventano fondamentali elementi quali l’intensità e la durata della crisi. Detto in altri termini, se le risorse della cassa integrazione si esauriscono, se la disoccupazione - e semioccupazione - cresce o non cala, se i salari si affannano sempre di più a rincorrere il costo della vita, sarà molto difficile, per la borghesia, rallentare o “mettere in pausa” il processo che porta alla formazione di una miscela sociale esplosiva. In questi ultimi trent’anni, la borghesia, con la complicità - non è mai superfluo ricordarlo - del sindacato, è riuscita ad anestetizzare la lotta di classe già al livello elementare, cioè sindacale, tant’è vero che mentre

«nel decennio 1969-1978 le ore perse per sciopero erano state in media 143 milioni l’anno, con una punta di 302 milioni nell’autunno caldo, nel decennio 1998-2008 si è scioperato in media 5,8 milioni di ore all’anno (4)

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A conferma di questa tendenza, il “Sole 24 ore” del 30 settembre scorso riportava un dato dell’ISTAT secondo il quale nel primo semestre del 2009 le ore di sciopero sono diminuite del 71% rispetto allo stesso semestre dello scorso anno. Si “scopre”, insomma, ciò che è una costante nella storia della classe operaia e cioè che la crisi, oltre a suscitare rabbia contro il sistema, diffonde la paura e che questa è, almeno per un periodo non prevedibile e fino al famoso livello di rottura, più forte della prima. La paura di finire in cassa integrazione, di non vedersi rinnovare il contratto a tempo determinato, di essere semplicemente licenziato e di trovare poi un posto - se lo si trova - a condizioni peggiori di quelle precedenti; quante volte, in questo periodo, anche là dove il “posto fisso” e relative “garanzie” contrattuali erano la regola, chi cerca un lavoro si sente dire: «Vuoi da lavorare? D'accordo, ti do settecento euro al mese, sabato mattina compreso: prendere o lasciare!». La paura è quindi un’arma potente nelle mani del padrone, che può imporre meglio di prima l’aumento dello sfruttamento e il proprio dispotismo: i classici assi nella manica, assieme alla guerra, per superare le difficoltà economiche. Che poi il superamento sia per forza di cose temporaneo, è un altro discorso, come dimostra il fatto che prima di ogni caduta dell’economia salga il saggio di sfruttamento: l’importante è tirare avanti, magari illudendosi di essersi lasciati dietro le spalle l’ultima crisi del sistema.

Avanguardie di fabbrica e partito

Di fronte a una scarsa reazione della classe in generale, in questi ultimi tempi sono però apparsi diversi episodi di lotta, anomali secondo il solito tran tran sindacale, anche se rimangono - per quanto se ne sa - circoscritti al quadro della difesa immediata, “economica” dall’attacco padronale. Episodi per alcuni versi clamorosi, come, soprattutto in Francia, il sequestro di dirigenti e il “minamento” della fabbrica oppure la salita sui teti delle aziende, sino alla minaccia di darsi fuoco. Forme di lotta dettate dalla disperazione di fronte al rischio concreto - per non dire la certezza - di perdere il posto di lavoro, che però, per quanto sembra di capire, non sfuggono al controllo sindacale o al loro ricupero anche nel caso in cui siano inizialmente partite senza il parere del sindacato medesimo.

