Assorbendo scienza e tecnologia, il capitale si scava la fossa - Il capitalismo alla resa dei conti

Mentre le innovazioni tecnologiche compiono balzi continui in avanti, il cosiddetto “progresso economico-sociale” ne compie altrettanti all’indietro. La globalizzazione dei mercati ha finito addirittura con l’aggravare – dopo un breve periodo di “sviluppo” produttivo – le condizioni sia di lavoro sia di vita per centinaia di milioni di proletari nel mondo, con un lento ma inesorabile declino delle grandi concentrazioni di manodopera in particolari settori industriali, e della crescita ormai costante dell’esercito dei disoccupati in ogni paese. Le precedenti catene di montaggio e le stesse parcellizzazioni del lavoro sono state via via rimosse dall’avanzare della microelettronica, telecomunicazioni e biotecnologie, che hanno invaso ogni settore merceologico, da quello di auto a quello di televisori ed elettrodomestici, dal meccanico al chimico, farmaceutico, tessile, manifatturiero e alimentare. I microprocessori, con le loro azioni ripetitive preordinate e il linguaggio informatico di programmazione, portano ad una progressiva diminuzione dei lavoratori, consentendo inoltre al capitale sia una riduzione delle scorte immagazzinate sia una produzione calibrata sulle ordinazioni (just-in-time), oltre ad una continua diversificazione dei modelli e prodotti.

Le tecnologie informatiche (dal circuito integrato al software di sistema) si sono imposte iniziando decenni fa a rivoluzionare negli Usa gli impianti della Silicon Valley e l’intero settore hi-tech, nel quale si sono investite grandi quantità di capitali. Ed è qui che i super profitti americani (oltre cioè un saggio medio) hanno compensato in un primo periodo il “ribasso” verificatosi in altri settori industriali via via che le innovazioni tecnologiche si diffondevano. Da allora, lo sviluppo della loro applicazione ha raggiunto vette altissime, facendo però diminuire l'occupazione manifatturiera, prima, e quella nei servizi, poi. Si calcolano a ben 7 milioni i posti di lavoro persi negli Usa durante gli ultimi 4 decenni; nonostante ciò, le merci prodotte sono cresciute quantitativamente, anno dopo anno, finendo con l’intasare i mercati e costringendo – in alcuni casi - gli occupati rimasti a maggiori orari di lavoro e più intensi sforzi (tempi e movimenti).

Massicci sono stati gli interventi sulla composizione organica del capitale. Marx mise in chiaro (Il Capitale, II Libro, Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto) come la crescente produttività del lavoro sia esasperata dallo sviluppo della tecnologia. Ne deriva la crescita della composizione organica del capitale (rapporto in valore tra i mezzi di produzione - «capitale costante» - e il lavoro - «capitale variabile»), e di conseguenza la diminuzione del saggio del profitto (rapporto tra il plusvalore e il capitale totale investito). Per chi si ostinasse a non voler comprendere questa legge, ripetiamo per l’ennesima vota come l’inserimento nei processi produttivi di sempre più avanzate tecnologie, aumenta – sì – la produttività del lavoro ma espande la parte della giornata lavorativa nella quale il lavoratore crea il plusvalore (relativo) intascato dal capitalista, e contemporaneamente si riduce la parte che viene remunerata dal salario. Questo però fino a quando non si raggiungono i limiti “fisici” (ristretti e comunque sempre dipendenti dal numero dei lavoratori impiegati) che consentono tale vantaggio al capitale.

In ultimo, le merci vanno vendute: anche questo lo ripetiamo contro il coro che esalta gli ammodernamenti tecnologici e i conseguenti aumenti di produttività: se la vendita di merci non cresce, i “salariati” tendono a diminuire poiché le produzioni seguono strategie competitive, principalmente puntando ad un ridotto uso del lavoro vivo. A incorniciare questo drammatico quadro non mancano – per chi ha un posto-lavoro - le riduzioni salariali, gli aumenti di tassazioni dirette e indirette, i tagli alle spese pubbliche (pensioni, educazione e sanità). Un inarrestabile “giro di vite” che stringe le catene che strangolano centinaia di milioni di uomini e donne nel mondo.

