Sul Covid ed alcuni aspetti della fase odierna

Con il “Decreto di Agosto”, l'attuale governo ha proseguito la sua opera di interventi di “sostegno” all'economia ulteriormente disastrata dal quadro di profondissima recessione seguito al parziale blocco produttivo che si è sviluppato durante il lockdown per l'epidemia da Covid-19. Blocco produttivo che si è rovesciato su un quadro economico che non solo non aveva digerito la crisi del 2009, ma che nel biennio 2018-19 aveva manifestato una chiara recrudescenza di tutti i fattori negativi del ciclo economico, segnando un chiaro approdo verso una situazione di stagnazione e depressione dell'economia capitalistica.

Il giro di boa al 2020 si presentava di fatto in sé già problematico, la recrudescenza dei fattori di crisi economica, dei livelli dei debiti nelle sue diverse porzioni, dell'acuirsi della concorrenza interimperialista, delle guerre commerciali (e non solo) fra attori imperialisti, né costituiva lo sfondo di riferimento.

L'emergenza Covid, il blocco produttivo e commerciale che né è derivato non è stato quindi all'origine della crisi, anche se con questa ha interagito acuendo tutti gli aspetti di contraddizione del modo di produzione capitalistico, avendo il solo aspetto positivo di renderli evidenti al massimo grado, come solo una crisi così profonda e manifesta può fare:

  1. La contraddizione fra la logica predatoria del capitalismo nel suo rapporto con la natura
  2. La contraddizione fra la logica del profitto e quello della vita umana
  3. La contraddizione fra la logica dello sfruttamento intensivo del lavoro a vantaggio del capitale
  4. La contraddizione fra il mantenimento del sistema a garanzia del capitalismo e le reali esigenze di miliardi di persone

Queste contraddizioni di ordine generale, seppur sentite a livello diffuso, hanno vissuto in maniera parziale nei livelli di coscienza singoli e collettivi, nei rapporti sociali, produttivi e di relazioni fra le classi, stante la forza delle classi dominanti e la relativa debolezza delle classi lavoratrici e subalterne, sia sul piano interno ad ogni paese che sul piano mondiale come classe internazionale.

I sommovimenti di classe e spezzoni di classi che si sono manifestati contro i costi della crisi pre e durante la fase emergenziale epidemica, benché abbiano assunto in alcuni punti uno spessore di rilievo, hanno di fatto rappresentato sole le prime avvisaglie di un risveglio di classe internazionale con tutti i limiti che questo stesso risveglio si è portato dietro.

La salvaguardia del quadro economico e politico borghese si è posto per l'ennesima volta come il punto dominante delle vicende reali con le sue ricadute sulle relazioni sociali e nei rapporti fra le classi, fra dominanti e dominati, fra sfruttati e sfruttatori.

Ma è altrettanto vero che il governo di questo quadro si è posto, e si pone, per le classi dominanti come un passaggio di fase di difficile gestione.

Le politiche generali adottate in gran parte dei paesi capitalistici del centro imperialista volte nell'immediato a “riassorbire” gli effetti deleteri della crisi - in termini di recupero della produttività e dei margini di profitto persi per ricollocarsi su un piano di vantaggio nella concorrenza internazionale, “calmierando” il più possibile gli effetti della crisi sul sistema produttivo - si scontrano quotidianamente con la natura e la profondità di quegli stessi problemi che intendono affrontare e risolvere e con quelli che solleva il suo stesso procedere nei rapporti fra le classi. La coperta è corta e richiede la costruzione di condizioni per soluzioni “draconiane”.

Se guardiamo all'Italia, pur con passaggi specifici l'intervento dell'attuale governo, ci si è fatti carico nell'immediato, nel corso delle vicende che hanno accompagnato il deteriorarsi della crisi dentro l'epidemia, di quelle politiche di “tamponamento” e “sostegno” in funzione del tessuto produttivo.

