Il buon governo della precarietà

Sulla precarizzazione del lavoro è stato detto e si dice molto, date le dimensioni assunte in questi ultimi anni. Ma, dal punto di vista di classe, il fiume di inchiostro versato di rado è riuscito a inquadrare correttamente questo fenomeno nelle convulsioni del capitalismo contemporaneo e, quello che più conta, nella prospettiva della battaglia anticapitalista.

Le stesse cifre che dovrebbero fotografare le dimensioni della precarietà possono variare, e di molto, a seconda degli istituti di ricerca e dei criteri adottati nella scelta dei dati. Niente di straordinario: nelle società divise in classi la ricerca scientifica è pesantemente condizionata da chi detiene il potere; a maggior ragione ciò avviene nell'ambito delle cosiddette “scienze umane”, i cui risultati riflettono, più o meno apertamente, l'ideologia e l'appartenenza di classe dei ricercatori e servono da supporto alla lotta politica. Già Marx aveva sottolineato come, dopo Ricardo, la borghesia avesse smesso di praticare con spirito scientifico il terreno dell'economia politica, poiché questo avrebbe voluto dire mettere a vista la chiave di volta della ricchezza borghese, ossia lo sfruttamento operaio, e come da allora la “scienza economica” non fosse diventata altro che ideologia. Ciò vale, naturalmente, anche se non di più per la piccola borghesia che, pur credendosi l'ombelico del mondo, è sempre stata sballottata tra le due classi fondamentali della società (borghesi e proletari), tanto dal punto di vista sociologico che politico. Impossibilitata per sua stessa natura ad assumere un ruolo autonomo nello scontro sociale, interpreta solitamente la parte di massa d'urto della grande borghesia contro il proletariato o, peggio ancora, lo inquina politicamente con le sue fantasie apparentemente anticapitaliste, di fatto reazionarie.

Questo è tanto più vero quando il proletariato è politicamente disarmato, privo di un solido riferimento rivoluzionario e significativi settori della piccola borghesia vengono sospinti dalla crisi del ciclo di accumulazione verso la tanto temuta proletarizzazione.

Il sindacato “ordinatore” della precarietà

Perché la precarietà? Per un discorso dettagliato sulle cause della dilagante precarizzazione rimandiamo ai numerosi lavori sui processi di scomposizione/ricomposizione della forza-lavoro presenti nella nostra pubblicistica, qui ci basti ricordare che è tipico del modo di produzione capitalistico la trasformazione continua delle tecniche produttive e dell'organizzazione del lavoro, anche, ma non solamente e prioritariamente, sotto la spinta del conflitto di classe. Nello specifico, la precarietà (altrimenti detta flessibilità) è una delle vie attraverso la quale il capitale cerca di superare o quanto meno amministrare una fase storica in cui la caduta del saggio medio del profitto esaspera la concorrenza internazionale su tutti i principali mercati (di sbocco delle merci, delle materie prime, finanziari e, va da sé, della forza-lavoro), immettendo forti elementi di instabilità e in-sicurezza.

L'introduzione della microelettronica nei processi produttivi - grosso modo dagli anni settanta del secolo scorso - ha enormemente favorito l'uso “flessibile” della manodopera e ha contribuito a mettere i vari segmenti della forza-lavoro mondiale in concorrenza fra loro verso il basso. Oggi, infatti, nessun settore può considerarsi al riparo dalla concorrenza stessa, comprese quelle occupazioni che, per l'alta o altissima qualificazione, un tempo potevano guardare con relativa tranquillità la “lotta per la vita” che ha invece sempre caratterizzato i gradini più bassi della scala occupazionale, cioè la stragrande maggioranza della forza-lavoro. Anche ingegneri, informatici, tecnici in genere devono fare i conti con un capitalismo estremamente determinato sia a estorcere quanto più plusvalore possibile dal processo produttivo che a disperderne il meno possibile, eliminando per quanto può i “faux frais”, cioè quelle spese improduttive che, pur non contribuendo alla produttività del capitale, gli sono però necessarie. Non a caso, infatti, la precarietà, benché investa in maniera crescente l'industria, è nel terziario che la fa letteralmente da padrona. Questo settore, che vive esclusivamente del plusvalore primario generato dalla fabbrica, è cresciuto enormemente dagli anni trenta in poi anche grazie all'espansione del settore statale quale amministratore del salario indiretto/differito (lo stato sociale) e regolatore dell'economia. Oltre a concentrare masse consistenti di proletariato vero e proprio, i servizi e, in generale, le attività legate alla circolazione del capitale sono stati (e in misura calante lo sono ancora) il terreno di coltura della piccola borghesia, particolarmente numerosa in Italia per le specifiche caratteristiche dello sviluppo capitalistico nazionale. È evidente, allora, che se la fonte del plusvalore tende a ridursi (in proporzione all'entità dei capitali necessari all'investimento produttivo), bisogna sfrondare i folti rami alimentati in ultima istanza da quella linfa vitale.

