Riunione del G7

All’esame dei grandi i problemi dell’economia mondiale

Lo scorso 27 aprile si è svolta a Washington, ai margini del Comitato interinale del Fondo Monetario Internazionale - Banca Mondiale, la consueta riunione primaverile del G7. I governatori delle banche centrali e i ministri finanziari delle maggiori potenze economiche del pianeta hanno avviato la discussione sui maggiori problemi dell’economia mondiale, discussione che sarà ripresa il prossimo giugno a Denver nella riunione generale del G7.

Nel corso della riunione gli Stati Uniti hanno per la prima volta posto all’ordine del giorno il problema della nascita della moneta unica europea. Il Ministro del tesoro americano Rubin, pur dichiarando che gli Stati Uniti non guardano con apprensione ma con estremo interesse la nascita dell’Unione monetaria europea (Ume), ha espresso la necessità da parte dell’amministrazione Clinton di comprendere meglio i meccanismi monetari europei del dopo Maastricht. Rubin ha posto l’accento sulla necessità statunitense di essere informati in maniera più completa sulle dinamiche dell’Ume, sull’impatto che la moneta unica avrà sui commerci mondiali e sugli equilibri valutari.

Con l’unificazione monetaria dell’Europa e la conseguente nascita dell’euro, il dollaro potrebbe perdere la propria centralità nel sistema monetario internazionale con incalcolabili danni per l’imperialismo statunitense. Alle richieste di chiarimenti da parte del Segretario al Tesoro americano, i ministri finanziari europei hanno dato delle risposte alquanto vaghe. A causa delle attuali difficoltà economiche dell’Europa, del dilagare della disoccupazione e di una modesta crescita del Pil, la borghesia europea non è riuscita a mettere a punto i meccanismi tecnici che dovranno governare la nascita dell’euro. Tale ritardo, palesando le difficoltà della borghesia europea nel cammino verso la moneta unica, ha indotto i propri rappresentanti a rinviare la discussione ai prossimi vertici del G7.

Aldilà delle dichiarazioni ufficiali finora rilasciate dall’amministrazione americana, la sortita del segretario al Tesoro Rubin ha fatto emergere la profonda avversione statunitense alla nascita di un’area monetaria di dimensioni continentali capace di contrastare la forza del dollaro. La nascita dell’euro, la moneta unica europea, se dovesse concretizzarsi produrrebbe un vero e proprio terremoto negli equilibri monetari e quindi imperialistici mondiali. Gli Stati Uniti, come più volte abbiamo sottolineato su Battaglia e Prometeo, nonostante il ridimensionamento della propria economia nell’ambito di quella internazionale hanno mantenuto quasi inalterato il proprio dominio imperialistico esclusivamente grazie alla forza del dollaro. Nessun altro paese può vantare una moneta così diffusa sui mercati internazionali capace di determinare l’andamento dell’intera economia mondiale. È stata la forza della propria moneta a garantire agli Stati Uniti il dominio imperialistico, l’afflusso costante di capitali sul mercato interno a bassi tassi d’interesse e soprattutto la ripartizione a proprio vantaggio della rendita finanziaria. Perdere la centralità del dollaro nel sistema monetario internazionale per gli Stati Uniti significa accelerare il proprio declino come superpotenza imperialistica.

Nel corso della riunione è stato affrontato il problema, più contingente, della continua rivalutazione del dollaro e delle ricadute sull’economia mondiale. Dopo la svalutazione del biglietto verde a seguito della crisi finanziaria messicana del dicembre 94, il dollaro ha pienamente recuperato le quotazioni sia nei confronti del marco tedesco che dello yen giapponese. Attualmente la moneta americana viene scambiata a 125 yen e a 1,73 marchi, massimi valori da tre anni a questa parte. Il recupero del dollaro nei confronti del marco e dello yen negli ultimi due anni è stato travolgente; si è rivalutato rispettivamente del 35 e del 50% con la conseguenza di aver rilanciato alla grande le esportazioni di questi paesi verso il mercato statunitense.