La borghesia esalta l’aumento della produttività ottenuto con macchine e tecnologie automatizzate, ma nel contempo vede rallentare la vendita di merci. E si ritorna al punto dolente: venendo meno quantitativamente l’uso-sfruttamento del lavoro umano, ecco che si acutizza la crisi del capitalismo. I robot non sono retribuiti con un salario (sono macchine il cui costo sarà ammortizzato entro un certo numero di anni) ed hanno il difetto di non comperare merci, non sono “consumatori”. Le capacità produttive che essi sviluppano, si traducono in un ammasso di merci che non trovano acquirenti solvibili. Gli economisti borghesi lo definiscono “capitalismo buono” perché creerebbe ricchezza, ma poi diventa “cattivo” in quanto quella ricchezza la possono godere in pochi…

Nel mondo vi è un vasto e urgente bisogno di prodotti utili, ma centinaia di milioni di uomini e donne non hanno disponibilità per acquistarli come merci. I crediti del sistema finanziario possono solo drogare una parziale domanda di merci, ma poi contribuiscono a far sprofondare in una crisi ancor più grave e profonda l’intero sistema capitalista, sommerso da indebitamenti pubblici e privati. La produzione è vincolata ad una competizione nazionale, ma soprattutto internazionale, che nella riduzione del “costo del lavoro” avrebbe il suo punto di forza.

Automazione e robot

Il robot produce merci più velocemente di un gruppo di operai, ma non acquistandole proibisce al capitale di impossessarsi del plusvalore (profitto) che la merce contiene ed esprime nel suo prezzo di vendita. Anche se questo diminuisse, mancano i “consumatori paganti”. Gli operai in “esubero” aumentano e fra robot (se ne calcolano già quasi tre milioni nel mondo…) e software, saranno in strada altri milioni di dipendenti e non solo nella industria. Sono già in atto invasioni di casse automatiche nei supermercati e nei call center, sportelli automatici nelle banche, computer che guideranno camion e autobus, robot che prepareranno il cibo e invaderanno gli uffici amministrativi: ovunque il personale subirà drastiche riduzioni. Lo stesso per la metà delle mansioni dei programmatori di computer e dei costruttori di un network informatico, annullati dalle tecnologie di automazione riguardanti le innovazioni della stessa informatica e dell’elettronica.

Si evidenzia empiricamente come l’aumento della composizione organica del capitale faccia parte determinante dello sviluppo capitalistico, mettendo contemporaneamente in crisi di valorizzazione il capitale il quale vede diminuire le quote di profitto in rapporto al suo investimento nei settori sia industriali che commerciali. Si acutizza il contrasto tra lo sviluppo delle forze produttive materiali della società e i rapporti di produzione esistenti, cioè i rapporti di proprietà privata.

Il capitalismo si “razionalizza”

Con la “rivoluzione industriale 4.0” il processo di automatizzazione produttiva farà un altro salto in avanti, perfezionando le tecnologie digitali e velocizzando al massimo i ritmi di lavoro. Errori e tempi persi vengono ridotti al minimo con l’obiettivo (illusorio) di produrre il massimo di “valore aggiunto”. Le macchine a controllo numerico sono un pallido ricordo: con l’automazione flessibile si variano i modelli e i prodotti direttamente sulle linee, riprogrammabili in risposta alle domande – in tempo reale - dei mercati. La “razionalizzazione” organizzativa delle risorse elimina sprechi e giacenze.

Da una ricerca del World Economic Forum si apprende che l’avanzare di robot e programmi intelligenti sconvolgerà tutti i livelli occupazionali. Secondo i report Technology at work - V2.0, addirittura il 35% dei lavoratori in Inghilterra rischia di essere rimpiazzato dall’automazione entro il 2025; il 47% negli Usa e un 57% in media nei paesi OECE. In Cina le percentuali sarebbero ancora più alte. Complessivamente, nel settore industriale globale i robot elimineranno circa 60 milioni di posti lavoro: quelli attualmente usati nelle catene di montaggio in aziende automobilistiche giapponesi, lavorano per un minimo di 30 giorni senza alcuna manutenzione. Le braccia robotiche si imporranno sulle linee di produzione: pochi sorvegliano le operazioni automatiche, a loro volta controllate da computer. Ed il costo dei robot è in forte diminuzione: quelli di servizio personale costano negli Usa meno di 25 mila dollari; in Cina e in Giappone i robot per la pulizia della casa hanno prezzi bassi. Nell’industria, il costo di un robot è nei limiti di poche centinaia di migliaia di dollari, mentre la “creazione” di un posto di lavoro “vivo” richiederebbe in partenza un investimento di oltre mezzo milione di dollari.

