La mitologia del ceto medio e la lotta di classe

Introduzione

Le proteste che alla fine di ottobre hanno movimentato le pagine dei mass media, promosse da alcuni settori “imprenditoriali” colpiti dalle misure prese dal governo per contenere l'epidemia (1), ci offrono lo spunto per tornare su un “problema” che ha sempre accompagnato il percorso del movimento operaio e delle sue espressioni politiche rivoluzionarie. In breve, come inquadrare teoricamente, e quindi politicamente, l'esistenza della piccola borghesia e del suo ruolo nello scontro tra le due classi fondamentali della società: borghesia e proletariato. Quelle proteste sono state animate, com'è noto, da ristoratori, baristi, gestori di attività e servizi vari, che dal nuovo confinamento subiscono colpi pesanti, dai quali forse una parte non si risolleverà. A maggior ragione se il cosiddetto smart woking (il lavoro a domicilio) diventerà davvero una modalità di lavoro permanente per molti addetti a mansioni di tipo impiegatizio (semplificando): colazioni, “pause pranzo” consumate a casa intaccheranno seriamente i bilanci di esercizi commerciali per i quali quelle “voci” possono rappresentare la sopravvivenza. Lo smart woking sarebbe però un ottimo affare per alcune imprese che risparmierebbero in locali, luce e assicurazione sui dipendenti, mentre per quest'ultimi il lavora a casa finirebbe per accentuare il loro isolamento in quanto individui e in quanto appartenenti ad una categoria sociale, quella dei lavoratori.

Anche se in alcune piazze si sono visti scontri con le forze dell'ordine (2) borghese, per lo più non sono stati animati dai “nostri” piccolo borghesi, ma da un insieme variegato di proletari e sottoproletari, in cui il ribellismo istintivo, prodotto di una vita marginalizzata dai meccanismi di esclusione tipici della società borghese, si è mischiato con la rabbia e la disperazione per la paura di perdere un salario che, per quanto in nero e precario, è l'unico reddito disponibile. Che poi fascisti e parenti stretti (sovranisti), magari anche la criminalità organizzata, abbiano cercato di inserirsi nelle proteste non può stupire: se c'è da creare del torbido per pescarci dentro, quella gente non è seconda a nessuno.

Le manifestazioni sono, per il momento, rientrate, (appena Conte ha approvato il decreto “Ristori”) ma è certo che preoccupazione e risentimento serpeggiano abbondantemente tra le fila di uno strato sociale i cui confini non sono sempre facili da definire con nettezza, soprattutto verso il basso.

L'annosa questione del ceto medio

Ceto medio, classi medie, classi intermedie, mezze classi sono tutte espressioni che, nella sostanza, indicano appunto uno strato sociale che non appartiene né alla borghesia – quella che comanda davvero – né al proletariato, sul cui sfruttamento si basa il modo di produzione capitalistico. È una (semi)classe che abbraccia lavoro autonomo, lavoro dipendente, piccola e piccolissima borghesia:

Non sono una classe, ma se mai delle classi, che meglio dovrebbero chiamarsi ceti, perché non hanno una posizione univoca, una esistenza sociale definita. L'unico elemento elemento connettivo è in esse il fatto di essere medie (3).

È un aggregato sociale che è stato usato – e lo è tuttora – contro le correnti rivoluzionarie della classe salariata già all'indomani della scomparsa di Marx, per “dimostrare” presunti errori di analisi del “Moro” sull'evoluzione della società borghese, con l'obiettivo di imporre al movimento operaio una politica di collaborazione con la borghesia, cioè di sottomissione sotto altra forma ad essa. Il metodo? Sempre quello. Il capitalismo avrebbe preso un'altra direzione rispetto a quella prevista da Marx, una strada in cui i contrasti andrebbero ad attenuarsi sistematicamente, a favore di un allargamento del benessere a settori via via più larghi della stessa classe operaia (del lavoro salariato in genere). Essa dovrebbe allora rinunciare a impossibili sogni rivoluzionari, accettando realisticamente la politica riformista dei miglioramenti progressivi dentro la società borghese. La prova che Marx ed Engels si erano sbagliati – soprattutto nell'insistere sulla prospettiva rivoluzionaria – sarebbe l'allargamento delle classi medie, invece della loro estinzione, come indicato nel “Manifesto del Partito Comunista”. Ora, solo chi legge con malafede o con superficialità le pagine del “Manifesto” non capisce (o non vuol capire) che nel documento fondativo del comunismo, si fa riferimento alla vecchia classe media – piccola proprietà agricola, artigianato ecc. – dell'epoca precapitalista, in larghissima parte scomparsa da gran tempo, travolta dal procedere del capitalismo. Là dove ne sopravvivono i resti (4), conduce un'esistenza molto stentata e in ogni caso sottomessa alle regole del capitale, tanto che nemmeno con la migliore buona volontà si può parlare di classe media. La miopia dei due rivoluzionari tedeschi è dunque solo un'invenzione dei critici, quasi sempre prevenuti, e di discepoli che dei maestri avevano capito poco; e se avevano capito qualcosa, facevano finta di niente, perché le argomentazioni a favore del riformismo sarebbero state demolite in partenza. Alla fine dell'Ottocento, la critica tagliente di Rosa Luxemburg nei confronti di Bernstein, padre di ogni movimentismo, tocca anche la questione “classe media”, inquadrandola nell'analisi degli sviluppi del capitalismo (5).