Il caso certamente più noto, in Italia, è quello dell’Innse, esemplare per determinazione e capacità di lotta, tanto che ha incoraggiato, giustamente, altri lavoratori a muoversi, benché essi siano spesso caduti nell'equivoco che bastasse “bucare lo schermo” televisivo per strappare la vittoria; giusto per aiutarli a disilludersi, i mass media dopo un po' hanno smesso di occuparsi di operai arrampicatori... di tetti e gru. Ma tornando alla fabbrica di Lambrate, all’inizio snobbati o peggio dalla FIOM, i cinquanta - poi, purtroppo, quarantanove - operai sono riusciti a raggiungere l’obiettivo, cioè la conservazione del posto di lavoro, con la famosa salita sul carro-ponte dentro un capannone trasformato in un forno dal sole d’agosto. Assieme ai quattro operai, c’era un funzionario FIOM, e allora viene spontaneo chiedersi quanto abbia contato la presenza del sindacato nella conclusione positiva della lunghissima battaglia. Viene anche da chiedersi se la presenza della FIOM abbia permesso alla coscienza di classe di fare un passo in avanti circa la natura del sindacato o se, al contrario, abbia segnato un punto a favore della CGIL, rafforzandone il prestigio politico e dunque l’illusione - dura a morire - che con un’opportuna pressione della base sia possibile riconquistare i sindacati, facendoli diventare strumenti della lotta operaia, da ingranaggi del capitale quali invece sono. Infatti, per i rivoluzionari, la vittoria o la sconfitta non si misura tanto nei risultati immediati - che pure contano, è banale - quanto sul livello politico anticapitalista che la lotta è riuscita o meno a sedimentare. Per questo, anche una sconfitta sul terreno “economico” può essere una vittoria, se ha lasciato in eredità un innalzamento della coscienza di classe, se ha fatto compiere un passo in avanti verso la prospettiva rivoluzionaria. Naturalmente, tutto ciò può avvenire non per evoluzione spontanea del conflitto, ma per la presenza attiva di avanguardie politiche, vale a dire del partito. Infatti, non è detto che le avanguardie di una lotta, cioè i lavoratori più determinati, trainanti, siano anche avanguardie politiche in senso compiuto, portatrici di un metodo di analisi, di un programma e di una strategia coerentemente anticapitalistici. Soprattutto oggi, dopo le devastazioni dello stalinismo e la desertificazione operata dai suoi eredi più o meno “pentiti”.

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Altra puntualizzazione: se è vero che la lotta di classe proletaria esiste indipendentemente dal partito, è però anche vero che la presenza di operai/lavoratori politicizzati, oltre a innescare la lotta medesima, può darle più determinazione e consapevolezza nella ricerca di una strategia adeguata al raggiungimento dell'obiettivo specifico. Ancora una volta, l'Innse, dove indubbiamente ha avuto un peso notevole il fatto che gli operai fossero fortemente politicizzati. Ma se ci si pone di fronte agli operai come avanguardie politiche, soggetto rivoluzionario a tutto tondo, e non solo come avanguardie di lotte circoscritte all'azienda, (per altro, potenziale gradino per la maturazione di una visione anti-capitalistica complessiva), allora meno che mai ci si può limitare al plauso di una vicenda per certi versi straordinaria, allora l'analisi critica di quelle avanguardie diventa ancor più doverosa. Oltre l'Innse, che cosa propone ai lavoratori salariati il gruppo di “Operai Contro”, cui appartengono alcuni operai di quella fabbrica? Rozzo e superato operaismo a parte (5), le prospettive sono semplicemente disastrose, tutte inscritte nella più logora tradizione stalino-maoista, dunque borghese. Propone, per dirne una, il sogno impossibile del ricupero del sindacato; propone, di male in peggio, la sottomissione della classe ai boia del fascismo integralista islamico, alla sue torbide aspirazioni imperialistiche, grondanti di sangue operaio e proletario. L'errore è sempre quello: «Gli operai di tutti i paesi a capitalismo maturo hanno il dovere di schierarsi in ogni contrasto internazionale contro il proprio governo». Perché solo quelli del “capitalismo maturo”, cioè “Occidentale”? In Iran, in Arabia Saudita, in Iraq, gli interessi degli operai sono gli stessi, dunque, dei “propri” padroni? Evidentemente, per OC, sì, tanto che per una bizzarra forma di solidarietà di classe... con la borghesia fondamentalista, gli operai del mondo devono darle il loro sangue:

«Era meglio allearsi con la resistenza irachena e cecena contro i propri -- occidentali, n.d.r. -- governi ed è quello che noi sosteniamo e dobbiamo sostenere (6)

Contro Genta (padrone dell'Innse), con i signori della guerra ceceni e iracheni, con i petrolieri sauditi: bella coerenza comunista!

Le avanguardie non devono limitarsi a soffiare sul fuoco della lotta di classe nella propria fabbrica, sul proprio posto di lavoro, porsi alla testa delle sue - della lotta - manifestazioni, ma devono dare indicazioni politiche riguardanti l'insieme della società borghese (7). Il venire meno a tutto questo significa, nel migliore dei casi, fare del sindacalismo radicale, ma intossicando i lavoratori più combattivi (prima di tutto) con vere e proprie polpette ideologiche avvelenate. Il fatto che posizioni del genere siano portate avanti da gruppi minuscoli, con un'influenza limitatissima nel proletariato - aspetto che, purtroppo, tocca anche noi - non toglie nulla alla pericolosità e alle potenzialità catastrofiche delle indicazioni suddette, pari ad altre parole d'ordine più tipiche del sindacalismo extraconfederale.