Un ruolo che in maniera problematica ha di volta in volta richiamato la necessità di porsi da parte del governo come “punto di equilibrio” sempre precario, fra il ruolo di garante complessivo del sistema e la necessità di misurarsi e rispondere alle spinte provenienti dalle diverse frazioni borghesi, in particolare dalla grande borghesia, che si è posta come centro di raccordo e propulsione nella crisi dei cosiddetti “ceti produttivi”, afferenti ad una piattaforma “comune” sulle necessità e le modalità della “ripresa produttiva” (come primo passaggio) fin dall'inizio dell'epidemia.

L'emergenza stessa è divenuta il collante degli equilibri politici costituenti l' azione di governo a fronte delle priorità da affrontare, pur tra lacerazioni e problemi da ricomporre intorno alle esigenze generali del momento.

Un “punto di equilibrio” quindi che ha dovuto tener conto del problema della “tenuta complessiva del sistema” (si pensi alle modalità di affrontamento dell'emergenza sanitaria al fine di evitarne un tracollo - problema da cui nasce per loro stessa ammissione la necessità del lockdown nazionale) e degli equilibri sociali generali, in particolare nella fase più acuta dell'epidemia, che ha richiesto la “mobilitazione attiva” di fasce sociali e di lavoratori da “comandare” giornalmente al mantenimento della produzione e nel contrasto all'epidemia. Per sua stessa natura e per la politica messa in piedi, quindi, l'azione di governo non si è affatto configurata come il semplice centro di “mediazione” fra interessi contrastanti, ma ha teso a ricollocare e far avanzare concretamente sul piano delle soluzioni reali gli interessi della grande borghesia e dei diversi “ceti produttivi” dentro gli spazi della situazione concreta, per altro legittimando il suo operato in forza dell'accentramento dei processi decisionali nel governo stesso e del piano di confronto sulle decisioni con le diverse parti sociali, come ulteriore elemento di legittimazione formale .

Due aspetti che saranno costitutivi del proprio procedere nel corso della crisi.

Interesse generale del sistema e interessi parziali della classe borghese hanno trovato un piano di sintesi contraddittorio, ma non per questo meno efficace pur nelle possibilità e nei limiti delle risposte messe in campo.

La “Fase 1” ha dato massima copertura e legittimazione alla produzione industriale in corso, nel momento più critico dell'epidemia, nonostante le falle nei sistemi di sicurezza per la salute dei lavoratori, la “Fase 2 “ ha recepito le spinte già presenti precedentemente verso la ripresa produttiva “totale” .

La “Fase 1” e la “Fase 2”, pur in diversi momenti e con caratteristiche diverse, trovano la loro ragione nell'affermazione di una volontà di ripresa dell'attività produttiva in rapporto ai livelli di concorrenza che si erano erosi e che andavano affrontati nella tempistica della ripresa produttiva rispetto a quella degli altri concorrenti, sopratutto in ambito europeo.

La “Riapertura” e il “dobbiamo convivere con il Covid” indicano la volontà senza tanti preamboli della messa in conto di una quota di “caduti” implicita alla ripresa produttiva. L'esperienza che era stata degli operai a marzo/aprile, pagata con gli scioperi, ora ridiventava patrimonio di tutti nella veste di “cittadino-produttore” chiamato a sostegno delle sorti dell'economia nazionale.

Ma è nella “Fase 2” e nella “Fase 3” che si delineano con più nettezza i problemi a cui si deve rispondere. Ovvero si è posta con più urgenza, oltre la “giusta riapertura”, la necessità di interventi economici che affrontassero congiuntamente il problema della ripresa produttiva con i guasti operati dal quadro apertamente recessivo dell'economia, con un calo del PIL a due cifre e le criticità mostrate dai diversi rami produttivi ed economici in genere, nell'immediato relativi a problemi urgenti di liquidità, fatturato e, in sintesi, alla stessa capacità operativa di fare produzione e reggersi sul mercato, da parte di molte aziende.