Gli strumenti metodologici e le indicazioni prospettiche sulla classe media “emergente”, sono del resto presenti nei lavori con cui Marx smonta pezzo per pezzo l'economia politica borghese. Certi fenomeni di massa del Novecento vengono già colti nel loro primo apparire, quando ancora non costituivano, per così dire, un problema teorico, e quindi politico, per le organizzazioni rivoluzionarie del proletariato. Si potrebbero citare pagine intere del Capitale, ma qui, per ovvie ragioni, ci limitiamo a qualche passaggio. A proposito di quello che sarà chiamato Il “nuovo ceto medio impiegatizio”, Marx osserva che

I lavoratori commerciali veri e propri appartengono alla classe dei salariati meglio pagati [ma] La generalizzazione dell'istruzione popolare permette il reclutamento di questi salariati da classi che prima ne erano escluse ed erano abituate a un tenore di vita peggiore. In tal guisa essa accresce l'afflusso e la concorrenza […] la forza-lavoro di questa gente si deprezza con il progresso della produzione capitalistica: il loro salario diminuisce mentre il loro rendimento si accresce. Il capitalista aumenta il numero di questi lavoratori, quando vi sia da realizzare più valore e profitto. L'aumento di questo lavoro è sempre la conseguenza, mai la causa dell'aumento del plusvalore (6).

Tra parentesi, compare il ruolo della futura scuola di massa, destinata a sfornare tecnici e impiegati diplomati in quantità e a costi adeguati al processo di accumulazione, mentre si sottolinea che l'aumento dei “nuovi” ceti medi improduttivi dipende dalla crescita del plusvalore estorto nel processo produttivo, non il contrario. Ancora Marx non parla direttamente di proletariato, anche se il senso è quello o va in quella direzione, ma Engels, trent'anni dopo, quando il fenomeno si è ormai delineato, attribuisce la qualifica di proletariato commerciale a quei

commessi tedeschi che, conoscendo a fondo tutte le operazioni commerciali e tre o quattro lingue, offrono invano i loro servizi nella City di Londra in ragione di 25 sh. alla settimana – ben al di sotto del salario di un abile meccanico (7).

Infine, giusto per dare un altro esempio, fra i tanti, delle straordinarie capacità critico-analitiche di Marx, negli stessi anni in cui scriveva il passo citato, rilevava

il continuo accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall'altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti (8).

Insomma, non solo la critica marxiana non ha ignorato il formarsi di un ceto medio (autonomo o dipendente) nuovo o rinnovato, ma lo ha inquadrato quale elemento necessario delle e alle leggi di sviluppo del processo di accumulazione del capitale. Più esso si espande, più aumentano quelle figure sociali che, come dice Braverman rifacendosi a Marx, lo aiutano «nella realizzazione o nella appropriazione del plusvalore» (9). A seconda del grado di “maturità” del capitalismo, esse presentano caratteristiche che ricordano quelle del ceto medio tradizionale, ma questo è destinato a perderle e ad assumere sempre di più quelle della forza-lavoro salariata. Per esempio, quando negli USA la grande distribuzione si affermava spazzando via migliaia di piccoli esercizi commerciali, in Italia i “Grandi magazzini” erano una rarità, una curiosità cinematografica. Oggi, una delle più grandi aziende del mondo è la WalMart, così come in Italia le grandi catene di supermercati dominano interi settori del commercio; per non dire di Amazon e dell'e-commerce.