Qual è uno dei vizi di fondo di questo neosindacalismo o parasindacalismo, che spesso agisce da “partito sostitutivo” di una sinistra con scarse radici nel mondo del lavoro? Oltre all'idea che il sindacato, debitamente riveduto e corretto, possa essere uno strumento ancora utile ai fini della lotta di classe, un radicalismo rivendicativo che mal si concilia con lo stato del capitalismo in questa fase storica e che, per di più, pretende di conseguire i propri obiettivi nel pieno rispetto delle normative antisciopero - per quanto riguarda i servizi pubblici - messe in atto dai governi di ogni colore un po' in tutto il mondo. Sia chiaro, quando diciamo che i 500 euro al mese di aumento richiesti dai Cobas sono incompatibili con la crisi del capitale, non vogliamo certo dire che non bisogna lottare per ottenere aumenti di salario ecc., al contrario, ma occorre farlo sapendo con chi si ha a che fare (la crisi strutturale) e con i mezzi adeguati,vale a dire seguendo percorsi che inevitabilmente si collocano fuori - e spesso contro - dalla normale prassi sindacale. Dunque, lotte autorganizzate o, se si preferisce, dal basso, condotte con organismi assembleari (comitati di lotta, di sciopero, ecc.) fondati sulla democrazia diretta; organismi che tendono a superare i limiti ristretti dell'azienda e della categoria per collegarsi con altri eventuali conflitti o, in ogni caso, che tentano di coinvolgere il proletariato - occupato e disoccupato - del territorio e che scelgono di volta in volta le modalità di lotta più efficaci per colpire nel vivo gli interessi padronali. Non è un caso che il sindacato, anche forse soprattutto negli episodi di lotte “anomale” di questi tempi, si guardi bene dal collegare tra di loro le diverse esperienze, dal farle diventare patrimonio comune della classe, prima di tutto di quello specifico territorio. Niente di “anomalo” in questo: uno dei compiti fondamentali dei sindacati è esattamente quello di circoscrivere i potenziali focolai di lotta di classe e soffocarne le fiamme non appena minacciano di uscire dalle famigerate compatibilità del sistema. Ma così facendo, è quasi certa la conclusione: il “bidone” o la sconfitta totale anche solo sul terreno “economico”, per non dire di quello politico.

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Però, è stando dentro gli scioperi, i conflitti, le vertenze, per quanto devitalizzate dal sindacato, che il partito ha la possibilità di crescere non per numeri subatomici, di radicarsi nella classe, di essere dunque alimentato dalla lotta e di alimentarla a sua volta con indicazioni politiche che altro non sono che i fermenti della classe medesima resi coscienti e coerentemente anticapitalistici. È quindi una grossa sciocchezza l'attribuirci una specie di inerte attendismo, motivato dalla scarsissima possibilità di “elargire” concessioni da parte del capitalismo odierno. Non c'è battaglia che debba essere disertata, purché sia affrontata con le “armi” giuste (8). Anche di fronte alle situazioni in apparenza più disperate (delocalizzazioni, chiusure di impianti) occorre contrapporre all'aggressione padronale la risposta operaia, non solamente per salvaguardare la propria dignità di proletari - il che non sarebbe poco - ma perché solo con lo scontro si può se non altro ostacolare il piano padronale e addestrarsi politicamente alla lotta generalizzata contro la borghesia nel suo insieme; purché, vale la pena ribadirlo, non ci si fermi ai problemi specifici dell'azienda, ma si cerchi di collegarli ai problemi di tutta la classe. Solo combattendo può emergere con chiarezza cristallina l'incompatibilità tra i nostri interessi e quelli della società borghese, tanto più che niente è “scritto nelle stelle”: il movimento dialettico della lotta di classe può sconvolgere le acque più stagnanti e gli schemi, in apparenza, più solidi. Senza illusioni, certo, ma senza rassegnazione. Se gli operai dell'Innse non si fossero mossi, da un pezzo sarebbero fuori dalla fabbrica, mentre padron Genta (e compagnia politica cantante) starebbe probabilmente contando i soldi derivanti dalla speculazione edilizia sull'area di sua proprietà. Anche se l'Innse rappresenta un caso particolare, perché l'impresa era ancora sana, dal punto di visto della capacità di fare profitti, e la sua chiusura derivava da pure manovre speculative, non bisogna mai farsi macellare passivamente dal padrone, perché, in questo caso, si è già perso in partenza. Più importante ancora, chi subisce lo sfruttamento senza reagire, non sarà mai in grado, né degno (diceva giustamente Marx), di pensare/agire per una società alternativa a quella del capitale. Innse a parte, la borghesia, quando è messa alle corde, è disposta a “concedere” cose che fino a un momento prima sembravano fantascientifiche, pur di arginare il “pericolo rosso”. La storia è piena di esempi: tra questi, il Fronte Popolare in Francia (1936) e il New Deal negli USA (1933 e seguenti). Nel pieno della crisi più catastrofica - fino ad ora - del capitalismo, sotto la pressione della lotta di classe e con lo “spettro” del comunismo incombente (l'URSS; che poi fosse un tragico abbaglio, è un altro discorso), vennero concesse agli operai ferie pagate, riduzioni dell'orario di lavoro, aumento dei salari. Ma come? Non con scioperi isolati annunciati due mesi prima, né con proposte di legge da mediare con altre forze politiche, che comunque prevedono pesanti contropartite per i lavoratori (vedi le 35 ore in Francia), bensì con massicce occupazioni delle fabbriche, scioperi ad oltranza, scontri durissimi con esercito, polizia e milizie private del padronato. Naturalmente, quei “diritti” furono annullati, con gli interessi, appena passata la tempesta, a riprova dell'insostenibilità, per il sistema, di certe concessioni quando il saggio del profitto ha il fiato corto, molto corto. A riprova del fatto che: primo, come si diceva, la dialettica del conflitto di classe (quello vero) esclude a priori ogni schematismo; secondo - non per importanza - che senza la presenza del partito rivoluzionario, anche le ondate più impetuose della lotta proletaria non potranno mai travolgere gli argini borghesi: rifluiranno, saranno assorbite dal sistema o saranno brutalmente sconfitte, in ogni caso, non lasceranno un'utile eredità politica da cui ripartire.

