Trump: ho un sogno, più inquinamento e più povertà per tutti (o quasi)

Sono passate solo alcune settimane – nel momento in cui scriviamo – dal suo insediamento alla Casa Bianca, ma Trump ha già movimentato, per così dire, il quadro politico nazionale e internazionale. Con le prime iniziative vuole dimostrare la coerenza con quanto aveva promesso in campagna elettorale, per accreditarsi come l'uomo, se non proprio della Provvidenza, che per la prima volta rompe con un sistema di potere che ha condannato all'impoverimento e alla frustrazione sociale milioni di persone appartenenti al “popolo”. E' il ritornello con cui si riempiono la bocca personaggi e formazioni politiche che, da questa parte dell'Atlantico, sono salite al governo o sperano di salirci, sospinti anche, così si augurano, dalla vittoria del miliardario newyorkese.

Che uno straricco possa fare gli interessi del “popolo”, cioè delle classi sociali medio-basse, è difficile da credere – per usare un eufemismo – eppure, in determinate circostanze storiche, le promesse (e i personaggi) più incredibili diventano credibilissimi, come ha dimostrato la sfolgorante ascesa, dalle nostre parti, del cavalier Berlusca e della sua “corte dei miracoli” politico-mondana. Ma la salita al vertice del potere di figure che in altri momenti sarebbero oggetto unicamente di battute da caserma, la dice lunga sia sullo stato di profondo disorientamento ideologico cui sono soggetti segmenti di proletariato (e, com'è ovvio, di piccola borghesia declassata), sia sulle difficoltà della borghesia di amministrare una crisi economica che, al di là dei proclami ufficiali, è lontana dall'essere passata e che per questo richiede di continuare, intensificandola, la spremitura e l'immiserimento della “working class”, del lavoro salariato-dipendente. Pur di non far passare nemmeno la più moderata prospettiva riformista, il partito democratico ha bruciato l'unico candidato, Sanders, che avrebbe potuto contrastare – si dice con successo - il “troll” che si aggira nella Stanza ovale, a dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che il riformismo è, nella sostanza, incompatibile con questa fase storica del capitale. Al massimo, può dare qualche tocco di maquillage qui e là, se non costa troppo, o sostenere apertamente determinati settori del capitale rispetto ad altri ritenuti progressisti, ma di certo non può rallentare, se non in maniera insignificante, né tanto meno invertire la tendenza pluridecennale al peggioramento delle condizioni generali di esistenza del proletariato e delle classi a esso vicine. Non l'ha fatto Tsipras, riformista doc, così come non l'ha fatto – le strabilianti promesse... – quel benefattore di povere fanciulle residente ad Arcore, non lo farà Trump e se mai dovesse mettere veramente in pratica il programma per cui è stato eletto, sangue, sudore e lacrime proletarie scorreranno a fiumi. Anzi, le lacrime hanno già cominciato a bagnare il viso di migliaia di immigrati senza il permesso di soggiorno, da anni residenti negli “States”, rastrellati e deportati in Messico, a riprova, dice il “troll” suddetto, della volontà presidenziale di stroncare l'illegalità. Fin che si tratta di deportare qualche migliaio di persone, rimaniamo nell'ambito dell'atto – criminale – diretto a soddisfare, con relativamente poca spesa, gli spiriti ingenui o carogneschi che l'hanno votato, ma quando si deve mettere mano a promesse ben più impegnative, allora qualcosa potrebbe incepparsi. Trump, infatti, ha promesso e minacciato di scompaginare i rapporti col Messico, con l'Europa e la Cina, di fermare le delocalizzazioni punendo le imprese che persistono in tale pratica; di più: di far ritornare in “America” milioni di posti di lavoro e le produzioni industriali che avevano fatto grande – la più grande – la repubblica a stelle e strisce, di intensificare in maniera brutale una politica protezionista alla quale gli USA, per altro, non hanno mai rinunciato (1).

La costruzione o, per meglio dire, il completamento di una barriera lungo il confine col Messico, cominciata da Clinton e non fermata da Obama, è uno degli annunci più clamorosi della nuova amministrazione, nonostante i problemi di ordine economico e diplomatico che questo comporterebbe. A parte le tensioni politiche con lo stato confinante, per la posa di migliaia di chilometri di muro bisogna trovare alcuni miliardi di dollari (2), che però, secondo il “ciuffettone” presidenziale, sarebbero facilmente reperibili imponendo un'imposta del venti per cento sulle merci “messicane”. Nel 2016 gli USA hanno importato

merci per 270 miliardi di dollari. E ne ha venduto [al Messico, ndr] per poco meno di 212 (3).