Quadro che per approssimazioni successive ha fatto sì che prioritariamente si mettessero in piedi politiche economiche di “sostegno diretto” al mantenimento della base produttiva in sofferenza.

Il Decreto “Cura Italia”, il decreto “Rilancio”, il decreto “Liquidità “ e il decreto di Agosto si pongono come un enorme trasferimento di risorse, in debito, dallo Stato verso il sistema di attività produttiva nel suo complesso. Ovvero investono con modalità, intensità e forme diverse tutti i possibili ambiti di attività dei diversi comparti e settori. In particolar modo quelli che si ritiene siano stai i più colpiti dalla crisi. Un enorme trasferimento di risorse che ha scontato la contraddizione del tessuto produttivo italiano e per certi versi l' attitudine predatoria e parassitaria di settori della classe imprenditoriale, come negli eventi che hanno segnato l'assegnazione della Cassa integrazione.

Ma nonostante questo i dati sono eloquenti.

Le domande totali di CIG si aggirano intorno ad 1 milione e mezzo di persone, mentre nel 2009 erano state “solo” 900mila (dati Sole 24 ore). Scomposta per settori, il Manufatturiero assorbe il 38% delle richieste, le Costruzioni il 58.6 % , gli Alloggi-ristorazione il 56,9 %, il Commercio il 26,9 % (dati Osservatorio sul mercato del lavoro del Centro Studi Itinerari Previdenziali).

Lo stesso dato su un altro versante, ovvero l'accesso ai fondi del Decreto-Liquidità, somma un milione di richieste per 25-30 mila euro garantiti dallo Stato (cit. “L'Economia” del 13/8). Una fotografia scattata dal Medio Credito Centrale, la banca del Tesoro, che sta gestendo il fondo garantito al 100% dallo Stato, per un totale di 68 miliardi di Euro, e con un tasso del 90% delle domande accolte.

L'estensione della richiesta di CIG messa in rapporto alle richieste per il fondo-liquidità delinea i caratteri di un sistema produttivo che si dimostra subito in carenza di ossigeno per caratteristiche dimensionali, di capitalizzazione, di capacità produttiva. Questioni che vengono da lontano e a cui si sommano i danni del blocco di attività dati dal lockdown.

Come questo elemento sia vero è lo stesso rapporto di Confindustria-Cerved del luglio di quest'anno sulle piccole e medie imprese a dircelo: “La lenta ripresa delle PMI italiane aveva esaurito la spinta già prima dell'epidemia . Nel 2019 la natalità (delle PMI) è tornata a calare, il numero delle PMI fallite è risultato in aumento e i tassi di crescita dei ricavi si sono più che dimezzati. Su questa tendenza si è innestata l'emergenza sanitaria da Covid-19 che avrà un impatto senza precedenti sulle PMI....”. Come prosegue il rapporto, se la consistenza delle PMI è robusta numericamente, costituendo esse la gran parte del tessuto produttivo italiano con 156mila imprese (dai 10 ai 249 adetti secondo i criteri europei ) - 53mila nel Nord Ovest, 40mila nel Nord Est, 32mila nel Centro Italia e 31 mila nel Sud - molto meno lo è in termini di tenuta reale, visto che già nel 2018 il calo demografico era del 5,8, i fallimenti più 12,4 e 1,7 in più le liquidazioni volontarie e, dato rilevante, negli anni passati non si era ricostruita la base produttiva persa nel corso del tempo.

Secondo la stessa ISTAT il lockdown ha interessato come blocco di attività circa il 45% delle aziende di piccole dimensioni. Del resto, in questo panorama la stessa ISTAT fissa in circa un 40% le aziende in forte criticità di ripresa e possibili alla chiusura. Di questa quota, un 40,6% sono le cosiddette “microimprese”, per un totale stimato di 1,4 milioni di addetti, le piccole per una quota del 33,5% e un totale di addetti di 1,1 milioni, mentre le medie si collocano con una quota del 22,4%. Ovviamente i comparti più investiti sono l'artigianato, l'alloggio e la ristorazione, il turismo, la cultura, lo sport, il commercio, l'agricoltura, le costruzioni e tutti i servizi che ruotano intorno a queste attività (dati “Innovation Post”).