D'accordo, si dirà, botteghe e bottegai di varie dimensioni staranno anche riducendosi, riducendo la platea della piccola borghesia, ma rimane il fatto che la classe operaia o le mansioni operaie non sono più la maggioranza dell'occupazione, perché la forza-lavoro di tipo impiegatizio – quindi, leggendo tra le righe, piccolo borghese – è cresciuta ininterrottamente da oltre un secolo, ridimensionando il numero delle “tute blu”, dunque il loro peso politico.

Come si diceva più indietro, l'espansione del “colletti bianchi” è stata appunto usata dagli ideologi borghesi, non da ultimo da quelli appartenenti al mondo del riformismo (10), per decretare la fine della lotta di classe e l'avvento di una società, se non del tutto armonica, quanto meno liberata dalle contrapposizioni sociali inconciliabili. Il proletariato “brutto, sporco e cattivo” sarebbe diventato una minoranza, oggettivamente impossibilitato di nuocere (politicamente), neutralizzato dalla gran massa di nuovi ceti medi. Leggenda, naturalmente, ma che come ogni leggenda ha un fondo di verità, perché effettivamente le mansioni considerate non operaie, è banale dirlo, sono molto aumentate dalla fine dell'Ottocento. Però, il punto è che, come avevano intravisto Marx ed Engels, gli impiegati tendevano ad assomigliare sempre di più agli operai, non per le mani sporche e callose, quanto per il loro rapporto col “datore di lavoro”, con il capitale. In ultima analisi, era ed è lo stesso dell'operaio, se si considera l'impiegato esecutivo, che non assolve il ruolo di “ufficiale e sottufficiale” del processo di sfruttamento, che non è quindi sorvegliante, caporeparto, “quadro” o addirittura direttore, figure che, in misura maggiore o minore, beneficiano del plusvalore estorto nella produzione. A rilevarlo, a individuare nella “nuova classe media” impiegatizia – almeno in estesi settori di essa – una nuova forma di proletariato e non di piccola borghesia – il «proletariato in abito nero» o «colletto duro» (11) – non furono solo i militanti rivoluzionari, ma anche le menti più lucide della sociologia borghese, che nelle acute analisi dei “colletti bianchi” riecheggiavano, non sappiamo quanto consapevolmente, parte dello strumentario analitico marxiano (12). Certo, la riduzione dell'impiegato, anzi, molto spesso impiegata, a meccanismo nella valorizzazione del capitale, non ne fa automaticamente una figura rivoluzionaria, al contrario. Tradizionalmente, le condizioni specifiche di lavoro e le origini familiari piccolo borghesi – oggi molto meno – ne fanno non di rado una «specie di guardia del corpo» (13) della borghesia.

La vicinanza sul posto di lavoro con “ufficiali e sottufficiali” aziendali, le condizioni di lavoro diverse e spesso fisicamente meno disagiate, uno stipendio un po' più alto – ma è tutt'altro che una regola ferrea – hanno sempre alimentato negli impiegati l'illusione di stare qualche gradino più in alto – molto più in alto di quanto non lo fossero e non lo siano realmente – della classe operaia strettamente intesa, astenendosi dalle sue lotte o sabotandole: guardaspalle del capitale, appunto. Storicamente, le mezze classi – anche se parecchi individui così catalogati sono scivolati in basso nella scala sociale – hanno sempre costituito il puntello più solido del sistema borghese e la base di massa dei fascismi. Questo, va da sé, non le hai mai salvate dai meccanismi del processo di accumulazione del capitale, al massimo può avere rallentato momentaneamente il loro declassamento o il loro sfoltimento, per ragioni puramente politiche, ma alla fine vengono inevitabilmente sacrificate alle necessità del profitto. Per fare un esempio, i “Quarantamila” (in realtà erano meno della metà) che giusto quarant'anni fa marciarono a Torino contro gli operai della Fiat in lotta, non furono risparmiati dalla ristrutturazione e piano piano non pochi di essi subirono cassa integrazione e licenziamento, proprio come le “tute blu” contro le quali avevano manifestato. C'è da dire che il crumiraggio di capi, capetti e impiegati intruppati da Romiti, allora AD dell'azienda, fu tutto sommato “poca cosa” rispetto al ruolo del sindacato, che, a rigore, non può essere definito tradimento, perché la sua funzione è proprio quella di contenere il conflitto e impedirgli di scavalcare le famigerate compatibilità del capitale, anche a costo di condurre la classe lavoratrice non solamente alla sconfitta dei soliti accordi al ribasso, ma alla catastrofe epocale, come avvenne a Torino nel 1980 (14). Una disfatta ampiamente prevedibile, per chi aveva chiaro il ruolo anti-operaio, controrivoluzionario del sindacato e dei partiti della sinistra borghese. Ieri come oggi, con la differenza che il ruolo controrivoluzionario del sindacalismo, di volta in volta si adegua al modificarsi delle situazioni sino a trasformarsi in radicalismo tradunionista, pur rimanendo sempre all'interno delle gabbie del sistema. Vedi l'arcipelago dei Cobas che, al di là della loro verbosità anticapitalista, finiscono soltanto per dividere quelle relativamente poche frange di proletari che organizza – di solito i più combattivi – in chiesuole autoreferenziali.