In forte crescita è ovunque la vendita di computer, stampanti 3D, macchine utensili a controllo numerico (con cervelli elettronici), ecc. Anche nell’agricoltura aumenta l’impiego di seminatrici e raccoglitori automatici, addirittura guidati a mezzo di satelliti. Infine, nelle attività commerciali si diffondono macchine da caffè, chioschi elettronici per la vendita di alimenti, libri e gadget, servizi automatici di riscossione per mezzo di carte bancarie, ecc. E siamo solo agli inizi: in testa marcia il “capital-socialismo” cinese, con forti investimenti nella tecnologia automatica e robotica; al momento è il più importante mercato mondiale di robot industriali, computer ed altri macchinari complessi con pilota automatico. Per il numero dei robot impiegati, seguono la Corea del Sud, il Giappone e la Germania.

Quelle articolazioni di un “meccanismo vivente” che per il Capitale sono gli operai e come tali li usa, sono sostituite ora da “un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai gli sono incorporati come appendici umane”. (Marx, Il Capitale).

L’inarrestabile progresso tecnologico

I microchip raddoppiano velocità ogni due anni; si potenziano software, computer e robot; avanzano i software di intelligenza artificiale anche là dove fino a qualche anno si sarebbero dovuti assorbire decine di migliaia di lavoratori. Ed ora si teme, nei cosiddetti settori “impiegatizi”, la minaccia di una invasione di algoritmi che si approprieranno di analisi di dati, svilupperanno procedure, prenderanno decisioni. Aumenterà la produttività e si risparmieranno i “costi” facendo a meno di commercialisti e avvocati, assicuratori, funzionari di banca, direttori, analisti finanziari, giornalisti, ecc.

Globalmente il mercato della robotica si ampia di anno in anno a suon di decine e decine di miliardi di dollari. Il colpo alla occupazione sarà tremendo, nonostante la “speranza” di sviluppo di nuovi settori e nuove figure professionali, in ogni modo minoritarie. Va pure segnalato l’ampliarsi delle interazioni tra robot, intelligenze artificiali ed esseri umani, invadendo non solo la produzione industriale ma anche tutti i settori di vita quotidiana nella società contemporanea. Gli effetti sul mercato del lavoro si annunciano più che preoccupanti. Ed ancora: il rapporto McKinsey (gennaio 2017) indicava una automatizzazione, entro una decina d’anni, di un 50% delle attuali attività “salariate”.

Una più recente analisi della Boston Consulting Groupsi conferma a sua volta le riduzione di lavoratori – sopra accennate - con punte massime in Asia (Cina, Giappone, Corea). In Europa, a guidare questo vero e proprio “terremoto” sarà la Germania, ma anche in Italia l’installazione di robot nell’industria procede a migliaia di esemplari all’anno. Fibre di ottica, interfaccia standard per la programmazione di applicazioni, integrazione dei sistemi, con un solo linguaggio e massima digitalizzazione. Cresce il capitale costante (macchine, energia, materie prime e componenti semilavorati), e diminuisce proporzionalmente quello variabile. Si ripropone il problema: ogni unità di prodotto contiene sempre meno plusvalore e quindi si deve produrre (e vendere) una maggiore quantità di merci per ricavare quanto più plusvalore possibile. Abbiamo già detto come l’informatica e gli algoritmi complessi ridurranno il numero dei “lavoratori intellettuali”; così cresceranno milioni di dipendenti pubblici delle amministrazioni statali, sostituiti dalla informatizzazione digitale la quale semina esuberi ovunque. I sistemi informatici integrati (con elettroni e quanti di luce) automatizzano la maggior parte dei servizi burocratico-amministrativi; pochi analisti sostituiscono centinaia di lavoratori. Il cosiddetto lavoro cognitivo, fino a ieri enfatizzato, viene meccanizzato. Saranno spazzati via i lavori ripetitivi e di supporto e ovunque la disoccupazione tecnologica sarà inarrestabile; l’automatizzazione integrale desertificherà fabbriche e uffici. Ricordate la ricetta keynesiana: “scavare buche per poi riempirle”, pur di tenere occupati i disoccupati? Certamente oggi non si potrebbe, visto che le stesse operazioni si possono fare con qualche talpa meccanica, qualche ingegnere e poche centinaia di persone.

La favola di nuovi settori produttivi nei quali si dovrebbe riversare l’eccesso di popolazione “liberata” da altri settori e processi produttivi diventati obsoleti, si è anch’essa ridotta all’offerta di lavori “alternativi” a bassa competenza, basso salario, altamente volatili. Fra poco sostituiti da robot tutto fare e a loro volta prodotti da altri robot! E mentre oltre il 50% degli occupati in settori del terziario “avanzato” sono anch’essi minacciati, pure settori di servizi sociali quali le cure alla persona, la difesa dell’ambiente, i trasporti collettivi, la stessa sanità, ecc., rientrando a far parte dei “costi da ridurre” e saranno presto ridimensionati. Forme e contenuti di molti lavori (materiali ed immateriali) tendono poi ad allontanarsi sempre più da un minimo di relazioni sociali, travolti da uno sviluppo tecnologico che comporta un approfondimento dei processi di alienazione nei quali rischia di sprofondare l’umanità, allo sbando tanto materiale quanto… spirituale.