Com'era ovvio che fosse, la grande borghesia ha sferrato l'attacco per prima contro la classe operaia, cominciando negli anni settanta a licenziare, ristrutturare, stravolgere la vecchia organizzazione del lavoro, creando il deserto là dove ferveva l'attività industriale, sbriciolando sul territorio “la” fabbrica in tante piccole aziende (ma conservandone però il controllo finanziario), delocalizzando e importando da ogni angolo del mondo manodopera da sfruttare in condizioni schiavistiche. Certo, “aree protette” del lavoro dipendente, quali i servizi pubblici, all'inizio sono state parzialmente risparmiate da questo uragano, grosso modo fino agli anni ottanta, quando anche lì vengono abbattuti gli argini e i lavoratori pubblici sono travolti dalla stessa ondata che ha sommerso quelli privati. Nel terziario privato, dove impieghi molto remunerativi hanno da sempre convissuto con larghissime fasce di lavoro sottopagato, la cosiddetta atipicità da una parte erode con ritmo inarrestabile i settori privilegiati, ma dall'altra allarga semplicemente a dismisura l'area del lavoro supersfruttato.

A scanso di equivoci, prima di procedere oltre è bene sottolineare che se i dati più avanti riportati riguardano l'Italia, il fenomeno della precarietà non è per niente circoscritto all'ambito nazionale, ma accomuna i lavoratori di tutto il mondo, a cominciare, naturalmente, dagli Stati uniti. La borghesia statunitense è stata tra le prime - com'è noto - a procedere sulla via dello smantellamento di intere regioni industriali, con la conseguente massificazione del “bad job”, il lavoro talmente malpagato da rendere ormai tutt'altro che una rarità la figura del “working poor”, il lavoratore povero, che ha perso l'assistenza sociale, la casa, la possibilità di mantenere dignitosamente una famiglia, senz'altra prospettiva che non sia la sopravvivenza giorno per giorno.

Oggi, il cosiddetto lavoro atipico coinvolge tra i sei e i sette milioni di persone; di queste, quasi tre milioni sarebbero co.co.co. (collaboratori coordinati continuativi), dopo la legge 30 diventati - almeno sulla carta - co.co.pro. (collaboratori coordinati a progetto), mentre i restanti appartengono al lavoro dipendente (1), cioè il 20,3% del totale. Se consideriamo anche i co.co.co. (o co.co.pro.) si arriva invece al 38,4% di tutta la forza lavoro occupata (2).

Parallelamente agli altri pesi europei, anche in Italia l'avanzata travolgente della precarietà è cominciata alla metà circa degli anni novanta, con il famigerato “pacchetto Treu” del 1997, sfornato dal governo Prodi, allora sostenuta anche dal comunista da salotto televisivo Bertinotti.

Se si guardano le statistiche, il lavoro atipico ha avuto una crescita impetuosa proprio tra il 1997 e il 2000, per poi assestarsi su ritmi meno frenetici ma costanti. Come recita uno studio della CGIL - fonte non sospetta, dunque:

l'occupazione è cresciuta del 4,3% complessivamente, ma se si riguarda alle modalità contrattuali, si può rilevare come l'occupazione standard sia aumentata solo dell'1% a fronte di una crescita di ben il 35,5% di quella temporanea. Sostanzialmente l'occupazione atipica ha fornito un contributo alla crescita occupazionale di quel periodo pari al 46% (3).

Scomponendo i comparti, si può notare che:

Nell'industria in senso stretto i dipendenti con orario ridotto (part-time) sono passati dal 2 all'11% del totale e quelli con contratti temporanei dal 4 all'11%. Ma è nel commercio e nei servizi che l'aumento è stato esponenziale [tra il 1998 e il 2004, n.d.r]. Il commercio ha visto lievitare il part-time dal 29 al 34% e gli 'atipici' che prima rappresentavano il 9% dei dipendenti sono ora diventati il 17%. Nei servizi il part-time (che è soprattutto femminile) è passato dal 21 al 45% del totale e i contratti temporanei sono balzati dal 4 al 49% (4).

Andando ancor più nei particolari, si evidenzia che:

nel settore pubblico il lavoro [atipico] ha un'incidenza doppia rispetto all'industria e superiore a quella dei servizi privati [...] la precarizzazione dei rapporti di lavoro appare più accentuata se al settore amministrativo si aggiungono i comparti dell'istruzione e della sanità (5).