La mitologia tenace della classe media

Sulla classe media (vera o presunta) l'intellettualità borghese ha scritto molto, quasi sempre, come s'è detto, in modo mistificatorio, per avvolgere in un fumo ideologico la struttura della società e giustificarne la divisione in classi. Il fatto che oggi molti analisti borghesi temano che un eventuale indebolimento del ceto medio abbia ricadute negative sulle istituzioni, dando spazio a sovranismo e confuso ribellismo, significa che la borghesia “pensante” è preoccupata della situazione, frutto della crisi strutturale che, con andamento alterno, si trascina dagli anni '70 del secolo scorso. Per usare una metafora, la piccola borghesia, guardia pretoriana dell'ordine borghese, può rivoltarsi contro “l'imperatore” di turno, può destabilizzare il quadro politico e complicare la vita alla borghesia “per bene” – i cosiddetti poteri forti – anche se, ovviamente, lascia intatto il modo di produzione capitalistico (“l'impero”, per continuare con la metafora), che non pensa affatto di sovvertire, semmai sgomita per sistemarsi meglio dentro la formazione sociale corrispondente, con successo variabile, a seconda delle condizioni economiche (la fase ascendente o discendente del ciclo di accumulazione) e, va da sé, dello stato della lotta tra le due classi fondamentali. Il patrimonio genetico della piccola borghesia, individuato da Marx nell'analisi acutissima di un personaggio “improbabile” come Luigi Bonaparte (15), rimane sostanzialmente quello e, variamente combinato, lo ritroviamo in azione nel presente. La sua voce è tanto più grossa, quanto più quella del proletariato è debole, fin quasi al punto di scomparire.

Ma in cosa consiste la famigerata classe media e qual è il suo stato di salute? Difficile o, meglio, complesso rispondere alla prima domanda, un po' meno alla seconda, proprio per i motivi già detti.

La sociologia borghese produce una montagna di dati, che però, invece di illuminare il quadro, lo confondono, perché i criteri con cui vengono raccolti variano e, soprattutto, sono viziati dall'ottica con cui vengono interpretati. In ogni caso, fanno sostanzialmente riferimento solo al reddito, mai al rapporto coi mezzi di produzione in cui si trovano gli individui catalogati tra i ceti medi. Secondo l'OCSE, la classe media comprende tutti i redditi che si collocano tra il 75% e il 200% del reddito mediano. Ora, a parte il fatto che la forbice è abbastanza, troppo ampia, pur prendendo per buono quel criterio, è evidente che nella “middle class” rientra una parte significativa (o molto significativa) di “classe operaia” (intesa in senso lato), ma anche che molto ceto medio, realmente medio, si colloca vicino al valore inferiore o addirittura al di sotto di esso, per via dell'evasione/elusione fiscale. Giusto per fare un esempio largamente conosciuto, secondo la dichiarazione dei redditi relativa al 2018

il reddito medio dichiarato dagli imprenditori titolari di ditte individuali è di 20.940. Circa 120 euro in più del reddito medio dichiarato al Fisco dai lavoratori dipendenti [i quali, assieme ai pensionati] rappresentano l'82% del reddito dichiarato (16).