Con quell'imposta doganale, che manderebbe in discarica il NAFTA (4), si troverebbero risorse più che sufficienti per costruirne due o tre, di muri. Certo, ma questo, più che una soluzione, costituirebbe una complicazione enorme. Non solo perché il Messico non subirebbe passivamente un attacco di tale portata alla propria economia senza prendere contromisure dello stesso tipo, ma anche e non da ultimo perché le merci prodotte a sud del Rio Grande sono spesso il frutto degli investimenti di capitali statunitensi. In più, quelle merci sono non di rado parte integrante di quella “catena del valore” che ha l'anello terminale nelle imprese localizzate negli Stati uniti. Lo stesso discorso vale per le imposte doganali minacciate contro la Cina (addirittura del 45%), i concorrenti esteri in genere e, ancora una volta, sulle automobili prodotte in Messico dalle tre grandi case automobilistiche statunitensi, costrette a pagare un'imposta del 35% nel caso in cui persistessero nel delocalizzare interi processi produttivi in quel paese. Un primo segnale del nuovo corso sarebbe la rinuncia della Ford all'investimento da un miliardo e mezzo di dollari per costruire una nuova fabbrica, dopo l'incontro convocato da Trump nei giorni immediatamente successivi all'investitura ufficiale con GM, Ford e Chrysler-FCA. Ma al di là dei sorrisi di circostanza e delle dichiarazioni (vaghe) di rito, è quando meno difficile che le Big Three rinuncino a investimenti miliardari programmati e avviati da qualche anno (vedi la GM), così com'è altrettanto, se non ancora più difficile che venga seriamente frenato il processo di delocalizzazione che investe da parecchio tempo l'economia mondiale. Gli Stati Uniti non sono più quelli degli anni cinquanta del secolo scorso, quando producevano entro i propri confini, spesso in fabbriche gigantesche, quelle merci che li facevano la prima, e di gran lunga, potenza industriale al mondo. Oggi, ancor più di ieri, è risaputo, i capitali vanno là dove la forza lavoro costa poco o pochissimo, dove la dittatura padronale non ha ostacoli, se non di facciata, dove “lacci e laccioli” di tipo normativo e ambientale non esistono o sono una tragica pagliacciata. Se a questo si aggiungono i cambiamenti tecnologici che interessano i processi lavorativi – che espellono forza lavoro e ne cambiano anche drasticamente il profilo professionale – ci vuole poco a capire come il cosiddetto reshoring o ritorno della produzione in patria sia sì una realtà, ma, a meno di nuovi ed epocali elementi ora imprevedibili, di portata limitata. Il fenomeno, incoraggiato dall'aumento salariale avvenuto, non senza lotte durissime, in alcune aree di delocalizzazione, per divenire massiccio avrebbe bisogno di ingigantire alcune aspetti già presenti da tempo nella “metropoli”, ma in forma troppo blanda – non sembri un paradosso – per le necessità espresse dalla composizione organica del capitale odierna. Trump, con le sue linee guida, vorrebbe rendere “l'America” attraente come un'area di delocalizzazione: portare l'imposizione fiscale al 15%, eliminare la regolamentazione che frena la speculazione finanziaria e il business aziendale, a cominciare dalle norme antinquinamento e a tutela delle zone protette, comprimere ancor di più le condizioni della classe lavoratrice.