È superfluo ricordare come il sindacalismo confederale, e la CGIL in particolare, così preciso nella descrizione quantitativa della precarietà, abbia dato un contributo fondamentale all'estensione di questo fenomeno, sottoscrivendo in sede nazionale e locale tutti i principali accordi sulla progressiva schiavizzazione della forza-lavoro. Anche adesso, che finge di assumere toni intransigenti nei confronti del governo e del padronato, non si fa affatto scrupolo di firmare accordi settoriali e locali che, quando “va bene”, tendono semplicemente a disciplinare le forme più selvagge di precarietà nel nome di una logica che accetta comunque la subordinazione dei lavoratori alle superiori esigenze dell'economia nazionale ossia del profitto. (6)

L'unica discriminante tra una flessibilità buona e una cattiva è il riconoscimento del sindacato come partner indispensabile nella gestione della forza-lavoro, con l'aggiunta, per quanto riguarda il pubblico impiego, che l'ente pubblico “datore di lavoro” sia amministrato dalla sinistra secondo criteri di efficienza e trasparenza (sic!). A tale proposito, tra i numerosissimi esempi di questa “visione del mondo”, riprendiamo una fonte a cui abbiamo fatto riferimento poco fa. Confrontando la precarizzazione del personale nei comuni di Milano e di Rimini (centro-sinistra), il primo viene bocciato, perché, sostanzialmente, escluderebbe il sindacato dalle politiche riguardanti la forza-lavoro. Al contrario, il secondo viene promosso in quanto coniugherebbe efficienza del servizio - appunto - offerto alla cittadinanza con una serie di “buone pratiche” sull'utilizzo del personale concordate con le organizzazioni sindacali.

Quali sono queste “buone pratiche”? “Strategie di razionalizzazione e di snellimento” (blocco del turn over, licenziamenti, esternalizzazione di alcune attività) e il varo di nuovi regolamenti che tendono a “motivare il lavoro atipico” tra cui la “previsione (?!) di processi di formazione e qualificazione, i diritti sindacali”. (7)

Decisamente poco per i precari, ma sufficiente per il sindacato, poiché non viene estromesso dalla gestione della manodopera ultra-precarizzata. Infatti, la precarizzazione incontrollata, atomizzando all'estremo la forza-lavoro, rischierebbe di emarginare il sindacato, privandolo di quel potere di condizionamento e di pressione nei confronti della destra che, specialmente oggi, esercita per conto di un centro-sinistra in gran parte ormai privo di radici nel proletariato.

L'individualizzazione del contratto di lavoro, verso la quale spingono sia la borghesia che - con minore o maggiore decisione - le sue diverse espressioni politiche di destra e di sinistra, renderebbe superfluo il ruolo politico del sindacato e, sia detto en passant, priverebbe della “pagnotta” migliaia e migliaia di funzionari sindacali. È vero che di fronte a questa prospettiva il sindacato si sta da tempo attrezzando - in perfetta coerenza con la propria natura - integrandosi sempre di più nell'apparato statale (vedi, per esempio, gli enti bilaterali) e nella grande speculazione finanziaria per mettere le grinfie sull'Eldorado del TFR. Per inciso, anche tra i sindacatini sedicenti di base, benché formalmente siano contrari alla privatizzazione del sistema pensionistico, non è impossibile sentire voci che considerano favorevolmente la possibilità di partecipare al banchetto a spese delle liquidazioni, magari attraverso la grande bufala della finanza etica nonché solidale.

Ma oltre a questi aspetti, rimane un altro problema di ordine più prettamente politico, e cioè che una parte del sindacato non accetterebbe, per ragioni ideologiche, di scomparire e manterrebbe comunque in piedi una struttura sindacale o politico-sindacale di stampo radical-riformista, com'è nel sogno dei Cobas e come da un po' di tempo a questa parte vanno rimuginando in Europa alcune frange minoritarie di “sinistri” delusi dai governi di centro-sinistra e dai sindacati. Insomma, una specie di Labour Party riveduto e corretto dall'apporto dei “movimenti”.

Le trasformazioni in corso nella composizione della forza-lavoro hanno dunque - com'è ovvio che sia - delle ricadute sul sindacato così come l'abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, obbligandolo ad adeguarsi ai cambiamenti in corso (che per altro asseconda, appunto). Non viene quindi meno la necessità, da parte del capitale, di avere uno strumento che controlli la forza-lavoro, prevenendone o, al peggio, deviandone le spinte ribellistiche su di un terreno tutto sommato compatibile con i meccanismi dello sfruttamento. Questo vale sia per il precariato che per il salariato “tradizionale”. Infatti, benché la precarietà interessi un numero sempre più grande di lavoratori, in particolare i giovani neo-assunti, con punte del 70% e oltre (8), i padroni, allo stato attuale delle cose, non possono precarizzare totalmente la forza-lavoro, quindi ci sarà comunque un nucleo più o meno grande di manodopera (compresa quella intellettuale) stabile; sottopagata, spremuta, ricattabile fin che si vuole, ma “fissa”. Dunque, bisognerà pur sempre continuare a mettere guinzaglio e museruola anche a questa classe operaia (intesa in senso lato), tanto più che la crisi spingerà la borghesia a imporre al proletariato sempre nuovi sacrifici.