Un dossier dell'OCSE del 2019 (17) pone i confini della classe media, in Italia, da un minimo di 12.206 euro a un massimo di 32.549 euro all'anno; se anche uno studio diverso (Il Sole 24 ore del 6 maggio 2019) stabilisce il limite inferiore a 15.000 euro (sempre lordi) il discorso sostanzialmente non cambia. Davvero uno stipendio lordo di 1250 euro al mese (per dodici mensilità; per tredici è ovviamente meno) ci rende ceto medio? Non si tratta di una bizzarria – chiamiamola così – italiana, questo vale per ogni paese, perché il criterio di rilevazione è il medesimo. Negli Stati Uniti, patria per eccellenza del ceto medio (così dicono...), basta disporre di un reddito annuo di 25.000 dollari per entrare nel paradiso a scartamento ridotto del ceto intermedio. Ora, 25.000 dollari negli USA non equivalgono a 25.000 euro, diciamo, nell'Unione Europea, visto che, tra le altre cose, quella somma comprende la quota di salario indiretto e differito (pensione, sanità, scuola) trattenuto invece dalla busta paga qui da noi. Inoltre,

una parte enorme delle persone definite come appartenenti alla classe media era costituita da genitori soli con due bambini e un reddito [appunto] di circa 25.000 dollari all'anno (18).

È difficile pensare che una madre sola (19) con due bambini possa, con quel reddito, condurre un'esistenza economicamente serena, quasi benestante, senza particolari scossoni o ansie, come vorrebbe l'appartenenza alla vera classe media. Seguendo sempre l'OCSE, prima della crisi dei subprime, il 51% della popolazione statunitense sarebbe appartenuta alla classe media, percentuale scesa di dieci punti nel 2015, ma la Yellen, allora governatrice della FED, giusto un anno prima dichiarava che

Una spesa inattesa di appena 400 dollari indurrebbe la maggioranza [sottolineatura nostra, ndr] delle famiglie americane a chiedere denaro in prestito, vendere qualcosa o semplicemente non pagare (20).

Oggi, con la pandemia in corso, quei dati sono molto probabilmente peggiorati, visto che migliaia di piccole imprese, imprese individuali, lavoratori autonomi hanno chiuso o stanno per farlo; senza contare, inoltre, le decine di milioni di richieste del sussidio di disoccupazione della primavera scorsa, solo in parte rientrate nel corso dell'estate.

Il tentativo di fissare in maniera meno aleatoria il recinto della classe intermedia riesce ancora più difficile se si cambiano territorio e istituzione promotrice della ricerca. Per esempio, uno studio datato 2019 della CEPAL (Commissione economica per l'America Latina, agenzia dell'ONU)

stima che la classe media – ossia il largo spettro di persone i cui redditi si situano tra 1,8 e 10 volte la soglia di povertà – rappresenta il 41% della popolazione (21).

È utile allora ricordare che la soglia di povertà è fissata dalla Banca Mondiale, nel 2018, a 1,9 dollari al giorno (22), dunque basta vivere (?) con tre dollari e mezzo al giorno per essere considerati appartenenti al ceto medio. È ridicolo, se non fosse drammatico. D'altra parte, è proprio grazie a una particolare interpretazione – diciamo così – di dati simili che la sociologia borghese può dichiarare trionfalmente – almeno prima della pandemia – che le disuguaglianze a livello mondiale si sono ridotte, così come la povertà assoluta. In parte è vero, ma solo perché milioni di operai, anzi, spesso di operaie, delle delocalizzazioni percepiscono un salario, quindi un reddito in qualche modo statisticamente rilevabile, che, per quanto basso, è superiore alla soglia della povertà assoluta fissata dalla BM e di quello disponibile prima, quando erano contadini poverissimi o lavoratori “autonomi” nel cosiddetto settore informale. Solo così si possono immaginare i trecento milioni di persone della classe media ipotizzati per la Cina (23); ma bisogna spingere per farcele entrare tutte...

All'apparente – e in gran parte solo apparente! – crescita del ceto medio nei cosiddetti paesi emergenti, corrisponde in “Occidente” una crescente difficoltà della classe media certificata da numerose analisi (una è quella dell'OCSE citata), guidate tutte dalla stessa preoccupazione: trovare il modo di arrestare e se possibile invertire la tendenza, in atto da decenni, che porta strati via via più estesi di piccola borghesia (vera) a indebolirsi economicamente e ad avvicinarsi al mondo del lavoro salariato, persino ai suoi gradini più bassi, dal punto di vista del reddito. Vale la pena di accennare brevemente al fatto che molte attività classificate come autonome, occupate da persone di origine familiare piccolo borghese, e spesso laureate, in realtà sono forme mascherate di lavoro dipendente, dove il sottosalario e la precarietà dominano. La laurea, di per sé, non mette al riparo dallo scivolamento verso il basso, nemmeno quando i suoi possessori occupano posti coerenti col titolo di studio, se è vero che

Anche i laureati, che in passato andavano a occupare lavori tipicamente delle classi medie, stanno conoscendo una sensibile riduzione del reddito (-25% dal 1993 al 2012) (24).

