La strage continua - L'atroce morte dei 58 lavoratori cinesi

La morte di 58 immigrati cinesi, soffocati nel cassone di un camion col quale cercavano di arrivare in Gran Bretagna, non è un fatto eccezionale, ma solo un'altra quotidiana conferma della natura criminale e criminogena del capitalismo, che assassina, mutila, ammala il proletariato dell'intero pianeta, anche se, come sempre, sono i settori più deboli della classe operaia mondiale quelli maggiormente colpiti. È la borghesia stessa, attraverso i suoi organismi ufficiali, a confermarcelo: secondo i dati dell'Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO) nel 1998 solo gli infortuni mortali sono stati 330.000, per il 90% concentrati in quei paesi detti, con cinico eufemismo, in via di sviluppo (il Manifesto, 23-06-'00). A queste cifre spaventose, eloquenti testimoni della guerra permanete condotta dal capitale contro il lavoro salariato, si sommano quelle degli immigrati morti nel tentativo di raggiungere le metropoli capitalistiche o espulsi come elementi indesiderati dalle stesse. Dal 1993 al maggio del 2000, oltre duemila persone hanno perso la vita "annegate nello stretto di Gibilterra - o del canale d'Otranto, n.d.r. - soffocate durante la loro espulsione o nei luoghi chiusi in cui erano 'trattenute', suicidate dopo aver saputo che l'accoglienza era loro negata, morte di freddo durante l'atterraggio di un Airbus, gettati in mare dagli scafisti che sfuggivano ai guardacoste" (Le Monde diplomatique, sito Internet). Le ipocrite e disgustose espressioni di cordoglio della borghesia - dai governanti ai loro prezzolati giornalisti - vogliono solamente coprire con una foglia di fico il fatto, di per sé di una chiarezza abbagliante, che il trattato di Shengen e le legislazioni nazionali ad esso ispirate, tendenti a rendere estremamente difficoltoso l'ingresso agli immigrati, sono pilastri fondamentali dell'Unione Europea, a loro volta figli legittimi del presente periodo storico. Infatti, come abbiamo più volte detto, la crisi del ciclo di accumulazione capitalistica, apertasi formalmente una trentina d'anni fa, ha chiuso l'epoca delle grandi migrazioni o, meglio, l'epoca in cui milioni di proletari erano richiamati e assorbiti dalle grandi concentrazioni industriali, effetto - e causa - dell'espansione economica seguita alla seconda guerra imperialista mondiale. Non che allora il proletariato migrante camminasse su un tappeto di rose e fiori, tutt'altro, ma, prima o poi, trovava in gran parte occupazione nei cuori pulsanti dello sviluppo capitalistico, fossero essi il Triangolo industriale del Nord Italia, la valle del Reno in Germania o i bacini carboniferi dell'Europa di lingua francese, per non parlare delle Americhe del primo novecento. Oggi non è più così. I cambiamenti nell'organizzazione del lavoro hanno ridimensionato, spesso pesantemente, le grandi fabbriche, frammentato artificialmente e precarizzato la manodopera, aumentato la disoccupazione - attestatasi strutturalmente su livelli molto elevati - e, contemporaneamente, messo la parola fine alla libera circolazione della forza-lavoro. Questa politica, pensata e attuata fin dalla metà degli anni '70 da tutte le borghesie europee (e non solo) - in significativa concomitanza dell'arresto del boom economico - ha l'obiettivo di gestire i flussi di entrata nel modo più redditizio per il capitale. Infatti, la clandestinità, a cui le leggi ultra restrittive sull'immigrazione costringono migliaia e migliaia di proletari, è un'ottima arma per rendere più ricattabili gli immigrati, quindi aumentare il potere del padrone e, di conseguenza, indebolire complessivamente tutta la classe operaia (oltre che per arricchire le varie mafie che prosperano col traffico della merce umana), ma allo stesso tempo la borghesia cerca di fare in modo che l'irregolarità non si trasformi in una minaccia per l'ordine costituito. In breve, al di là di una certa soglia l'immigrato clandestino può diventare un fattore di "disturbo sociale", perdendo in tal modo la sua redditività: decine di migliaia di clandestini, sì, milioni, no! È una delle tante contraddizioni insite nel modo di produzione capitalistico cui la borghesia cerca inutilmente di porre rimedio con misure esclusivamente repressive. Infatti, il procedere della crisi globale del capitale, da una parte, ha esaurito i margini di riformismo assistenzialistico e, dall'altra, non cessa di devastare la vita di milioni e milioni di esseri umani sprofondandoli nella disperazione e nella miseria, obbligandoli a emigrare per cercare una vita meno peggiore o almeno la sopravvivenza. La Cina, da cui provenivano gli emigranti morti tragicamente nel viaggio verso l'Inghilterra, è, da questo punto di vista, esemplare. I suoi alti indici di sviluppo economico, citati con ammirazione mista a timore dai mass media occidentali, e vantati dalla borghesia cinese vecchia e nuova, hanno come naturale contropartita lo sfruttamento selvaggio e l'immiserimento - precarizzazione di masse enormi di proletari, risucchiati nella tendenza mondiale al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato. I disoccupati si contano a decine di milioni (per non parlare dei sottoccupati) dovuti in gran parte allo smantellamento-privatizzazione delle imprese statali. E chi ha la "fortuna" di trovare un impiego nelle nuove aziende che sorgono soprattutto nelle regioni costiere, subisce "sistemi di sfruttamento degni dei peggiori momenti del XIX secolo - giornate di dodici, quindici ore, sequestro di operai, violenza fisica ecc. [...] Dunque, da una parte, la vecchia classe operaia preda della 'fine del lavoro' postmoderna; dall'altra, una nuova classe operaia che rimanda all'infanzia del capitalismo" (J.L. Rocca, Quando l'ondata della disoccupazione si abbatte sulla Cina, Le Monde diplomatique, gennaio 1999). Ma non c'è poi bisogno di andare a Shangai: basta buttare un occhio ai tanti decantati distretti dell'Emilia o della Toscana, dove gli immigrati cinesi, regolari e clandestini, vengono sfruttati sette giorni alla settimana per dodici o più ore di lavoro al giorno, con salari che vanno dalle 100.000 alle 500.000 lire mensili, o nei laboratori del lavoro nero, specialmente meridionale, in cui migliaia di ragazze sono spremute in condizioni solo di poco "migliori".

Già qualche giorno dopo, giornali e televisione non parlavano più della strage, perché il proletariato migrante (esattamente come il suo fratello di classe indigeno) fa parlare di sé solo se sacrifica - meglio se "spettacolarmente" - la sua vita sull'altare del capitale o può essere manipolato per alimentare le bieche campagne razziste a uso e consumo della piccola borghesia e di un proletariato intontito e brutalizzato dall'ideologia borghese. Eppure, la via per uscire da questa situazione cancrenosa esiste ed è molto semplice, nonostante appaia la più complicata: è la ripresa della lotta di classe di parte operaia, è la via dell'unità di classe oltre e contro le differenze etniche, linguistiche e "culturali", nella prospettiva del superamento rivoluzionario della criminale società borghese.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.