Per attenerci alla stretta attualità, non è un caso che la CGIL abbia dato parere positivo alla legge sull'orario di lavoro, votata in prima battuta dal parlamento europeo, che prevede di fatto la settimana di 60 ore e l'annualizzazione dell'orario di lavoro. Tale misura, se adottata universalmente nell'Unione Europea, costituirebbe la quadratura del cerchio: in un colpo solo si otterrebbe la massima flessibilità di tutta la forza-lavoro senza aumentare la massa salariale durante i picchi produttivi, riducendo al minimo i rischi di un'eccessiva turnazione della manodopera. Allo stesso tempo, il sindacato manterrebbe il suo ruolo, poiché la legge prevede esplicitamente che la variazione dell'orario venga concordata di volta in volta con i sedicenti “rappresentanti dei lavoratori”.

Il precariato nel paese dei balocchi: le mirabolanti ricette del neoriformismo

Tony Moilin è magnifico. Quest'homme de 1869 che così senz'altro decreta che nessuno debba guadagnare meno di 2400 franchi! Son quasi morto dal ridere vedendo questo ingenuo dottore con le sue infinite pretese. Se Lafargue ora avesse per lui ancora della considerazione, sua moglie riderebbe certo di lui.
Sulla panacea mirabolante di Moilin, Blanqui [...] ha fatto alcuni scherzi veramente buoni a casa di Lafargue [...] Questo Moilin p.es. ha risolto il mistero del secolo in una maniera incredibilmente semplice, e Parigi continua a pensare alle proprie faccende come se niente fosse accaduto (9).

Non è solamente il sindacalismo confederale ad accettare la precarizzazione della forza-lavoro, anche coloro che sembrano esserne i più acerrimi nemici, in realtà l'assumono come un dato di fatto sostanzialmente immodificabile - se non, addirittura, desiderabile - indirizzando tutto il loro agire politico verso l'obiettivo di una convivenza con essa dopo averla resa, per così dire, a misura d'uomo... piccolo borghese. Va da sé che il riferimento è alla magmatica area di quello che è stato il movimento no-global, tanto mobile nel cambiare nome, quanto saldo nell'impianto teorico riformista.

In gran parte erede della sinistra extraparlamentare degli anni settanta, ne ha conservato gli stessi errori metodologici di fondo, accentuando la componente idealistica tipica di ogni estremismo che, come tale, non ha niente a che vedere col comunismo o ne costituisce una deviazione dalla strada del materialismo storico. Parafrasando uno dei testi più controversi di Lenin, si può dire che l'infantilismo sia la malattia senile di un riformismo a cui la crisi di ciclo ha chiuso ogni spazio di agibilità. Anzi, tanto più la crisi nega i presupposti materiali dell'esistenza stessa del riformismo - cioè la possibilità e la convenienza da parte della borghesia di ridistribuire parte del plusvalore - tanto più esso si accanisce a riproporre vecchie ricette, finendo per sprofondare nel ridicolo. Ma se siamo a questo, perché occuparsene? Perché il “movimento” intercetta frange di proletariato e di giovani ribelli con i miasmi allucinogeni prodotti dal panico di una piccola borghesia che vede progressivamente intaccati i propri piccoli privilegi.

Prova evidente ne sia il crescente successo delle “May day parades”, non tanto per l'aspetto carnevalesco (in sé né buono né cattivo), quanto per le indicazioni politiche con cui gli organizzatori (FIOM compresa...) richiamano decine di migliaia di giovani; è certo, però, che lo spazio pressoché totale dato agli aspetti puramente ludici risponde a una logica ben precisa, volta a tramortire la riflessione politica. Ma la “May day parade” ha successo anche perché nell'apparente radicalismo delle rivendicazioni riflette le aspirazioni di settori, sì, di proletariato, ma pur sempre cresciuto al pascolo brado della società borghese, senza punti di riferimento realmente antagonisti al capitalismo. In un certo senso, tra la richiesta di dazi doganali contro la Cina avanzata da molti operai (leghisti o meno) e la rivendicazioni di riforme radicali culminanti nel reddito di esistenza, non c'è nessuna differenza: tutte e due presuppongono l'immutabilità dell'ordine economico-sociale borghese. Sintetizzando ulteriormente, non sono altro che chiacchiere da bar.