Naturalmente, l'intellettualità borghese alla ricerca della cura miracolosa non ne verrà a capo, perché la tendenza alla proletarizzazione – o declassamento o perdita di status che dir si voglia – è prevista dalle leggi del capitale, accelera il passo nelle fasi di crisi del ciclo di accumulazione e addirittura corre se la crisi viene fortemente aggravata da un elemento “inatteso” come un'epidemia.

Per rimanere in Italia, piccolo “Eden” per lungo tempo del lavoro autonomo e indipendente – anche per ragioni di stabilizzazione politica – ceto medio per antonomasia, almeno dagli anni Novanta del secolo scorso questo strato sociale è andato restringendosi e l'andamento ha acquistato velocità già prima dello scoppio della bolla dei subprime. Nel 2004 comprendeva circa 6 milioni e trecentomila occupati, equivalenti al 25,3% dell'occupazione complessiva (contro una media della UE a quindici del 14,5%), nel 2016 avevano subito un calo di oltre 800 mila unità, portandosi al 22,4%. Le perdite più grosse sarebbero avvenute tra piccoli commercianti (bar, ristoranti, negozi “all'angolo” ecc.) e tra gli artigiani; ma il calo sarebbe ancora più marcato se nel frattempo decine di migliaia di immigrati non avessero rilevato o aperto quelle attività (25). A ottobre 2020 sono 5,1 milioni, ma l'emorragia continua, soprattutto nella fascia degli “under 40”. Qui, nel giro di un anno, cioè tra il secondo trimestre del 2019 e quello del 2020, sarebbero scomparsi ben 110.000 occupati, portando la perdita al 30% dal 2010 a oggi (26). Poiché il calo riguarderebbe soprattutto il lavoro autonomo con dipendenti, c'è chi, sempre in ambito borghese, riesce a vedere il bicchiere mezzo pieno, nel senso che in questo andamento scorgerebbe una tendenza all'aumento della dimensione delle imprese (centralizzazione del capitale, diremmo noi) e quindi della competitività complessiva dell'economia italiana (27). Può essere; certo che il tanto decantato “piccolo è bello” di una trentina di anni fa, ossia l'esaltazione dell'agilità “performante”delle piccole imprese (in cui un sovrappiù di sfruttamento è spesso la norma) è andato inevitabilmente a sbattere contro quei limiti che aveva cercato di nascondere col fumo dell'ideologia. Questo non significa che la piccola impresa sia destinata a scomparire, naturalmente, ma solo che le leggi del capitale non si possono eludere all'infinito, soprattutto quando il saggio del profitto cade e fatica a rimettersi in piedi. Certamente, la pandemia sta spingendo in maniera potente la tendenza pluridecennale in atto. Infatti,

la BCE ha lanciato l’allarme su una prossima spirale di fallimenti per le imprese. Questo è un “rischio particolarmente alto” ha ammesso [e secondo] le previsioni fatte ieri dal secondo barometro Censis-Commercialisti [in Italia] sono a rischio 460 mila piccole imprese con meno di 10 addetti sotto 500 mila euro di fatturato. La crisi potrebbe cancellare il doppio delle microimprese rispetto alla crisi economica di dodici anni fa (28).

Naturalmente, questo avrebbe ricadute pesanti sull'occupazione e, di conseguenza, sui famosi consumi, traino presunto della crescita economica.