Necessariamente in questo contesto non sono citate, né conteggiate, tutte le attività afferenti al lavoro “grigio” e “nero”, alla cosiddetta “economia informale”.

In questo quadro, qui sommariamente delineato, le politiche economiche di “sostegno” si sono andate a prefigurare come elementi di calmieramento e tampone degli effetti più disastrosi della recessione in corso nell'immediato e vorrebbero avere come obiettivo intermedio il mantenimento di un livello produttivo funzionale a tenere il confronto con la concorrenza internazionale.

Ma affrontare questo secondo corno della questione significa per lo Stato borghese creare “l'ambiente idoneo” alla riproduzione capitalistica nella crisi. Ovvero misurarsi sul terreno di quelle politiche “anticicliche” più complessive che favoriscano quei processi economici, finanziari, strutturali, normativi, politici e di relazioni sociali funzionali ad assecondare i processi ristrutturativi della produzione, i processi si selezione, concentrazione e centralizzazione capitalista, di spinta alla tenuta dei livelli di concorrenza internazionale sui mercati, e a tutto ciò che, in linea generale e particolare, alimenti la logica del profitto.

Per questo la crisi odierna, affondando le sue radici vere in quella strutturale degli anni '70 e nel passaggio fondamentale della crisi del 2007-08, non è semplicemente intesa a recuperare quella capacità produttiva complessiva persa per il blocco della produzione. Non è che questo problema non esista, ma da un punto di vista strettamente capitalistico si tratta di misurare l'elemento di ristrutturazione interno alla crisi, con il mutare del terreno economico-generale che la crisi ha prodotto, dal livello globale a quello aziendale.

Su questo terreno il programma dei “ceti produttivi”, con a capo la grande borghesia che esprime le sue posizioni per forzature e pressioni, se da un lato manifesta la sua natura parassitaria, coglie il passaggio in corso della crisi come “opportunità” funzionale a ridefinire i modelli produttivi e i modelli di relazione sociale corrispondenti in particolare sulla base di nuovi livelli di subordinazione e sfruttamento della classe lavoratrice.

Legge fondamentale della crisi capitalistica è quello che il possibile superamento di una situazione non può che darsi nell'esasperazione delle scelte e delle dinamiche che questa stessa situazione hanno determinato. Quindi per la grande borghesia non si tratta solo di avere contributi, sgravi, esenzioni, incentivi, tagli fiscali, quelli vanno sempre bene, ma di ristabilire per prima cosa quei margini di profitto che la crisi ha eroso. Spingere sul recupero produttivo significa operare quei processi di ristrutturazione che, con modalità operative diverse, quantomeno nell'immediato devono incentrarsi su un maggiore sfruttamento dei lavoratori a minor costo. Più orario e intensità di lavoro e meno salario nelle sue varie forme, per dirla in soldoni.

Ciò significa intaccare la massa salariale complessiva dei lavoratori a favore della massa dei profitti. Una controtendenza alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Ma per essere operata al meglio ciò richiede due condizioni preliminari: 1) data dalla stessa crisi ovvero l'aumento del bacino della disoccupazione funzionale ad abbassare il costo del lavoro e accettare le nuove condizioni di supersfruttamento, 2) rompere i residui aspetti normativi che regolano il rapporto capitale-lavoro all'interno della contrattazione nazionale di primo livello. Un costo del lavoro a “prezzi stracciati” su cui riprendere quote di mercato internazionale. Un programma “immediato” dettato dalle necessità contingenti, ma che vuole assumere e farsi portatore di un disegno “organico” di mutamento generale.

Questa centralità delle esigenze di impresa nel contesto antecedente alla pandemia - di stagnazione e depressione del quadro economico mondiale - trovava ad esempio il suo specchio distorto nelle pessime vicende delle trattative al MISE di multinazionali come AcelorMittal e la Whirpool, per citare i due casi più importanti.

