Anno nuovo crisi vecchia - Intanto si scaldano i motori delle macchine da guerra

Il 2002 si chiude con una stima dell'incremento del Pil, sulla base delle proiezioni dei dati relativi ai primi undici mesi dell'anno, in Italia (0,04) e in quasi tutti paesi dell'euro, prossima allo zero. Né le cose vanno meglio negli Usa dove il presidente Bush ha appena mandato a casa il suo consigliere per l'economia e il sottosegretario al Tesoro perché ritenuti responsabili di non essere riusciti a portare il paese fuori dalla crisi, come dimostrano i dati relativi all'andamento dei consumi nel mese di novembre che hanno registrato un ulteriore calo del cinque per cento. Le previsioni per il 2003 ormai scontano un primo semestre ancora pesante e rinviano le speranze di una ripresa a non prima del secondo semestre che in ogni caso dovrebbe esser piuttosto tiepida visto che, se tutto va per il meglio, la crescita prevista su base annua difficilmente supererà i due punti percentuali. Insomma: anno nuovo, crisi vecchia nonostante le massicce dosi di liquidità immesse nel sistema e i tassi d'interesse ai loro minimi storici. Cosa che conferma il fatto che, se vista nella sua dimensione internazionale, essa non ha precedenti in questo secondo dopoguerra e per questo sempre più spesso anche gli economisti borghesi fanno riferimento alla grande crisi del 1929.

Il nuovo secolo, che doveva sancire il definitivo trionfo del capitalismo sta facendo emergere le prime crepe in quell'immenso castello di bugie costruito per esaltare il mercato e le miracolose virtù della sua mano invisibile che a ogni cosa metterebbe rimedio. È così terribilmente complicata la situazione, che ormai perfino i più incalliti sostenitori della globalizzazione, delle privatizzazioni e di tutto quello che è stato l'armamentario ideologico del neoliberismo, cominciano a parlare di un necessario, anche se temporaneo, ritorno a Keynes e della necessità di un intervento dello Stato a sostegno della domanda.

Peraltro, in questa direzione è stato già compiuto qualche passo. In Gran Bretagna, seppure con molta discrezione, lo stato è dovuto intervenire sia nel capitale sia nella gestione della ferrovie che rischiavano il tracollo definitivo.

Recentemente, anche il superliberista ministro italiano dell'economia Tremonti, che immaginava di passare alla storia come l'uomo che, spezzando i lacci e i lacciuoli che la imbrigliavano, avrebbe aperto all'economia italiana le porte di un nuovo rinascimento, ha ammesso la necessità, almeno per il rilancio delle opere pubbliche, a politiche keinesiane. Purtroppo per lui, e per tutti coloro che credono che questo possa essere un serio rimedio per uscire dal tunnel in cui si trova l'economia mondiale, le cose sono troppo cambiate perché sic et simpliciter si possa sul serio ipotizzare un ritorno a Keynes. Si dimentica che l'abbandono delle politiche keinesiane non fu il prodotto di una scelta "ideologica", ma il punto di approdo della devastante crisi dei primi anni '70 del secolo scorso. Si dimentica altresì che il successo della politica del finanziamento in deficit della spesa pubblica si verificò realmente soltanto dopo la seconda guerra mondiale, cioè dopo la distruzione dell'intero apparato produttivo dell'Europa, del Giappone e della stessa Russia, che rese possibile l'avvio di un nuovo ciclo di accumulazione del capitale. Ma ancor più si dimentica che stavano per nascere nuovi settori, come quello automobilistico, che, nonostante l'elevato grado di meccanizzazione, avrebbero assorbito grandi quantità di manodopera, peraltro resa scarsa dal gran numero di morti causati dalla guerra e sarebbero stati trainanti anche per settori, come quello siderurgico, già allora maturi. Oggi, nessuna di queste condizioni è presente e il fatto che si pensi anche in loro assenza a politiche che le presuppongono dimostra soltanto la povertà dell'economia politica borghese che di fronte al fallimento della ricetta neoliberista e della tanto esaltata globalizzazione che ne doveva conseguire, non trova di meglio che un ritorno al passato o di ipotizzare una diversa applicazione della globalizzazione.

Nel suo recente libro "La globalizzazione e i suoi oppositori" (Ed. Einaudi - 2002) il premio nobel per l'economia 2001, ex consigliere di Clinton ed ex esponente della Banca Mondiale, Joseph E. Stiglitz, nonostante riconosca che la globalizzazione "anche quando i risultati non sono stati così disastrosi, quando hanno favorito una crescita temporanea, spesso ne hanno tratto vantaggio solo i più abbienti, mentre i poveri sono diventati ancora più poveri" continua a ritenere "che la globalizzazione ossia l'eliminazione delle barriere al libero commercio e la maggiore integrazione tra le economie nazionali possa essere una forza positiva...che abbia tutte le potenzialità per arricchire chiunque nel mondo, in particolare i poveri. Ma perché ciò avvenga è necessario un ripensamento attento del modo in cui essa è stata gestita" (pag.14). Ma come è possibile pensare che sia possibile una gestione diversa della globalizzazione cioè a una sorta di globalizzazione regolata, se il suo presupposto era appunto la deregolamentazione dei mercati soprattutto di quelli finanziari e del lavoro? Mettere sullo stesso piano le economie più forti e quelle più deboli, imponendo l'abolizione di ogni controllo sui movimenti dei capitali, non è stato un'errata applicazione della globalizzazione, ma il suo scopo. Mediante la liberalizzazione dei processi di formazione della rendita finanziaria, infatti, l'area di appropriazione parassitaria di plusvalore è stata estesa su scala mondiale e altresì, mediante la deregolamentazione del mercato del lavoro - per sottolineare solo questi due fenomeni - è stata attivata una costante spinta alla riduzione del valore della forza-lavoro al di sotto del suo valore in coerenza con la necessità di integrare i saggi del profitto industriale in vertiginoso calo soprattutto negli Usa. E la cosa per un po' di tempo ha anche funzionato solo che ora anche questa fase si è chiusa e un'altra che concili la doppia esigenza di mantenere elevata la domanda per rilanciare la produzione insieme a quella di non intaccare i processi di appropriazione parassitaria di plusvalore, che in ultima istanza presuppone salari sempre più bassi, appare alquanto improbabile se non del tutto impossibile.

Infatti, al di là di ciò pensano gli economisti, all'orizzonte non si intravedono grandi progetti di costruzione di opere pubbliche, né piani per il lavoro e neppure politiche di controllo dei movimenti dei capitali. Si sente invece sempre più assordante il rumore delle macchine da guerra, che poi è stata sempre l'ultima fase di tutte le crisi del ciclo di accumulazione del capitale.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.