La montagna di denaro che i governi stanno tirando fuori, serve a tamponare le perdite, non certo a rialzare in maniera risolutiva il saggio del profitto né a rianimare un settore sociale, come abbiamo visto, da molti anni in sofferenza: la pandemia conta, certamente, ma questa è “solo” la ciliegina – di enormi dimensioni – sulla torta. Lo sa bene il lavoro autonomo, il quale, benché abbia usufruito di oltre quattro milioni di indennità (29) tra aprile e ottobre (e ne riceverà altre), scalpita, scende in piazza, si infuria per avere di più da quello stato col quale gioca a rimpiattino fiscale, appropriandosi in tal modo dei servizi finanziati con i prelievi sulla busta-paga e sulla pensione. Anche per questo, un'alleanza tra i ceti medi e il lavoro salariato sarebbe un'unione contro natura: i primi vogliono solo sopravvivere o prosperare dentro un sistema che periodicamente li deve sacrificare, e per provarci non possono fare altro che scaricare i costi di questa lotta per la vita sul proletariato; il secondo, se vuole liberare se stesso, non può che andare oltre il sistema. Il loro anticapitalismo, se così si può chiamare, è solo il risentimento di chi teme di essere scalzato dai gradini della scala sociale ereditati dalla famiglia o su cui si è arrampicato, spesso con fatica e non di rado con pochi scrupoli legalitari. La “scala”, di per sé, non è mai messa in discussione: è sempre quella borghese. Se oggi le loro proteste rubano la scena al proletariato (30) è solo perché, per usare una definizione associata ai “colletti bianchi”, esso è «spiritualmente senza tetto» (31): schiacciato dalla guerra sociale che la borghesia gli fa da decenni, ricattato, impoverito, soprattutto privato del senso di alternativa al capitalismo, rimasta sotto le macerie prodotte dallo stalinismo, prima, e dal suo crollo poi. Scrollarsi di dosso quelle macerie non è facile, di sicuro, ma non è impossibile, e lo sarà, possibile, solamente se la “classe operaia”, strappata al suo torpore dalle condizioni materiali, riprenderà a lottare, sbarazzandosi dei falsi amici della destra e della sinistra borghese, che lo intossicano, lo paralizzano e, se lo muovono, lo spingono all'autolesionismo. Se, in poche parole, romperà le compatibilità, le gabbie in cui gli “istituti” della società borghese lo imprigionano e costantemente lo riportano, non appena metta per attimo la testa fuori, sindacalismo compreso, in tutte le sue varianti. Solo così le sparute avanguardie, costrette dalla controrivoluzione staliniana – così come da decenni di arretramenti e sconfitte della nostra classe (32) – a sopravvivere pressoché ignorate dal proletariato, potranno rimettere radici profonde nella classe, ricomponendo l'unità dialettica della rivoluzione comunista: proletariato in lotta e partito rivoluzionario. In tal senso, non esiste un problema delle classi medie, ma quello della ricomposizione politica della “classe operaia”.

Celso Beltrami

(1) Sulle modalità delle stesse e sui loro risvolti classisti, rimandiamo ai nostri articoli già pubblicati.

(2) Si accenna a quegli episodi anche in altri articoli di questo numero della rivista; a essi rimandiamo.

(3) Lucio Luzzatto e Bruno Maffi, La politica delle classi medie e il planismo, 1935/1938, in Stefano Merli, Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in Italia 1923 – 1939. De Donato, 1975, pag. 85. Questo documento, benché lontano nel tempo, rimane sostanzialmente valido e ampiamente sottoscrivibile, per quanto riguarda il giudizio sulla piccola borghesia. Gli autori appartenevano alla sinistra del partito socialista, ma uno di essi, Bruno Maffi, a contatto, al confino, con Onorato Damen, si portò sulle posizioni della sinistra comunista e diede, con Damen, un contributo di primissimo piano alla fondazione del nostro partito. In seguito, fu però anche il principale protagonista della scissione bordighista del 1952.

(4) Nei cosiddetti paesi emergenti si possono trovare figure sociali che assomigliano alle classi medie di cui parla il Manifesto.

(5) Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione, in Scritti scelti, edizioni Einaudi, 1975 o in Scritti politici, Editori Riuniti, 1974, ma reperibile anche nel web.

(6) Karl Marx, Il Capitale, Libro III, cap. 17°, Einaudi, pag. 418-19. Oggi, l'insufficienza del plusvalore spinge il capitale alla precarietà non solo l'operaio direttamente produttivo di plusvalore, ma anche lavoratori del commercio, dei servizi e tanta piccola borghesia di quei comparti, per risparmiare sui costi, per accrescere il plusvalore – di quello specifico settore – o, meglio, per consumarne di meno in spese improduttive.

(7) Nota di Engels alle pagine citate del Capitale.

(8) Karl Marx, Storia delle teorie economiche [Teorie sul plusvalore], Einaudi, II, 1977, pag. 634. A pagina 131 dello stesso volume, si accenna all'importanza dei “nuovi” ceti per quanto riguarda il consumo delle merci e delle ricadute sull'accumulazione del capitale, a riprova che la schematicità di Marx è solo un'invenzione di critici malevoli e dotti ignoranti.