Uno sviluppo, quello tecnologico, che nelle mani del capitalismo e delle relazioni imperanti nella società borghese peggiora sia le forme sia le condizioni con le quali avviene l’acquisto – sempre meno indispensabile - della merce forza-lavoro. Se il capitale non ricava plusvalore dal suo uso-sfruttamento, l’esercito dei disoccupati si allarga. In capitalismo se la prende con i lavoratori rimasti in produzione e piange sulla eccessiva rigidità della regolamentazione dei rapporti di lavoro che frenerebbe la competitività dell’economia nazionale (troppo alto il costo nazionale del lavoro in confronto a quello più basso di altre nazioni…). E ricatta gli occupati, pronto a sostituirli con disoccupati disposti a vendersi ad un minor prezzo.

Un processo inarrestabile

Anche nella finanza (banche, amministrazione e contabilità, con operazioni eseguite automaticamente pure nelle negoziazioni di Borsa) la diffusione dei microcomputer si allarga di giorno in giorno provocando inarrestabili riduzioni di personale. Così pure nelle attività commerciali che stanno diventando elettroniche, e in tutti i vari comparti del terziario: le applicazioni di microelettronica e di lettura ottica sostituiscono migliaia di operatori nelle reti di vendita al dettaglio (casse dei supermercati) e nell'utilizzo di apparecchiature automatiche che stimolano il self service. I sistemi informatici integrati (con elettroni e quanti di luce) automatizzano la maggior parte dei servizi burocratico-amministrativi; pochi analisti sostituiscono centinaia di lavoratori.

Negli Usa il mercato della robotica dai 71 mld di dollari nel 2015 ha raggiunto i 91 mld nel 2016 e si prospettano oltre 187 mld nel 2020. Un immenso agglomerato di macchine che per essere ripagato dovrebbe “produrre” 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in un ciclo continuo. E la velocità e la potenza dei microchip raddoppiano ogni due anni, aumentando la potenza di software, computer e robot. Il McKinsey Global Institute ha stimato che i robot potrebbero svolgere il 45% di tutti gli impieghi che attualmente sono svolti da umani: il capitalismo “risparmierebbe” salari complessivi annui calcolabili in almeno 16.000 miliardi di dollari. Nella sola Italia si calcolano quasi 12 milioni di lavoratori che resteranno disoccupati e senza salario. Come faranno ad acquistare merci, con il relativo plusvalore che dovrebbero contenere e che quindi non si realizzerebbe mettendo il capitalismo alle corde? Oltre all’inoppugnabile fatto che il valore di scambio di queste merci si è ridotto poiché proprio le innovazioni tecnico-scientifiche lo hanno alla fine diminuito per ogni singolo pezzo…

Anche l’Italia occupa una posizione di rilievo nel mercato europeo dei robot e nella classifica mondiale per le installazioni di robot industriali: sarebbero più di 155 i robot presenti ogni 10mila addetti nell’industria manifatturiera. Rimane però sempre il problema dei mercati in cui vendere le merci prodotte e al centro di una selvaggia competizione.

L’alta flessibilità consentita dalla tecnologia microelettronica ha superato il Fordismo, Taylorismo, Toyotismo, Ohnismo, Volvoismo, e ogni altro sistema gestionale della produzione di merci, consentendo una velocizzazione e uno stretto controllo sia dei tempi sia della qualità. Lo stesso per le nuove applicazioni (stampa tridimensionale, nanotecnologia e tecnologia della conoscenza). Il capitalismo si aggrappa ad un ammodernamento tecnologico e scientifico che diventa una mina pronta a far esplodere tutto il sistema, a questo punto costretto – oltre tutto – ad ubbidire a sua volta all’imperativo categorico di mantenere un ciclo continuo di produzione di merci, al fine del “pagamento” sia di macchine e impianti sia delle spese generali indispensabili per tenere in vita il sistema. Il quale ha come suo unico obiettivo quello di superare una evidente saturazione dei mercati e non certamente di soddisfare i bisogni di gran parte della intera umanità sofferente e disperata, travolta in una spirale di innovazioni tecnologiche e di automazione che – sotto il comando del capitale - rendono i processi di lavoro, la loro organizzazione e i cicli di produzione altamente flessibili, scorporabili e assoggettati a intermediazioni di ogni genere. Sia la produzione che il movimento delle merci è velocizzato al massimo e obbliga a turni e ritmi di lavoro spesso insostenibili, addirittura massacranti.

