Le preoccupazioni dell'imperialismo americano - Rumsfield: A gennaio ci ritiriamo, ma...

Il 25 settembre 2004 Rumsfield ha dichiarato che il governo Usa prenderebbe in considerazione la possibilità di ritirarsi dall'Iraq prima di aver portato a compimento il processo di stabilizzazione della società irachena e che le elezioni, previste per il gennaio 2005, si farebbero soltanto nei territori effettivamente controllati dal governo Allawi. Il giorno dopo, le dichiarazioni sono state in parte rettificate dal portavoce della Casa Bianca che ha inteso ribadire la linea classica su cui si muove il governo americano sulla questione irachena sia per quanto riguarda il ritiro sia per le elezioni.

Riteniamo che non sia oggetto di indagine il perché Rumsfield si sia lasciato andare a simili dichiarazioni e perché il governo abbia ritenuto opportuno smentire immediatamente un suo ministro. Interessante invece è individuare le ragioni che hanno prodotto una simile contraddizione. A un anno e quattro mesi dall'inizio delle ostilità, l'imperialismo americano non soltanto non ha raggiunto uno solo degli obiettivi prefissati, ma ha visto centuplicarsi i problemi. Il governo Allawi non governa, l'opposizione controlla molti territori e intere città. La ricostruzione economica non è partita, manca l'acqua e l'elettricità viene erogata solo poche ore al giorno. Simili condizioni stimolano l'odio e fomentano la rivolta nei confronti delle forze occupanti. I pozzi petroliferi e gli oleodotti sono quotidianamente oggetto di attentati che rendono nulla l'esportazione e inagibile tutto ciò che dovrebbe funzionare con l'impiego del petrolio. In compenso il governo americano ha già speso 160 mld di $, ha subito oltre 1000 morti, le elezioni del gennaio 2005, se si terranno, sono un'incognita e l'opinione pubblica interna americana e internazionale prende sempre più le distanze dalle manifestazioni di forza e di arroganza delle truppe di occupazione.

Che in un simile stato di cose si possa produrre una sortita verbale come quella di Rumsfield potrebbe anche rientrare nella logica delle circostanze, ma le cose non stanno così e impongono una più attenta lettura. Gli Usa non hanno nessuna intenzione di abbandonare il campo alla chetichella e di rinunciare ai loro obiettivi economici e strategici. Le difficoltà in cui si trovano, aggiunte a quelle analoghe dell'Afganistan che durano dal 2001, pongono certamente dei problemi inaspettati per numero e intensità, ma che abbisognano di soluzioni e non di fughe o rinunce. Se il problema di fondo è la spesa militare crescente a fronte di un bilancio statale sempre più in deficit e il numero dei morti che incomincia ad essere insostenibile, la soluzione sta nel far pagare ad altri quota parte delle spese militari e di far morire altri soldati che non siano americani, con il punto fermo di lasciare agli Usa il controllo politico ed economico della ricostruenda società irachena. Il gioco non è facile e i rischi sono maggiori delle speranze, ma la strada è quasi obbligata. Uno scenario da scartare, perlomeno sino a quando i rapporti di forza rimangono quelli attuali, è quello di convincere i grandi paesi europei, Francia, Germania e Russia, a dare il loro contributo in termini di soldi e di uomini senza avanzare pretese nella gestione petrolifera e nel business della ricostruzione. Sarebbe come chiedere ad un commensale di provvedere ad imbandire la tavola senza concedergli nemmeno un pezzo di pane. Un'altra ipotesi, più praticabile, e già proposta nel recente passato, sarebbe quella di reintrodurre l'Onu nella questione irachena, non tanto sul terreno di una risoluzione farsa che nulla aggiungerebbe alle due già emesse, quanto su quello di una maggiore corresponsabilità economica e militare a fronte di un prestigio internazionale riconquistato e poco più. Questa soluzione però comporterebbe dei rischi e delle rinunce pesanti per l'imperialismo americano. Innanzitutto il segretario generale dell'Onu, dopo le recenti esternazioni sulla illeicità della guerra americana in Iraq, non si accontenterebbe di una riabilitazione di facciata e pretenderebbe dal governo americano ben altre concessioni. In seconda battuta, tutti quei paesi che si sono espressi contro la guerra, i soliti con probabilmente l'aggiunta di altri che fiuterebbero il profumo di una opportunità insperata, avanzerebbero richieste consistenti che limiterebbero non poco gli obiettivi americani in Iraq e in tutta l'area petrolifera interessata, ponendo l'obiettivo di ridistribuire le quote di influenza anche per paesi quali il Kuwait, gli Emirati, l'Oman ecc. Se così fosse sarebbe una soluzione non-soluzione che aggraverebbe i termini del problema Iraq, ridimensionando al contempo il ruolo imperiale degli Usa in una delle zone di maggiore importanza economica e strategica del mondo.

Sulla carta l'opzione migliore per gli strateghi di Washington sarebbe quella di rafforzare militarmente e politicamente il governo Allawi in modo da ridurre la presenza sul campo delle forze militari americane e di contenere al minimo il flusso in uscita di quelle decine di mld di dollari che fanno tremare i polsi all'economia americana, ma si ritornerebbe al punto di partenza.

Così stando le cose, le vie d'uscita sembrerebbero chiuse o difficilmente praticabili, una sorta di riedizione della guerra del Vietnam, fatte ovviamente le debite differenze di epoca, di scenario imperialistico e di fase economica internazionale. Ma per chi si riempie la bocca di democrazia e ha la mano destra sporca di petrolio e quella sinistra di sangue, un'ultima possibilità esiste. Non è nuova, aleggia nei corridoi della Casa Bianca da qualche mese, è quella che propone la soluzione finale, ovvero giocare il tutto per tutto sul piano della forza sull'esempio dell'esercito israeliano in Palestina. L'azione prevede un ulteriore invio di militari, sempre che il Senato approvi l'idea e stanzi le risorse necessarie; il numero è imprecisato ma si parla di altri 180/200 mila uomini. L'obiettivo è fare tabula rasa di tutte le forze di opposizione radendo al suolo interi villaggi e i quartieri a rischio delle più importanti città del triangolo sunnita, di Baghdad e di Bassora. E il recente attacco contro la città di Sammara sembra confermare che proprio questa sia l'opzione scelta.

L'operazione soluzione finale dovrebbe aver luogo dopo le elezioni americane - che ovviamente il governo Bush ritiene di vinecer - e prima di quelle irachene. Il lasso di tempo tra i due eventi elettorali è breve, ma il secondo è spostabile in avanti, se le dinamiche dell'operazione dovessero richiedere più tempo e una migliore preparazione, poi se ne riparlerà...

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.