Finora la rivalutazione del dollaro è stata funzionale alle dinamiche economiche internazionali. Gli Stati Uniti sono l’unico paese nel contesto internazionale ad aver fatto registrare negli ultimi mesi un tasso di crescita del Pil superiore al 5% mentre gli altri paesi si son dovuti accontentare di una crescita media del Pil di poco superiore al 1,5%. In un simile scenario la rivalutazione del dollaro ha permesso all’Europa e al Giappone di sopperire con le esportazioni ad una situazione economica interna stagnante. Gli Stati Uniti, pur traendo notevoli vantaggi dalla rivalutazione della propria moneta, ancora una volta si sono fatti carico di trainare fuori dalle secche della stagnazione l’intera economia mondiale. Ma la continua rivalutazione del dollaro sta riproponendo il problema del deficit della bilancia commerciale statunitense. Negli ultimi mesi è cresciuto a dismisura il surplus commerciale giapponese nei confronti degli Stati Uniti, creando serie preoccupazioni soprattutto nell’industria automobilistica americana, da sempre alle prese con la spietata concorrenza nipponica. L’ultimo dato disponibile della bilancia commerciale statunitense indica un passivo mensile record di ben 16,9 miliardi di dollari.

Un ulteriore ascesa del dollaro, se da un lato determina un aumento del deficit commerciale dall’altro, anche in virtù del sostanziale buon andamento dei consumi interni, può innescare pericolosi processi inflazionistici sul mercato statunitense. I governatori e i ministri finanziari nel corso della riunione del G7 hanno dichiarato l’assoluta necessità di spegnere sul nascere possibili focolai inflazionistici al fine di evitare qualsiasi tensione sul fronte della politica dei tassi d’interesse. Il precario equilibrio che regna sul mercato finanziario e monetario, dopo la crisi di due anni fa, impone alle varie banche centrali di coordinare internazionalmente gli interventi sui tassi di sconto per evitare dei pesanti contraccolpi sull’intero sistema economico. Evitare di far ripartire l’inflazione statunitense significa non dover intervenire sui tassi d’interesse e quindi evitare delle turbolenze sui mercati azionari.

Già nei mesi scorsi dopo il lieve rialzo del tasso di sconto praticato dalla Federal Reserve, una massa enorme di capitali si era spostata pericolosamente dal mercato azionario a quello dei titoli di stato con pesanti ripercussioni sull’andamento della borsa di New York. Nell’arco di tre sedute l’indice Daw Jones ha perso quasi il 6% del proprio valore, alimentando l’opinione sempre più diffusa che l’euforia speculativa che regna nella borsa americana sia ormai giunta al capolinea. Sono molti i fattori che lasciano presagire ad un forte scossone nella borsa newyorchese: 1) montagne di quattrini sono state prestate a debitori che difficilmente potranno onorare i loro impegni; 2) miliardi di dollari in giro che rendono pochissimo (mediamente il rapporto tra il prezzo delle azioni e loro il utile non supera il 2%). Quest’ultimo dato è emblematico delle difficoltà che trova la massa enorme di capitali nel realizzare un profitto adeguato a garantire i processi d’accumulazione. In un simile contesto anche un lieve aumento del tasso di sconto da parte della banca centrale americana, per il fatto di rendere più remunerativi gli investimenti sui titoli di stato rispetto agli investimenti in azioni, può innescare una fuga dal mercato azionario con la conseguenza di dar luogo ad un vero e proprio crollo della borsa. A differenza di quello che ci propina la propaganda borghese, la quale sostiene che è l’aumento del numero degli occupati statunitensi a provocare il panico a Wall Street, gli improvvisi scossoni della borsa sono esclusivamente da attribuire agli spostamenti di capitali che repentinamente si spostano da un mercato all’altro in rapporto alla loro remuneratività.

Come sempre le “raccomanda-zioni” contenute nel comunicato finale sono state puntualmente smentite dal “mercato” (infatti nei giorni successivi la moneta statunitense ha proseguito ad apprezzarsi rispetto alle altre principali monete). Quel mercato che dominato dai grandi gruppi monopolistici in barba al G7 continua imperterrito a succhiare parassitariamente plusvalore e nello stesso tempo a produrre tutte le condizioni necessarie per una crisi dell’intero sistema economico-finanziario.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.