Anche la polemica sullo “s-blocco” dei licenziamenti è in fondo un rimarcare da parte padronale delle ovvie necessità . E' il misurare che le condizioni vadano comunque a maturare.

La posizione sindacale prima di “minaccia” dello sciopero generale, poi di accettazione della misura introdotta nel Decreto di Agosto non fa testo, o meglio nelle sue righe indica una strada di gestione aperta che non si discosta con il tipo di posizione generale tenuto in tutta la crisi del covid, anche nei peggiori momenti emergenziali, assecondando ogni misura, protocollo, decisione, nell'ambito formale delle consultazioni generali o particolari cui è stato chiamato.

I dati ISTAT e della Banca d'Italia indicano fra le 900mila e 1 milione di persone che rischiano il posto di lavoro.

Rispetto a questo dato il Decreto di Agosto come già affermavamo, si è mosso sullo stesso piano inclinato che vede le necessità della borghesia preminenti rispetto a quello dei lavoratori, e su cui ha ricollocato il proprio “punto di equilibrio”. La politica degli “incentivi” alle assunzioni, la possibilità di aprire a “dimissioni volontarie”, saranno lo strumento per frammentare in mille rivoli le numerose vertenze che si apriranno e lì ricollocare l'attivismo sindacale di sempre.

In questo senso il “blocco dei licenziamenti” assume il suo valore di effimera frase se confrontata alle condizioni materiali che fanno maturare il suo esatto rovescio: uno sblocco dei licenziamenti, temperato da alcune condizionalità non ostative ma trattabili.

Così come sul piano generale, almeno a livello di possibilità come l'esperienza passata ci indica, non è peregrino pensare che si possa giungere ad una ricomposizione contrattata intorno alle esigenze più complessive del padronato, scambiandola per una grande vittoria dei lavoratori. Certo poi il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.....

Va d'oltre modo aggiunto che con le politiche reali, se si è reso evidente come il governo non solo ha posto due pesi e due misure quando si trattava di collocare sul piatto della bilancia interessi borghesi e interessi proletari, ma ciò si è reso ancor più palese in tutte quelle misure di sostegno a favore dei lavoratori, ma che in realtà hanno approfondito la costruzione di un Welfare della Miseria a “geometria variabile”, accesso ipotetico e ostacoli progressivi che costituisce da tempo la filosofia su cui è stato riformato il Welfare State di vecchia memoria.

La profondità della crisi, le spinte della grande borghesia, gli effetti materiali nelle classi e sui rapporti fra le stesse, l'azione di governo sul terreno della crisi, la dinamica generale di crisi economica negli assetti internazionali che nella stessa produce nuove occasioni di scontro e fibrillazione (Libano, Bielorussia) fra i maggiori poli e stati imperialisti, sono gli elementi in movimento di una fase che va ad aprirsi, che non sarà il semplice proseguimento lineare di quella precedente. Elementi che qui poniamo al netto, cioè scontati dai fattori coincidenti sulla situazione generale dell'evoluzione dell'epidemia e della sua gestione materiale, con le sue ricadute su ogni fattore preso in considerazione. L'accumulo di contraddizioni che questa si porta dietro andrà a ricollocare ed esasperare ogni aspetto delle “forme” che sul piano economico, politico, sociale, interno ed internazionale accompagnano il manifestarsi della crisi del modo di produzione capitalistico.

Un terreno di contraddizioni dirimenti che rischia di essere “risucchiato” nelle logiche di schieramento borghesi, comunque collocate. Il terreno discriminante nel conflitto reale si porrà, almeno speriamo, in un avanzamento delle mobilitazioni di classe. Sta a noi come comunisti e avanguardie politiche cogliere l'ordine dei problemi fondamentali da cui partire per lavorare e organizzare su una proposta di classe e rivoluzionaria.

EG
Martedì, August 18, 2020