Nuove forme di vita proletaria?

Oggi, ripartiamo, se ripartiamo, da molto indietro. Gli episodi che vedono la classe operaia rialzare la testa ed eventualmente mettere in affanno il sindacato - vere boccate d'aria fresca - non devono farci dimenticare che, finora, si tratta appunto di episodi. A maggior ragione, però, bisogna guardare con interesse a quello che si muove dentro la classe, senza spocchia, senza pregiudizi, ma nemmeno senza entusiasmi fuori luogo.

Rientrano in questo quadro sparute iniziative di coordinamenti operai che sorgono qui e là, magari dopo una lotta vittoriosa; si tratta di organismi che, come dichiarano apertamente, si prefiggono di mettere in contatto lavoratori più coscienti o esperienze che, altrimenti, rimarrebbero isolate e sconosciute le une agli altri. Un tentativo di coltivare tenere pianticelle classiste nel deserto dello strapotere borghese.

Quale deve essere, perciò, il nostro atteggiamento? Ribadito il concetto che organismi nati da determinati conflitti di classe sono destinati ad esaurirsi con la fine stessa del conflitto, cioè quando, in un modo o nell'altro, vengono meno le ragioni dello sciopero ecc., in assoluto non si può escludere che, per un certo periodo di tempo, nascano e vivano forme di vita proletaria relativamente nuove e diverse dai vecchi intergruppi, che erano espressione del cosiddetto ceto politico. Oggi, il livello di coscienza è talmente basso, la confusione talmente alta, la mancanza di riferimenti classisti pressoché totale, per cui possono essere valutati positivamente eventuali organismi assembleari in cui elementi dispersi sul territorio, in cerca di riferimenti di classe, si trovino, si colleghino, discutano. Va benissimo, purché si abbia chiaro ciò che sono. Non sono intergruppi, però nascono - se nascono - con l'apporto di elementi ben caratterizzati politicamente; non sono comitati di lotta, perché la lotta è finita o non c'è mai stata, ma i partecipanti provengono, a volte e almeno in parte, da una recente esperienza di lotta. Possono quindi costituire un interessante terreno di palestra e di battaglia politica per i militanti del partito, ma in nessun caso sono in grado di assolvere i compiti del partito e dei suoi bracci operativi nella classe: per noi, i gruppi internazionalisti di fabbrica e di territorio. Infatti, quegli organismi sono - o dovrebbero essere - “luoghi” aperti a quei proletari e a quegli individui che si pongono il problema continuare la battaglia contro il sistema capitalistico. I GIFT sono invece organismi politici del partito, che promuovono la lotta “economica”, vi portano le nostre indicazioni politiche, che si sforzano di raccogliere gli elementi migliori - nel senso di più coscienti e combattivi - quando la lotta per forza di cose rifluisce, che fanno come la calamita con la polvere di ferro. Non necessariamente tutti i lavoratori aderenti ai GIFT sono iscritti al partito, ma ne condividono gli indirizzi fondamentali, tra cui la denuncia della forma-sindacato e la prospettiva del superamento rivoluzionario del capitalismo. Insomma, il compito dei GIFT non si esaurisce nella singola lotta economica, nei problemi relativi a una singola azienda o categoria, anche se da lì si muovono, ma va al di là di tutto questo: captare il vapore che si sprigiona - quando si sprigiona - dalle insanabili contraddizioni del modo di produzione capitalistico e farlo interagire, finalmente, col cilindro a pistone...

