Il capitale è nudo e ai proletari strappa persino la pelle

Lo stato comatoso dell’economia non accenna a migliorare e, dopo la “cattiva finanza”, economisti e opinionisti (da destra a “sinistra”) chiamano in causa la bassa produttività delle imprese italiane: per ora lavorata, in 10 anni sarebbe cresciuta solo dell’1,4% (11,4% la media UE;13,6% per la Germania; dati Istat, Ocse, Aspen, Banca d’Italia, EDI).

Il capitalismo si dice pronto a dare il benessere economico a condizione che i salariati (quelli ancora occupati) producano di più, diminuisca il costo del lavoro e siano più competitive le merci prodotte. In caso contrario il Paese si impoverisce. Dunque, più merci, in quantità e valore di scambio, da portare al mercato; investimenti, macchinari, brevetti, ricerca e formazione, nuova organizzazione del lavoro (meno rigidità), interventi sindacali che seguano la evoluzione del moderno capitalismo. Inoltre si è scoperto che contrariamente a quanto nel passato tutti proclamavano, le grandi dimensioni delle imprese sono fondamentali nei rapporti col mercato (ma non sempre, vedi industria auto…). Troppe invece in Italia le aziende con meno di 10 addetti (il 94,8% di 4,4 milioni di imprese, di cui solo 3.502 superano i 250 addetti. La denuncia è, oggi, che le micro-imprese presentano un valore aggiunto, per addetto, due volte e mezzo più basso di quello delle grandi imprese (pari, questo, a circa 60mila euro l’anno).

Qualcuno (M. Panara, Repubblica 17/9) non può fare a meno di osservare una lapalissiana evidenza: se si aumenta la produttività, diminuisce il numero dei lavoratori occupati. Allora, che si fa? Semplice: per creare lavoro si dovrebbe produrre di più o cose di maggiore valore, “impiegando molte più persone” (?). Colti da un momentaneo stato di confusione, leggiamo il seguito: “con la capacità di spostarsi verso settori più avanzati, di creare prodotti (merci – ndr) nuovi e vincenti (?), di creare e conquistare nuovi mercati”. E chiamando il “sistema Italia” a fare “salti” in avanti. (Forse guardando al paese dei canguri come mercato da conquistare?)

Ci lascia perplessi poi l’invocazione di A. Regina, vice di Confindustria, alla necessità di “una nuova stagione di politica industriale”: una richiesta che fatta alle soglie dell’autunno e poi dell’inverno non ci sembra di buon auspicio. Soprattutto per quei milioni di disoccupati e sottoccupati, cioè con “redditi” da miseria e fame, che si aggirano sul patrio suolo (750mila in più, ufficialmente, solo nell’ultimo anno). A proposito, c’è anche chi (Aiassa, responsabile Servizi Studi BNL) suggerisce di “riequilibrare la matrice anagrafica degli occupati” in favore dei giovani. Ed infatti ci ha già pensato la Fornero, alzando l’età pensionistica… Intanto, in quale direzione (obbligata) reagisca il sistema è sotto gli occhi di tutti; vedi come sta franando il “grande progetto industriale” della Fiat (aprile 2010). Ora incolpata di mancanza di idee e di modelli d’auto.

Ma c’è un altro esperto economico, A. Penati, che su Repubblica 17/9 interviene in difesa di Marchionne e del “capitalismo di mercato (ammessa l’esistenza di un altro, “dirigista, chiuso, consociativo e senza finanza”…) con le sue regole e implicazioni”. Convinto che si debba percorrere l’unica strada capace di far diventare l’Italia “una moderna economia di mercato, competitiva e in crescita”. Dopo tutto, precisa, non ha forse il gruppo Fiat aumentata la capitalizzazione da 6 a 16 miliardi di euro (+ 161%)? Cosa si vuole di più? Penati lo scrisse fin dal 2010: la Fiat aveva scarsi margini di profitto, sotto-utilizzazione degli impianti, insufficiente produttività e quindi era consigliabile far funzionare gli impianti in modo flessibile a ciclo continuo, abbattendo i costi fissi e (aggiungiamo noi) togliendo i “privilegi” di cui godevano i lavoratori. Geniale! E per il Penati, grazie a Marchionne la Fiat ha superato l’emergenza finanziaria, e (non si capisce bene se il merito sia di Marchionne o di Penati) ha scoperto che “non basta produrre auto, bisogna anche venderle”… Già, ma poiché la domanda cala, anche per nuovi modelli, allora che si può fare?

Ma in Italia prosegue l’esperto – non c’è solo il problema auto: il medesimo discorso vale per “Alcoa, Ilva, Carbosulcis, Finmeccanica, Tirrenia, Alitalia e tanti altri settori, dai servizi locali, alle banche e all’editoria”, un altro “settore in declino” questo, al punto da consigliare a Marchionne di vendere Stampa e Corriere… Per tutti c’è un “eccesso di produttività e/o aziende non più competitive: si spostino lavoro e risorse a settori e aziende a più alta produttività”. Ma bravo: e quali sarebbero?

L’importante è trovarsi in accordo con l’ipocrisia che trasuda da ogni mossa del capitale e dei suoi gestori: avanti con le ristrutturazioni, addirittura “difendendo il diritto di tutti ad avere un lavoro ed aspirare ad un reddito più elevato”. E dando piena autonomia agli imprenditori nell’analizzare le situazione e valutare cosa fare e non fare, tagliando i posti di lavoro che non danno profitto al capitale e spostandosi verso “aziende e settori a maggiore produttività”. Davanti all’altare del Capitale, Fiat voluntas tua

DC
Mercoledì, September 19, 2012

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.