D'altra parte, la chiacchiera è diventata letteralmente l'ultima sponda politica di chi ha abbandonato anche formalmente ogni riferimento al marxismo. “Chi chiacchiera produce, chi produce chiacchiera(10), sentenzia un documento dei “precog”, sottolineando che non è più il lavoro a creare valore e plusvalore, ma il linguaggio, la comunicazione, le relazioni sociali, in breve, il semplice fatto di esistere. Dunque, sarebbero i lavoratori “cognitivi” e in specie i precari del cosiddetto cognitariato, autoproclamatisi con snobismo letterario “precog” (11), a produrre la “ricchezza delle nazioni del XXI secolo”. (12)

Le stupidaggini contenute in queste frasi sono più numerose delle parole che le compongono, e tuttavia costituiscono la versione “precog” di un mito borghese molto in voga, secondo il quale l'appropriazione parassitaria in genere e lo sviluppo enorme di tutte le attività legate alla sfera della circolazione del capitale producono ricchezza saltando il processo produttivo, quando, invece, costituiscono una gigantesca tangente sul plusvalore primario estorto alla classe operaia. Tra la ciarlataneria di un “precog” e, per esempio, quella di un Soru, patron di Tiscali e “governatore” della Sardegna (13), c'è solo una differenza di quantità, non di qualità. L'intellettualità piccolo-borghese cerca di giustificare l'esistenza della propria classe sbatacchiata o resa superflua dalle trasformazioni indotte/accelerate dalla crisi, tirando fuori dalla cassapanca della nonna vecchie anticaglie ottocentesche, come dimostra questa lunga citazione di Marx:

Ciò che gli [ad Adam Smith - ndr] viene contrapposto dagli altri economisti è o sproloquio [...] e cioè che ogni azione produce comunque degli effetti, per cui essi fanno confusione tra prodotto nel suo senso naturale e in quello economico; secondo questo criterio anche un briccone è un lavoratore produttivo poiché, mediamente, produce libri di diritto criminale; (per lo meno questo ragionamento è altrettanto giusto quanto quello per cui un giudice viene chiamato lavoratore produttivo perché protegge dal furto). Oppure gli economisti moderni si sono trasformati a tal punto in sicofanti del borghese da volerlo convincere che è lavoro produttivo se uno gli cerca i pidocchi in testa o gli sfrega l'uccello, giacché forse quest'ultimo movimento gli terrà più chiaro il testone - la testa di legno - il giorno dopo in ufficio. (14)

In realtà, chi continua a produrre la “ricchezza delle nazioni” è, a cominciare dalla fabbrica, il mondo del lavoro dipendente, da vent'anni a questa parte risospinto verso condizioni di lavoro di tipo ottocentesco (o di cinquant'anni fa), in cui all'estorsione di plusvalore relativo si accompagna sempre di più quella di plusvalore assoluto mediante il prolungamento della giornata lavorativa e l'accentuazione del dispotismo padronale. La quota di ricchezza trasferita dal salario al profitto (e/o alla rendita) - l'incremento dello sfruttamento - solo nei decenni 1980-90 è impressionante:

Alla fine degli anni novanta, secondo i calcoli di Alvi, la quota del reddito nazionale destinata ai salari, pari al 56,4 per cento nel 1980, scende al 40,1 per cento con una picchiata di oltre 16 punti, stimati in cifra assoluta intorno ai 300mila miliardi di lire. Di contro, la quota di profitti e rendite sale nello stesso periodo dal 43,6 per cento al 59,9 per cento.

E, sempre per citare fonti non sospette,

Secondo la Banca d'Italia, le retribuzioni nette mensili dei lavoratori dipendenti sono diminuite dal 1989 al 1998 dell'8,7 per cento (nel Mezzogiorno del 16,2 percento). (15)

Che poi gran parte di questi giganteschi profitti non sia reinvestita ai fini dell'accumulazione, ma finisca nella speculazione finanziaria, è un'altra conferma delle difficoltà di realizzare saggi del profitto adeguati, e non solo in Italia, naturalmente (16). È proprio la necessità di alimentare il profitto industriale e un'abnorme rendita parassitaria che spinge la borghesia ad esasperare gli strumenti e le forme dello sfruttamento in ogni settore lavorativo, intensificando la taylorizzazione del lavoro anche in quei rami del terziario - tra i quali, i call-center - in cui si concentra, per così dire, il “precog”. Orari impossibili, salari da miseria legati al rendimento, rigida regolamentazione dei tempi e dei gesti delle singole operazioni da una parte; dall'altra...

lo SBAM (sorriso - buongiorno - arrivederci - grazie [mercì - ndr]) delle cassiere o gli scripts imposti ai tele-operatori costringono i salariati a simulare dei comportamenti umani amichevoli o accattivanti, il che accresce particolarmente la tensione nervosa, soprattutto di fronte a clienti non sempre simpatici. Più ancora, l'individualizzazione degli obiettivi e delle remunerazioni (per esempio, per i tele-venditori) rinforzano lo stress e la concorrenza tra i salariati. (17)

Ma è pur sempre la “densificazione” del tempo di lavoro a incrementare la valorizzazione del singolo capitale, non lo stress e l'ansia di una vita appesa la ricatto della precarietà: è questo l'abbaglio dei “precog”, abituati, per altro, a deformare la realtà a loro uso e consumo. Dalla storia alla materiale composizione delle classi, tutto è stravolto a dispetto dell'evidenza. Pescando a caso tra i deliri della produzione teorica “precog”, si scopre che la crisi della new economy è stata originata dalla...

incapacità dei mercati borsistici di contenere la forza-invenzione del lavoro immateriale, quel lavoro altamente produttivo che fa uso della conoscenza e dell'intelligenza sociale per produrre beni e servizi a forte contenuto comunicativo (18)

... o che la “cooperazione produttiva era inesistente(19) nella fase pre-fordista, mentre invece tale cooperazione è un elemento fondamentale nella nascita del capitalismo, quando dal lavoro a domicilio e artigiano si passa alla manifattura e poi alla fabbrica (20); per finire con l'annuncio che viviamo nell'era della piena occupazione, poiché il solo fatto di vivere valorizza la sedicente bioeconomia (l'economia che si arricchisce con la vita, appunto) (21).