Ma come?, qualcuno obietterà, il presidente dice il contrario, che vuole dare lavoro prima di tutto agli americani “veri”, che vuole far stare bene la “sua” classe operaia. Ok, facciamo un passo indietro e riprendiamo il discorso sul protezionismo, cominciando con alcune considerazioni talmente elementari che si possono trovare in qualunque manuale scolastico di economia. E' ovvio che le imposte doganali, soprattutto se del peso ipotizzato dal neopresidente, si riverserebbero sui prezzi delle merci, provocandone un aumento generalizzato che le renderebbe meno concorrenziali sul mercato internazionale. Ma anche sul mercato interno le cose non andrebbero via lisce, visto che, come abbiamo detto altre volte, di fronte alla stagnazione per non dire arretramento pluridecennale dei salari, i bassi prezzi delle merci provenienti in misura significativa dall'estero (Cina e Messico in primis) hanno permesso a una classe lavoratrice sempre più impoverita di campare alla meno peggio (si fa per dire), con la complicità, non da ultimo, dell'indebitamento facile (5) che, com'è noto, ha portato alla crisi del 2007. Se “l'agenda Trump” verrà rispettata, è facile prevedere, come si diceva, un nuovo peggioramento nelle condizioni di vita del proletariato, che però, forse, si troverebbe costretto a reagire in maniera molto più decisa di quanto non abbia fatto finora (non solo negli USA). Sia chiaro, non stiamo dicendo che ci sarebbe automaticamente una risposta di classe su base di massa, ma solo che potrebbero maturare le condizioni oggettive per nuovi scenari e tuttavia, siamo sempre lì, le condizioni possono sì maturare, ma anche marcire se manca il soggetto politico – cioè il partito – che possa organizzarle e dirigerle coscientemente per il superamento rivoluzionario dello stato di cose presente.

Intanto, la nuova amministrazione, nonostante il passo indietro che è stata costretta a fare da parte del suo stesso partito, aveva mandato un segnale chiarissimo – se mai qualcuno avesse avuto dei dubbi – su come intenderà gestire politicamente i rapporti col lavoro salariato, nominando ministro del lavoro un deciso avversario dei lavoratori della ristorazione, in prima fila nell'organizzazione delle lotte per innalzare il salario minimo a quindici dollari l'ora. Il personaggio in questione era

Andrew Puzder, big manager dei ristoranti fast food [che] si è schierato contro l'aumento del salario minimo, si è opposto all'aumento delle retribuzioni per gli straordinari e ha sostenuto la sostituzione dei lavoratori con macchinari. Il 60% dei suoi ristoranti [CKE restaurants, ndr] hanno violato la legge proprio in tema di salari minimi e straordinari (6).

Vale la pena di ricordare che milioni di lavoratori (d'ambo i sessi, naturalmente), anche di grandissime imprese come Wal Mart, sono ben lontani dal percepire i quindici dollari orari considerati la soglia minima per sopravvivere “dignitosamente” e devono ricorrere ai buoni pasti erogati dal sempre più dissanguato stato sociale. Forse non sono al livello delle maquiladoras messicane, dove si guadagnano quattro dollari al giorno, ma non siamo molto lontani e Trump, con la sua demagogia fascistoide, può dare un'altra spinta per accorciare le distanze, verso il basso, naturalmente.

Difficile prevedere, va da sé, quanto verrà effettivamente realizzato del “sogno trumpiano”, anche perché lo speculatore immobiliare domiciliato alla Casa Bianca deve fronteggiare il malumore, se non l'ostilità, di una parte importante del grande capitale statunitense, tra cui le aziende dell'high tech (Microsoft, Apple, Google, Facebook, Mozilla, Twitter ecc.), che hanno i centri di produzione disseminati per il pianeta e come mercato il mondo stesso.

Già altre volte, nella storia, lo scontro interno al grande capitale è stato alla fine ricomposto, ma il proletariato per primo e poi l'umanità intera ne ha pagato drammaticamente le spese. Se è vero che la Storia non si presenta mai uguale a se stessa o al massimo si ripresenta sotto forma di farsa, è anche vero che solo il proletariato cosciente e organizzato nel proprio partito di classe può impedire che la “farsa” si trasformi a sua volta in tragedia.

CB

(1) Vedi Il Sole 24 ore del 23-01-'17.

(2) Le stime vanno dai cinque ai più probabili dieci-quindici.

(3) Vedi www.wired.it, visitato il 27-01-'17.

(4) Trattato di libero scambio dell'America del Nord tra Canada, USA e Messico, voluto da Clinton e che Trump vuole appunto affossare, entrato in vigore nel 1994.

(5) Si tratta di un effetto non collaterale della finanziarizzazione dell'economia e tra i più importanti; ma qui non ci soffermiamo e rimandiamo a quanto abbiamo scritto più volte sull'argomento.

(6) Vedi www.rassegna.it, visitato il 26-01-'17. Puzder è stato affondato dai malumori di una parte dei senatori repubblicani, che per i suoi passi falsi – tra cui l'assunzione di lavoratrici senza permesso di soggiorno – l'hanno ritenuto un'ulteriore fonte di problemi.

Venerdì, February 17, 2017