Fine del sogno neo-liberista

Nonostante che gli osservatori borghesi, data la marginalità della sua economia rispetto a quella mondiale, tentino di ridimensionarne il significato, la crisi finanziaria che ha travolto la Russia non è un episodio locale destinato al dimenticatoio della storia economica. Non bisogna dimenticare, infatti, che si tratta del crollo verticale di quella che è stata la seconda potenza industriale del mondo. E se è vero che nel contesto del commercio mondiale la Russia vale poco più della Danimarca, è vero anche che si tratta del crollo della seconda potenza militare e di un paese ricco di materie prime come pochi altri al mondo. In realtà, a colpire il rublo è stata l’onda lunga della crisi del ciclo di accumulazione capitalistica che ha iniziato a manifestarsi nei primi anni ‘70 negli Stati Uniti e che nel corso del tempo è stata trasferita, attraverso i processi di globalizzazione finanziaria e industriale, al resto del pianeta e che ora si ripresenta alla stazione di partenza.

Il fatto che finora, grazie ai meccanismi di appropriazione parassitaria basati sulla produzione di capitale fittizio, le grandi metropoli del capitale, erano riuscite a contenere i suoi effetti più devastanti, aveva convinto non solo gli intellettuali e gli economisti borghesi, ma anche molti di quelli sedicenti di ispirazione marxista che effettivamente il capitalismo avesse trovato la soluzione a tutti i suoi problemi e superato definitivamente le sue più intime contraddizioni.

Per descrivere il fenomeno, che a loro dire imponeva ancora una volta di andare “oltre Marx”, alcuni di essi avevano fatto ricorso a formulazioni tanto suggestive quanto prive di significato. Qualcuno, per esempio, ha supposto che la crescita spropositata della produzione di capitale fittizio corrispondesse a una nuova forma di produzione del plusvalore non più soltanto mediante i meccanismi tradizionali dello sfruttamento della forza-lavoro, ma anche con l’appropriazione del “sapere” mediante la produzione di beni “immateriali” e così le fabbriche sono state definite delle “macchine linguistiche” ( Vedi C. Marrazzi - Esodo e Rivoluzioni dei mercati finanziari) e il capitalismo, “capitalismo cognitivo” ( Vedi L. Cillario - L’economia degli spettri).

La crisi russa, in quanto momento della più generale crisi del sistema, con il suo corollario di fame, di miseria e di svalutazione continua dei salari prova, invece, che la valorizzazione del capitale può avvenire solo mediante lo sfruttamento della forza-lavoro e che dietro il “miracolo” della produzione di denaro per mezzo del denaro non vi era e non vi è altro che l’affinamento ulteriore del dominio del capitale finanziario a spese dei più deboli e in ultima istanza del proletariato mondiale. Il crollo della Russia è l’ultimo atto di un processo di spoliazione che nel corso degli anni ha ridotto alla miseria e alla povertà più totale prima le già povere aree della periferia non industrializzata (il cosiddetto terzo mondo) e poi quella di media industrializzazione. In realtà, solo la crescita spropositata della rendita finanziaria ha consentito alle metropoli dell’imperialismo e alla sua capofila statunitense di sopravvivere alla loro stessa crisi, altro che capitalismo cognitivo, altro che macchine linguistiche!

Gli esperti, i cosiddetti esperti, che fino a ieri erano stati i paladini della liberalizzazione e della deregolamentazione dei mercati finanziari, invocano, ora che la crisi rischia di travolgere anche Gli Stati Uniti e l’Europa, nuove regole e controlli sul movimento dei capitali. E non inorridiscono, come avrebbero fatto solo qualche settimana fa, neppure quando, come ha fatto il russo Cernomyrdin, si paventata l’instaurazione di una “dittatura economica” e la presenza attiva dello stato nella gestione delle imprese. Tacciono anche di fronte al fatto che in molti paesi asiatici, e non solo asiatici, lo stato sta comprando azioni ed obbligazioni per impedire il tracollo completo delle borse. Ormai, il timore che da qui a qualche anno il crollo possa generalizzarsi è così grande che “lacci e lacciuoli” non fanno più specie, e un ritorno al passato non dispiacerebbe neppure ai neo-liberisti più sfegatati. Ma un ritorno puro e semplice alla finanza regolamentata in funzione anticiclica, seppure in via teorica non possa escludersi, è altamente improbabile. Alla deregolamentazione e la globalizzazione industriale e finanziaria, il capitalismo è pervenuto sotto la spinta della crisi e non per scelta politica e soggettiva della classe dominante per cui ipotizzare un ritorno a politiche economiche come quelle keynesiane attuate nella fase ascendente del ciclo di accumulazione avviatosi dopo la secondo guerra mondiale, appare un’aspirazione destinata a restare tale.

Lo scenario più ottimistico che si profila è quello di una lunga fase recessiva in cui possano attivarsi meccanismi di distruzione soffice di una buona parte del capitale fittizio formatosi nel corso degli ultimi quindici anni e che minaccia di soffocare gran parte delle attività produttive. Ma si tratta appunto di uno scenario ottimistico poiché appare estremamente difficile gestire un processo di tale portata mentre restano immutate le ragioni che hanno determinato l’esplosione della sfera finanziaria e la dilatazione dei processi di appropriazione parassitaria del plusvalore. Più probabile appare invece l’accentuarsi dello scontro fra le maggiori aree monetarie per il controllo del mercato finanziario (valute di riserva e di pagamento internazionali), della forza-lavoro, delle materie prime in generale e del petrolio in special modo. D’altra parte è proprio per soddisfare questa esigenza che è stato creato l’Euro. E visto che a essere maggiormente esposto in Russia è proprio il sistema creditizio europeo e particolarmente quello tedesco, non è neppure da escludere che nella crisi russa ci siano anche le prime avvisaglie dello scontro sempre più duro che si profila fra il dollaro e la nascente moneta europea.

Di certo e per ammissione di molti dei suoi stessi profeti, il crollo russo segna la fine della gestione neo-liberista della crisi generale del capitale senza che il sistema si sia tirato fuori dalle sabbie mobili in cui si dimena da circa trenta anni lasciandosi alle spalle un cumulo di macerie da cui non si sa né come né chi possa venirne fuori. Va a farsi friggere anche l’illusione, celebrata dall’ideologia dominante con la stessa intensità e frequenza con cui specularmente celebrava i funerali del marxismo, che la ricchezza si potesse moltiplicare stampando carta-moneta. Al suo posto resta invece la più concreta possibilità che il sistema si riaccartocci su sé stesso alimentando una spirale di violenza e di povertà senza limiti almeno fino a quando il proletariato internazionale non sarà capace di ritrovare in sé le ragioni e la forza per opporre alla crescente barbarie la sua alternativa.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.