Siccome però è un'occupazione che rischia di farti morire di fame, ecco che il radical-riformismo scende in campo con le sue mirabolanti ricette per aggiustare la situazione: se il biopotere (come la bioeconomia...) fornisce il pieno impiego, il riformismo ci mette il reddito di esistenza, naturalmente incondizionato e universale, cioè non legato a nessun obbligo lavorativo ed esteso a tutti (borghesi compresi?). Benché espressione di infantilismo acuto piccolo-borghese, la rivendicazione ha una logica stringente: se è la vita intera ad essere “messa al lavoro”, è logico pretendere reddito a prescindere da ogni altra considerazione, in primo luogo le compatibilità dell'economia vera, dei rapporti di produzione borghesi, mai messi in discussione, ma presupposti eterni. Se il cittadino Weston indicava alla Prima Internazionale l'obiettivo di un “giusto salario”, spingendo Marx a intervenire contro l'abbaglio riformista, il cittadino “precog” chiama i precari alla lotta per un giusto reddito di esistenza:

Il reddito non ha nulla di assistenziale, non è altro che una giusta retribuzione, esattamente come, in altre epoche, poteva essere la richiesta di un aumento salariale sulla base di un aumento della produttività. (22)

Oltre che rappresentare una “giusta retribuzione”, il reddito di esistenza costituirebbe una specie di contropotere, una cittadella fortificata dalla quale il precariato potrebbe contrattare da posizioni talmente di forza con la “controparte”, da permettersi il lusso di scegliersi il lavoro:

siamo sicuri che un giovane che lavora in acciaieria, se avesse la possibilità di reddito, farebbe questo lavoro? (23)

Certo che no! Ma è proprio questo il presupposto del capitalismo ossia la presenza di individui che per sopravvivere sono costretti a vendere la propria capacità lavorativa (manuale o intellettuale), alle condizioni imposte dal capitale, in cambio di un salario. Se, per assurdo, le fantasiose proposte di legge avanzate dal sindacalismo di base e dal variopinto circo “antagonista” venissero accolte (da chi?), solo i fessi o i fanatici dell'etica del lavoro si alzerebbero tutti i giorni per andare a lavorare: tra integrazioni al reddito e considerevoli sconti sulle spese quotidiane (dai servizi ai generi alimentari, all'abbigliamento, ecc.), beh, non sarebbe il Paese dei Balocchi, ma qualcosa che gli si avvicina. (24)

Pretendere la “flexsecurity”, cioè la precarietà à la carte per la gioventù piccolo-borghese, umanizzata e desiderabile, è come pretendere uno sfruttamento umano (25). Storicamente, le forme di assistenza/integrazione al reddito sono sempre state congegnate in modo da permettere la mera sopravvivenza degli individui e per periodi ben delimitati. Senza contare che l'assistenzialismo - finanziato, per inciso, dalla fiscalità generale, cioè dal proletariato - non di rado ha fatto (e fa) da sponda alle peggiori forme di sfruttamento: là dove si prevede un'integrazione al salario minimo o alla disoccupazione, il padronato trova più disponibilità ad accettare, per così dire, sottosalario e lavoro nero.

Resterebbe, appunto, il problema del repe-rimento dei fondi per finanziare queste mirabilia, soprattutto, lo ricordiamo, in un'epoca in cui il capitalismo va in una direzione esattamente contraria, in cui sostituisce il welfare col workfare, cioè una parvenza di assisten-zialismo subordinato all'accettazione di un lavoro purchessia. La fantasmagorica soluzione starebbe in una specie di Tobin tax, cioè l'applicazione di un'imposta alle imprese e in particolare alla speculazione finanziaria. Chi dovrebbe applicare questa svolta di 180 gradi nella politica fiscale attuata da qualunque governo borghese, in tutto il mondo, rimane un mistero, a meno che i “precog” non pensino furbescamente che le frange estreme dei centro-sinistra europei (“comunisti” istituzionali e Verdi), con le quali intrattengono una “corrispondenza di amorosi sensi”, siano disposte a giocarsi la poltrona per una partita a cui non credono, in cambio di qualche migliaio di voti.