Ed il “valore aggiunto” si indebolisce: sia nei cosiddetti “settori maturi” (siderurgia, mezzi di trasporto, macchine utensili, agroalimentare, ecc.) sia nelle telecomunicazioni, biotecnologie e farmaceutica, aeronautica e droni civili. Anche i nuovi materiali e le energie alternative sono introdotte con l’obiettivo di rafforzare il “valore aggiunto”. Ma questo – con la inevitabile caduta del saggio medio di profitto – si abbatte! Da ciò la ricerca disperata per recuperare con ogni mezzo margini di profitto e continuando – dove si presenta l’occasione – a perseguire un bestiale sfruttamento persino del lavoro minorile: sarebbero più di 165 milioni i bambini schiavizzati dal capitale nel mondo!

Ma se tutta la produzione di merci dipendesse da robot, finirebbe il capitalismo. In qual modo infatti si potrebbe creare plusvalore e permettere al capitalismo di realizzare ciò che per lui è questione di vita o morte? Non essendoci più un gran numero di operai che fornisce plus-lavoro e quindi plusvalore, ricevendo in cambio un salario in denaro per comperare una parte (minima) di quanto produce, chi “comprerà” le merci? I proletari diventerebbero un “esubero” permanente, non più utilizzabile dal capitale per la propria riproduzione e neppure come “serbatoio di manodopera” per il futuro.

L’aumento della produttività, che è diventato un imperativo per il capitale, gli ha reso superfluo (con lo sviluppo di scienza e tecnologia) l’uso di molta forza-lavoro. In più, con la meccanizzazione e riorganizzazione dei processi produttivi, oltre a puntare tutto sul plusvalore relativo, ogni capitale insegue una sua maggiore competitività attraverso contenimenti e riduzioni dei salari, aumenti della intensità del lavoro (plusvalore assoluto) e prestazioni fuori orario per chi è ancora alle sue dipendenze. Ma alla fine, il capitale non trova più occasioni di investimento produttivo tali da assorbire l’offerta di operai che affollano il cosiddetto mercato del lavoro. Là dove si agita un proletariato in gran parte ancora intrappolato nella illusione di una “razionalizzazione” delle dinamiche del lavoro, ideologicamente soggiogato dalla rivendicazione di un lavoro salariato che lo mantiene sotto il dominio del capitale. Una richiesta che drammaticamente crolla davanti alla crisi del capitalismo e alle sue recenti ristrutturazioni per sopravvivere come modo di produzione e distribuzione. Con un costante aumento della composizione organica del capitale produttivo, alle prese con la sempre più feroce concorrenza mercantile internazionale.

Il volume dei «primi bisogni vitali naturali e storicamente sviluppati» si è ampliato negli ultimi decenni, ma il capitalismo è costretto a negarli ormai a centinaia di milioni di esseri umani in ogni parte del mondo. La crescita del capitale fisso e costante si è fatta tale da rendere impossibile il soddisfare la richiesta fattasi frenetica di plusvalore per rispondere ai “bisogni” del capitale. La composizione organica del capitale ha subito e subirà forti aumenti (sia nel capitale costante sia, soprattutto nel capitale fisso), mentre il numero dei salariati produttivi continuerà a diminuire, riducendo la massa di plusvalore estraibile dalla loro forza-lavoro.

Scarseggia il plusvalore

Sempre premettendo il principio fondamentale che le macchine - come scrive Marx nel Capitale – non “aggiungono mai più valore di quanto ne perdono per il loro logorio”, anche con l'introduzione dell'automazione cioè di macchine che si controllano da sole, nel capitalismo il lavoro umano sociale rimane l'unico elemento attivo della produzione di valori di scambio. E nel capitalismo, l'attività dei robot dovrebbe - a sentir “loro” - servire a questo come scopo. Ma più aumentano gli investimenti di capitale costante ad alto contenuto tecnologico e informatico, oltre ai necessari investimenti commerciali per la distribuzione delle merci della new economy, e più si diffonde la centralizzazione di una colossale massa di capitali, con gruppi finanziari a loro volta dipendenti da settori altamente tecnologizzati, a scapito del numero di operai impiegati. La caduta del saggio di profitto diventa inevitabile, cercando una alternativa del tutto astratta nella parassitaria accumulazione finanziaria in parte dirottata verso i giochi di Borsa. I movimenti di azioni, obbligazioni, derivati hanno sostituito quelli della produzione di merci finendo con l’accentuare anziché invertire i rallentamenti del saggio di accumulazione. Cresce soltanto una montagna di cosiddetti fondi di investimento, ma senza il loro impiego per la realizzazione di un plusvalore nel settore industriale con un ciclo produttivo di merci (che dovranno poi essere vendute), il denaro ricevuto in prestito si immobilizza e comunque lo si usi non ottiene quel profitto che lo dovrebbe trasformare da D in D’.