Celso Beltrami

(1) Lev Trotsky, Prefazione alla Storia delle rivoluzione russa, Oscar Mondadori, 1970, pag. 11.

(2) Secondo una dato dell'ISTAT, riportato da Repubblica on-line del 28 ottobre 2009, «la riduzione occupazionale, registrata nel secondo quadrimestre (556 mila) è dovuta soprattutto ai “figli” e ha interessato 404 mila persone». Secondo un altro rapporto, questa volta dell'ILO (Organizzazione Internazionale per il Lavoro, ilo.org) del 19 ottobre 2009, «i lavoratori collocati dalle agenzie di lavoro temporaneo sono stati tra i primi a perdere il posto di lavoro a causa della crisi economica e finanziaria [...] Le imprese assumono lavoratori temporanei per adattarsi più rapidamente ai cambiamenti della situazione economica. Dalla metà del 2008, molte aziende hanno fatto ricorso a questa “valvola” per licenziare i lavoratori temporanei e, allo stesso tempo, per mantenere intatto il nucleo centrale della propria forza lavoro [...] Le maggiori perdite di posti di lavoro temporanei si sono registrate nel settore manifatturiero dei paesi industrializzati, in particolare nel settore automobilistico. Il rapporto cita l'esempio della Germania, dove si stima che tra 100.000 e 150.000 lavoratori temporanei avrebbero perso il posto di lavoro nei quattro-sei mesi successivi ad ottobre2008. Tendenze analoghe sono state osservate in Giappone, Stati Uniti, Spagna e Francia». Invece, il numero dei lavoratori “in nero” o nel lavoro “informale” che hanno perso il posto, probabilmente non si saprà mai con precisione.

(3) Paul Mattick, Marx e Keynes, De Donato, 1972, pag. 429. Benché Mattick veda il partito come fumo negli occhi, perciò divergendo, su questo aspetto, in maniera radicale dalle nostre posizioni, è stato uno dei più grandi critici marxisti dell'economia politica del XX secolo e, cosa rara, fedele fino all'ultimo alla prospettiva rivoluzionaria anticapitalista.

(4) Il coraggio di volare, documento per la 3^ Assemblea Nazionale CUB, ottobre 2009, pagg. 7 e 8, in cub.it

(5) Ci si riferisce all'operaismo di fine Ottocento, che portò alla fondazione, nel 1885, a Milano, del Partito Operaio Italiano. Per reazione alle ingerenze di borghesi filantropi e democratici, che ovviamente tendevano a deviare le espressioni politiche proletarie sul terreno della più aperta collaborazione di classe, il POI vietò l'iscrizione ai non operai. Invece, a cominciare da Marx ed Engels, il partito comunista è sempre stato inteso come organismo aperto non solo alle forze strettamente operaie, di fabbrica, ma a qualunque settore del proletariato e a ogni individuo, anche di origine borghese - disertore della propria classe - che si batte per il comunismo.

(6) Appunti per un viaggio. Verso un partito indipendente degli operai, inserto del n. 125, luglio 2007, di “Operai Contro”, pagg. 12 e 13.

(7) A questo proposito, benché scritte oltre un secolo fa, le indicazioni politico-metodologiche contenute nel Che fare? di Lenin conservano ancora tutta la loro vitalità; in particolare, i capitoli II, III, IV.

(8) Vedi il nostro opuscolo, del 2008, L'intervento. Il ruolo dei comunisti nelle lotte operaie e sui luoghi di lavoro, a cura della sezione “Guido Torricelli” di Parma.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.