E infine, per tagliar corto con questo “io speriamo che me la cavo” piccolo-borghese, se la classe - pardon, le moltitudini - avesse la forza di imporre la “flexsecurity”, perché non fare un passo in più e sbarazzarsi definitivamente del capitalismo? Perché, come abbiamo ripetuto fino alla noia, questo non rientra nell'orizzonte del riformismo. Perché esso rimane irrime-diabilmente attaccato a un'asfittica vertenzialità, a “campagne” di maoista memoria che regolarmente non superano la soglia della mera agitazione; perché non pone mai - se non di sfuggita e per puro dovere di immagine - il problema di unificare la classe al di là delle divisioni settoriali imposte dall'organizzazione capitalistica del lavoro, ma, al contrario, esaspera artificiosamente queste diversità, fondando su di esse la propria strategia di convivenza col capitalismo. È estremamente raro trovare nelle pubblicazioni e nell'azione del sedicente antagonismo un riferimento alla classe nel suo insieme e non solo al precariato (26). Tuttavia, come abbiamo visto, il nucleo - e nemmeno tanto piccolo - di lavoratori “stabili” (per quanto possono esserlo nel capitalismo) non è affatto scomparso, sebbene la precarietà sempre più lunga sia diventata la strada obbligata per accedere eventualmente al posto “fisso”.

Dall'invenzione politica dell'operaio-massa al “precog” l'errore metodologico è sempre quello; dunque, oggi come allora, valgono le stesse considerazioni politico-metodologiche, benché i “soggetti” siano mutati:

L'impoverimento, conseguenza della crisi, riguarda tutti i lavoratori e li obbliga [ci auguriamo - ndr] a difendersi. La divisione in classi è determinata dai rapporti di produzione, non dalle trasformazioni della tecnica e dalla divisione del lavoro che ne deriva. Il futuro, se mai ce ne sarà uno, appartiene alla classe operaia, non all'operaio massa. (27)

Celso Beltrami

(1) Secondo l'Espresso del 2 settembre 2004, gli “atipici” sarebbero 5.942.000, mentre secondo il supplemento “Lavoro” al Sole 24 ore del 12 dicembre 2003, essi raggiungerebbero la quota di 6.936.855. Rimane controversa la questione dei co.co.co, buona parte dei quali non sono altro che dipendenti mascherati e supersfruttati. Una ricerca effettuata dalla CGIL stabilisce in 1.036.070 i co.co.co. “puri”, escludendo cioè i professionisti veri e propri (ben pagati), i doppi lavori e/o i pensionati. Vedi Nidil contesta i dati Istat: “I precari sono molti di più”, in rassegna.it 24 marzo 2005.

(2) Monica di Sisto, “Da Parma arriva un'idea per i precari: la 'flexicurity'”, il manifesto, 4 settembre 2004.

(3) Giovanna Altieri e Cristina Otieri, “Terzo rapporto sul lavoro atipico in Italia”, aprile 2003, nidil.cgil.it .

(4) “Flessibilità in crescita vertiginosa”, 3 marzo 2005, in rassegna.it .

(5) Anna Avitabile, “Pubblico sempre più atipico”, Rassegna sindacale n.45, dicembre2004.

(6) Vedi, per esempio, il manifesto, 25 luglio 2004, pag.8.

(7) Anna Avitabile, cit.

(8) A Reggio Emilia, nel 1992 “solo” il 21,5 dei giovani neoassunti era precario, nel 2002 la cifra raggiungeva il 70,6%: vedi Leonardo Angelini, “Precariato e adolescenza”, in la rivista del manifesto, n.43, ottobre 2003.

(9) Lettera di Engels a Marx del 18 marzo 1869 e risposta di Marx del 20 marzo 1869, in Carteggio Marx-Engels, vol. V, Edizioni Rinascita,1951, pagg.340 - 341.

(10) “I precog in terza persona”, 1 maggio 2004, in globalproject.info . Per una critica teorica al “cognitariato”, vedi Lorenzo Procopio, “Il capitalismo cognitivo e il neoriformismo”, in Prometeo, V serie,1999.

(11) Si gioca alludendo ai “precog” del romanzo di Philip Dick, portato sullo schermo nel film “Minority report” di Steven Spielberg.

(12) “Manifesto Bio/Pop del Precariato Metroradicale”, 27 maggio 2004, in rekombinant.org .

(13) “Il nuovo capitalismo si fonda non più sulla proprietà e sul denaro, bensì sull'intelligenza e sulle conoscenze”, dichiarazione di Renato Soru riportata da Paolo Ciofi nel suo libro “Il lavoro senza rappresentanza”, Manifestolibri, 2004, pag.69.

(14) Karl Marx, “Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica (Grundrisse)”, Ed. Einaudi, 1977, pag.221 (pag.184 della redazione IMEL).

(15) Paolo Ciofi, cit., pag.47.