Evitando – per forza di cose! – l’impiego industriale, si punta tutto sul denaro che dovrebbe fruttare altro denaro dal nulla, mentre col solo plusvalore prodotto da quasi due miliardi di lavoratori (altri, circa un miliardo, sono occupati nei servizi) si alimentano i profitti, interessi, dividendi, rendite, tasse statali, salari dei dipendenti commerciali e pubblici, polizia e forze armate, ecc…

Capitalizzazione del plusvalore

La crescita del capitalismo è impossibile senza accumulazione di capitale, per cui è necessaria una costante “estrazione” di plusvalore dalla produzione di merci: il flusso del plusvalore deve essere incessante per consentire un progressivo allargarsi degli investimenti. Ma se al tutto si accompagna una diminuzione relativa dell’occupazione - poiché gli investimenti (a seguito dello sviluppo tecnologico) sono sempre più in capitale fisso e in macchinari, e sempre meno in capitale variabile - l’accumulazione entra in crisi. La massa di plusvalore estraibile, che dipende dall’uso-sfruttamento di vivo lavoro, non aumenta sufficientemente per la valorizzazione della accresciuta quantità di capitale investito. Il numero degli operai, della forza-lavoro che produce merci, dovrebbe espandersi e non diminuire come invece accade con l’aumento della produttività del lavoro, valido soltanto fino ad un certo punto. Inoltre, le merci vanno vendute e i tempi di rotazione del capitale devono ridursi nel tentativo di aumentare il saggio annuo di plusvalore. Il capitale è quindi costretto dalla concorrenza internazionale a ridurre i tempi di circolazione delle merci, affinché esse non stazionino a lungo nei magazzini.

Saggio di profitto

L’utilizzo delle macchine causa, oltre al calo dell’occupazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto, il quale avrebbe necessità di un costante aumento del plusvalore estorto alla classe operaia se questa fosse occupata. Plusvalore da dividere per il capitale totale investito, ossia sommando capitale costante (investimenti in macchine) e capitale variabile (investimenti in salari). Se al numeratore il plusvalore, a un certo grado di sviluppo, si arresta, mentre il denominatore cresce per effetto dell’aumento degli investimenti in robotica, ciò significa che il profitto comincia inevitabilmente a decadere. L’accumulazione si arresta e ha inizio un periodo di crisi.

Il capitale tenta invano di mistificare gli incrementi produttivi - dovuti all’applicazione della scienza – come una forza produttiva appartenente al capitale, non come forza produttiva del lavoro socializzato. Anzi, questo vivo lavoro in carne ed ossa oltre che intelligenza, viene scartato e messo in un angolo, eliminato perché diventato superfluo. Avanzano i software di intelligenza artificiale nei settori che fino a qualche anno fa avrebbero dovuto assorbire centinaia di migliaia di lavoratori. Come nei settori “impiegatizi” dove si trema di fronte alla minaccia di una invasione di algoritmi che si appropriano di analisi di dati, sviluppano procedure, prendono decisioni. Si pensi al futuro di quella che sarebbe una parte di “ceto medio in espansione”: commercialisti, avvocati, funzionari di banca, direttori, analisti finanziari, giornalisti ecc.: su tutti si sta per abbattere uno tsumani di applicazioni programmate, di integrazione dei sistemi ad un solo linguaggio con la massima digitalizzazione.

Intanto, in ogni parte del mondo cresce il numero di quanti sprofondano nella miseria e nella fame, e nelle stanze adiacenti ai Palazzi gli “scienziati” del capitale discettano fra di loro attorno ad una ipotesi di “giusto” equilibrio fra costi e prezzi di vendita delle merci (“flusso circolare”). Ma se mancano “consumatori” solvibili, quelli che tengono in vita il settore della “circolazione”, chi farebbe da “mediatore” generale tra produzione e consumo? La pretesa di ricavare un profitto che “regola” costi e ricavi di ogni investimento di capitale, diventa una illusione devastante per il sistema. Come se non bastasse, gli intellettuali borghesi, a questo punto, si inventano persino la scomparsa del proletariato poiché il capitalismo lo avrebbe integrato dentro di sé, politicamente e ideologicamente. Convincendolo che la tecnologia sarebbe diventata una cosa sola col capitale, “unico soggetto automatico” (come lo definiva Marx), sostenendolo e finalizzandolo al… bene di tutti!