(9) Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Einaudi, 1978, pag. 424.

(10) In quella categoria rientrano non solo la sinistra parlamentare, anzi, le sue frange “estreme”, ma anche la gran parte di quella che una volta si diceva movimentismo e oggi antagonismo; oltre ai rimasugli dello stalinismo e del trotskysmo: insomma, della Terza Internazionale degenerata.

(11) Luzzatto e Maffi, cit., pag. 80.

(12) Il riferimento è a due classici della sociologia: Siegfried Kracauer, Inpiegati, Meltemi, 2020 (edizione originale 1930) e Charles Wright Mills, Colletti bianchi. La classe media americana, Einaudi, 1974 (edizione originale 1951).

(13) Siegfried Kracauer, cit., pag. 25.

(14) Sul ruolo del sindacato potremmo rinviare ai nostri numerosi documenti, ma, per una volta, riportiamo le considerazioni di un borghese, non certo comunista, la cui onestà intellettuale gli fa però vedere quello che quasi tutti a “sinistra” non riescono a vedere, perché indossano gli occhiali dell'ideologia, perché ragionano con gli strumenti teorici di un'altra epoca della lotta di classe:

I sindacati, dopotutto, sono gli strumenti più sicuri per addomesticare e incanalare le aspirazioni delle classi inferiori, per inquadrare i lavoratori senza scosse interne in tempo di guerra, e per controllarne le insorgenze in tempo di pace e di depressione.

C. Wright Mills, cit., pag. 415

(15) Vedi Karl Marx, Le lotte di classe in Francia e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte.

(16) Il Sole 24 ore, 23 aprile 2020. Il reddito è lordo, naturalmente.

(17) Sous pression: la classe moyenne en perte de vitesse, 2019 [Sotto pressione: la classe media in perdita di velocità].

(18) David Roediger, La classe moyenne de plus en plus impossible, www.alencontre.org, 9 ottobre 2020.

(19) Sono quasi sempre le madri a essere genitori monoparentali, il che la dice lunga sulla condizione della donna, in particolare proletaria.

(20) Citato in Mario Deaglio, Un mondo più disuguale, anche quando cresce, Aspenia n.74, 2016, pag. 90. Deaglio dice che la classe media, secondo l'OCSE, comprende i redditi posti tra il 75% e il 125% di quello mediano. Rileviamo la differenza tra questo criterio e l'altro già citato, fissato in alcuni documenti più recenti.

(21) Frédéric Thomas, La morale des soulevements? Classes moyennes, économie morale et révoltes populaires, www.contretemps.eu, 7 aprile 2020. [La morale dei sollevamenti? Classe media, economia morale e rivolte popolari]

(22) Oxfam la distingue dalla soglia di indigenza, che fissa a 5,5 dollari giornalieri.

(23) Marco Bertorello, Disuguaglianza, dalle maree ai naufragi, Attac Italia, 21 novembre 2016.

(24) Enrico Comini pandorarivista.it 27 luglio 2016.

(25) Emilio Reyneri, Lavoro indipendente sul viale del tramonto, lavoce.info, 31 ottobre 2017.

(26) M. Pri_, Il Covid fa chiudere i lavoratori autonomi under 40, Il Sole 24 ore_, 17 ottobre 2020.

(27) Nicolò Bertoncello e Andrea Garnero, Il lavoro autonomo non è più quello di una volta, la voce,info, 10 marzo 2020.

(28) Roberto Ciccarelli, Pandemia economica: 460 mila piccole imprese a rischio, il manifesto, 13 novembre 2020.

(29) Il Sole 24 ore, 17 ottobre 2020, cit. Si sta parlando dell'Italia, ma tanti paesi fanno lo stesso.

(30) Anche quando il proletariato partecipa alle lotte mischiato al “ceto medio” arrabbiato e impaurito dal declassamento, le sue rivendicazioni rimangono sul terreno economico, ma soprattutto si confondono con quelle interclassiste del movimento di protesta e lì muoiono. Il caso più emblematico degli ultimi tempi è quello dei Gilets jaunes francesi.

(31) S. Kracauer, cit., pag. pag. 105.

(32) Sconfitte e arretramenti in cui lo stalinismo, prima, e le sue eredità, poi, hanno avuto un ruolo di primo piano.

Mercoledì, April 28, 2021

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.