(16)

... i profitti delle grandi imprese non sono reinvestiti, tanto meno in Francia, ma servono per remunerare gli azionisti sempre più avidi [...] Gli azionisti - fondi pensione in testa - pretendono rendimenti dell'ordine del 15% (la Deutsche Bank si è addirittura fissata l'obiettivo di utili del 25%).

in Anna Maria Merlo, “Francia in piazza per i salari”, il manifesto,10 marzo 2005

(17) Thomas Coutrot, “Les rouages de la précarité [i meccanismi della precarietà]”, in ATTAC, “Travailleurs précaires, unissez-vous [lavoratori precari, unitevi]”, Ed. Mille et une nuits - Fayard, 2003, pag.21.

(18) Christian Marazzi, “La forza improduttiva”, 2 giugno 2003, in globalproject.info - Viene riproposta la solita insulsa favoletta della forza-lavoro che, per il solo fatto di esistere, mette in crisi il capitale, ma poi si evita accuratamente di spiegare come mai quella stessa forza lavoro non abbia la forza di contrastare gli effetti disastrosi che la crisi scarica esclusivamente su di essa:

In realtà, a partire dalla seconda metà degli anni 1990, sono approdati sulle coste degli States un milione di informatici, medici e ingegneri, in possesso di un regolare visto di lavoro. La maggior parte di loro viene dai paesi europei al di là dell'ex cortina di ferro o da uno dei paesi asiatici più avanzati sul piano delle nuove tecnologie. [...] In decine di migliaia hanno dovuto subire condizioni di lavoro precarie, percependo stipendi ben inferiori a quello dei colleghi nati negli USA [...]: 'questi tecnici diventano dei servi apprendisti' [...] La situazione si è aggravata quando si è sgonfiata la bolla della new economy [...] In tantissimi hanno accettato ulteriori riduzioni dei propri diritti, oltre a consistenti decurtazioni della busta paga, per paura di perdere il posto e di dover tornare nei paesi d'origine.

In Ornella Cilona, “Precarietà senza frontiere”, Rassegna sindacale n.26,2003; vedi anche in rassegna.it

(19) Andrea Fumagalli, “Considerazioni sparse sulla precarizzazione del mondo del lavoro”, aprile 2003, in cub.it .

(20)

La produzione capitalista comincia realmente, come abbiamo veduto, solo quando il medesimo capitale individuale impiega allo stesso tempo un numero piuttosto considerevole di operai, e quindi il processo lavorativo s'estende e si ingrandisce e fornisce prodotti su scala quantitativa piuttosto considerevole.

Karl Marx, Il Capitale, libro I, capitolo undicesimo, Ed. Einaudi,1975, pag.393

(21) “Il fascino indiscreto del precariato”, 1 maggio 2004, in globalproject.info e Marco Bascetta, “Precari per sempre”, il manifesto 20 aprile 2005.

(22) Andrea Fumagalli in “I lavoratori son tutti precari”, Carta-Almanacco n.16,2005, pag.16. A questo punto, viene spontaneo chiedersi se i lavoratori abbiano il diritto di lottare per aumenti salariali quando, secondo i criteri borghesi, la produttività non aumenta...

(23) Andrea Fumagalli, cit., pag.17.

(24) Vedi le proposte - anche di una legge vera e propria alla regione Lombardia! - di Andrea Fumagalli e del sindacatino CUB sul reddito di esistenza in cub.it .

(25) Per dare solo un'idea del florilegio “precog”, percorso da una sottile boria piccolo borghese, vedi Alberto De Nicola, Carta-Almanacco cit., pagg.17-18:

I processi di precarizzazione e flessibilizzazione non sono solo un'astuzia del capitale, o un meccanismo per controllare il lavoro. La precarietà è anche l'istituzio-nalizzazione di un desiderio di libertà [...] Il rapporto di subordinazione è improponibile per forme di lavoro che richiedono tempi di studio particolarmente lunghi o mobilità temporale e spaziale.

E gli ingegneri/informatici emigrati di cui si parla sopra? Mah!

(26) È stato dunque estremamente conseguente il comportamento degli “antagonisti” in occasione della grande lotta dei tranvieri (in cui, per altro, si trova un'alta percentuale di precari) del dicembre 2003:

mentre molti cittadini tifavano per i tranvieri, le forze di sinistra, centri sociali compresi [sottolineatura nostra - ndr], non sono state in grado di organizzare iniziative di appoggio, fossero anche laterali come un presidio, una manifestazione o un semplice dibattito.

Luca Fazio, “E Milano la fredda scoprì di amare quei 'selvaggi'”, il manifesto,7 luglio 2004

È superfluo ricordare che, nei limiti delle nostre forze, demmo tutto l'appoggio possibile a quella lotta.

(27) Paul Mattick, “Recensione a 'l'altro' movimento operaio”, in (a cura di) Maria Grazia Meriggi, “Il caso Karl Heinz Roth. Discussione su 'l'altro' movimento operaio”, Ed. AUT-AUT, 1978, pag.90.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.