Nuovi consumi?

Le menti annebbiate degli “esperti” vagheggiano attorno a fantasmagoriche “nuove ondate di consumi di massa”, con cataste di merci sfornate dalle “fabbriche intelligenti”, sognando profitti alle stelle; si perderà qualche milione di posti lavoro nei vari paesi, e quindi di “consumatori”, ma questo è il prezzo da pagare al progresso! Ovvero, gli apologeti del capitalismo si stanno aggirando in una realtà che vede i mercati di beni e servizi sempre più in crisi, con le porte chiuse per almeno metà umanità (ormai tre mld e mezzo di esseri umani!). Non solo cresce la disoccupazione, ma la maggior parte di chi ancora riesce a vendere la propria forza-lavoro al capitale, va ad ingrossare le fila di un altro esercito, quello dei “lavoratori poveri” (working poors) con salari al di sotto del 60% di quelli medi. E tutti si aggirano fra montagne di capitale costante (macchine, energia, materie prime e componenti semilavorati) mentre proporzionalmente va diminuendo quello variabile e produttivo, con la diretta conseguenza che ogni unità di prodotto contiene sempre meno plusvalore costringendo il capitale a cercare di sfornare (e vendere) una maggiore quantità di merci.

La produttività, da delizia a croce per il capitalismo

L’aumento della produttività sarebbe necessario al capitalismo poiché ad esso interessano le merci soltanto come valori di scambio direttamente trasformabili in denaro che dovrà diventare nuovo capitale. Ma ecco che cataste di prodotti-merci non trovano più acquirenti; non siamo solo noi a dirlo, bensì economisti e politologi borghesi che piangono una economia mondiale impantanatasi in una “stagnazione” definita “secolare”. Una situazione “macroeconomica” che preoccupa, col contorno di una iniziale inflazione trasformatasi poi in deflazione e quindi “insopportabile” per lo… sviluppo del capitalismo!

Le “formule e i modelli matematici” vanno in tilt appena vengono alla luce, dimostrandosi inapplicabili nella realtà del presente stato di cose dove tutto funziona al contrario delle previsioni enunciate. Come il mito di una soluzione keynesiana (soldi facili, zero interessi e fiscal spending), franato ad ogni parziale tentativo di applicazione: di fronte alla madre di tutte le crisi, con una bassa redditività del capitale, non c’è più possibilità per una ripresa economica.

Per accedere ai mercati occorrono oggi continue innovazioni dei prodotti e uno stretto controllo sia dei tempi sia della qualità. A questo punto il capitalismo si trova seduto su una serie di mine pronte a far esplodere tutto il sistema. Sia nei cosiddetti “settori maturi” (siderurgia, mezzi di trasporto, macchine utensili, agroalimentare, ecc.) sia nelle telecomunicazioni, biotecnologie e farmaceutica, aeronautica e droni civili, sia infine con i nuovi materiali e le energie alternative. L’obiettivo è uno solo: rafforzare il “valore aggiunto”. Ma questo – con la caduta del saggio medio di profitto - si… indebolisce!

Anche nella finanza (banche, amministrazione e contabilità, con operazioni eseguite automaticamente pure nelle negoziazioni di Borsa) la diffusione dei microcomputer porta a inarrestabili riduzioni di personale. Lo stesso per tutte le attività commerciali che stanno diventando elettroniche, e per tutto il terziario: le applicazioni informatiche e di lettura ottica sostituiscono migliaia di operatori umani e si diffondono nelle reti di vendita al dettaglio, con l'utilizzo di apparecchiature automatiche che stimolano il self service. I sistemi informatici integrati (con elettroni e quanti di luce) automatizzano la maggior parte dei servizi burocratico-amministrativi; pochi analisti prendono il posto (e molto meno salario) di centinaia di lavoratori.

Da un po’ di tempo, circola fra i critici (si fa per dire) del capitalismo la valutazione dei prossimi anni quale periodo cruciale di innovazioni tecnologiche e di una invasione di robot. Non solo nelle industrie manifatturiere, ma in tutti i settori: uffici amministrativi e contabili, fast-food e call center; ovunque computer e programmi intelligenti sostituiranno gli addetti alle attività di raccolta, analisi e utilizzo di informazioni (contabili, traders di borsa, avvocati, personale medico, ecc.). Nelle infrastrutture, infatti, sta dilagando l’ottica tecnologica; si diffondono sensori, smart cities, autostrade informatiche e banda ultra-larga.

Sotto il capitalismo, “la macchina affama e logora i lavoratori”: “questo antagonismo tra le forze produttive e i rapporti sociali della nostra epoca sono un fatto di un’evidenza schiacciante che nessuno oserebbe rifiutare”. Nella società capitalistica «l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata». In questa «personificazione delle cose e oggettivazione dei rapporti di produzione», il capitalismo, tanto privato che statale, ha attuato un completo sfruttamento e dominio di ogni specie vivente sul pianeta. Ma proprio perché l’attività che valorizza il capitale è quella della forza-lavoro, quando questa si riduce - come dice Marx – a “qualcosa di infinitamente piccolo”, nel prodotto “scompare ogni rapporto al bisogno immediato del produttore e quindi al valore d'uso immediato”. Il capitale “assorbe l’accumulazione della scienza e dell’abilità (forze produttive generali del cervello sociale) che rimane così, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale”. Ecco allora che “l'operaio si presenta superfluo, nella misura in cui la sua azione non è condizionata dal bisogno del capitale. (…) Il lavoro immediato e la sua quantità scompaiono come principio determinante della produzione di merci”. Il lavoro si riduce ad una pura astrazione, alla sorveglianza di un processo di produzione che ha perso la base del valore, col capitale che, ridotto il tempo di lavoro ad un minimo, ora contraddittoriamente “non può valorizzare alcun plusprodotto…”. (dai Grundrisse di Marx)

Gli ammodernamenti tecnologici

Quali le conclusioni? Nella Ideologia tedesca (1845), Marx scriveva che le forze produttive nel loro sviluppo fanno sorgere altre forze produttive (le macchine) e allargano gli attuali mezzi di relazione (il denaro). Nella attuale situazione – continua Marx – esse diventano “forze distruttive (macchine e denaro)”.

Questo sviluppo tecnologico porta ad una costante diminuzione di quel tempo di lavoro vivo sul quale il capitalismo basa lo sfruttamento della forza-lavoro proletaria indispensabile per fare acquisire pusvalore al capitale e mantenere la propria organizzazione economica e sociale. È per lui “misura e fonte della ricchezza” di cui si appropria. Si oppone quindi – con tutta la propria forza (ancora enorme…) di cui dispone - ad un altro ordine sociale che con le forze produttive disponibili può liberare dall’impoverimento e dalla barbarie avanzante la maggioranza degli abitanti della Terra. Il capitalismo, continuando ad imporsi quale totalità economico-sociale, pesa come un macigno sul futuro della stessa specie umana.

L’“organizzazione” produttiva e distributiva vigente nella società borghese, al seguito delle strutture di base del modo di produzione capitalistico e nel rispetto delle sue categorie fondamentali (valore, lavoro salariato, merce e denaro), mostra ora i più che evidenti segni di un declino irreversibile. Le categorie che lo reggono non sono eterne; gli appartengono specificatamente e sono – come scriveva Marx – “forme del suo essere”, determinate da quella che è la quotidianeità del capitalismo stesso. Tutta la produzione è sottoposta alle esigenze del processo di valorizzazione del capitale e non ai bisogni dell’umanità; il capitale diventa il "soggetto automatico" (Marx) di un processo basato sulla valorizzazione del capitale. Gran parte di esso diventa capitale fittizio inseguendo uno sviluppo delle forze produttive da indirizzare unicamente alla soddisfazione dei propri interessi. Ma per la sua valorizzazione globale, il capitale deve sfruttare lavoro umano. Se questo viene meno, quantitativamente, e proprio con l'impiego di tecnologie sempre più sofisticate, si innesta una diminuzione del tasso generale di profitto. Questa contraddizione può essere solo rallentata con l’uso di palliativi momentanei, comunque sempre peggiorativi per le condizioni del proletariato. Aumentare la produttività significa diminuire il lavoro necessario per produrre quantitativi di merci sempre maggiori; significa però rendere non più sufficiente – per la valorizzazione del capitale – quella “creazione” di plusvalore che illusoriamente i mercati finanziari inseguono. Ma la crescita della popolazione "superflua" che non può più essere integrata nel sistema produttivo, diventa incontrollabile.

DC
Venerdì, November 15, 2019

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.