Quel che resta del “bel mondo” capitalista

Le dinamiche (in crisi) dell’accumulazione capitalista

Da decenni la “sinistra” borghese si spreme le meningi alla ricerca di ristabilire una “dinamica interna” al capitalismo, capace di risolvere i “problemi” che disturbano quello che ipocritamente definiscono come “il modo migliore di formazione e criterio di distribuzione delle risorse”, sia umane che naturali. Con il concetto di risorse si maschera in realtà la massa di plusvalore-profitto che viene estorto alla forza-lavoro della classe proletaria: si ricorre a generiche nozioni di economia nazionale, interesse generale, pacifiche relazioni sociali, ecc. Si mistifica la realtà dei rapporti di produzione capitalistici e il contenuto delle forme economico-sociali dominanti; si nega la contrapposizione di interessi fra le classi presenti nella società attuale, dominata dal capitale.

Quest’ultima crisi, in cui si dibatte il capitalismo, ancor più messo in ginocchio dall’epidemia del Covid-19, viene interpretata come la rottura di un “meccanismo di accumulazione” politicamente mal condotto. In definitiva, si dà la colpa a scelte strategiche sbagliate e a inadeguate politiche industriali e commerciali. Decisioni che alcuni governi dei “paesi forti” avrebbero perseguito a danno di quelli deboli, applicando un volontario “contenimento della crescita economica” che avrebbe ridotto salari e occupazione, nonché gli spazi e il “ruolo” che spetterebbero “democraticamente” ai lavoratori e ai loro sindacati. Di fronte a quella che si ritiene la prevaricazione di un egoistico ceto politico, che fare? Basterebbe democraticamente – dicono – cambiare questo personale dirigente e le cose migliorerebbero…

Nuove… “riduzioni” economiche

Accantonato ogni riferimento alla critica dell’economia politica sviluppata dal ottocentesco Marx, la lotta politica e sindacale della cosiddetta “sinistra” si è ridotta ad una pressione di natura “civile” che pretenderebbe di attuare il rilancio di un “nuovo sviluppo economico”. Il modello, a grandi linee, sarebbe quello basato su ipotesi di alcune riconversioni dell’apparato produttivo (non si sa bene in quale direzione), nell’ambito di un rilancio del processo di una migliore valorizzazione capitale. Con l’aggiunta verbale: “a fini sociali”!

Silenzio sul fatto che la valorizzazione del capitale si realizza in un solo modo, cioè con una diffusa produzione di merci, costantemente allargata. Merci che poi andranno vendute per ottenere in denaro quel plusvalore-profitto in esse contenuto e in parte necessario per nuovi investimenti che assicurino altri profitti, e così via senza fermarsi mai. Il fine della produzione capitalistica – lo sappiamo dai tempi di Marx – è infatti quello di

produrre il più possibile e la grandezza maggiore possibile di plusvalore, dal momento in cui il valore di scambio del prodotto assurge a scopo dominante.

Marx

“Risorse” in caccia di plusvalore

Fermo restando per tutti (privatisti e statalisti, liberisti ed ex stalinisti) gli obiettivi primari sopra descritti, si impone un pieno utilizzo delle “risorse” e soprattutto una profonda intesa, democratica, fra capitale (produttivo) e lavoro salariato…

Ma ecco che col progressivo avanzare di scienza e tecnologia si riducono i margini di profitto, in rapporto al capitale “morto” investito. Infatti, non è dalle macchine (che si limitano a cedere parte del loro valore ai prodotti) bensì dall’uso-sfruttamento della forza-lavoro degli uomini, che si ottiene plusvalore. Ma più aumenta la produzione di merci (riducendo il numero degli operai, sostituiti da macchine) e più diminuisce il valore di ogni singolo prodotto e quindi del plusvalore che il capitale si appropria.

Il plusvalore non deriva dalle forze-lavoro sostituite dal capitalista con le macchine, bensì dalle forze-lavoro che egli impiega per il loro funzionamento.

Marx, Il capitale, Libro II

Lo “sviluppo” del capitale

Per noi è di fondamentale importanza constatare come lo “sviluppo” del capitale abbia seguito quello delle forze produttive, con la conseguente modifica della composizione organica del capitale: l’intensificazione del plusvalore relativo (dopo aver spinto al massimo possibile quello assoluto), con le macchine che sostituiscono molta viva forza-lavoro, ha ampliato la produzione di merci, portando la competizione internazionale a limiti esplosivi. Coi vigenti rapporti produttivi, ed inseguendo la costante diminuzione del saggio medio di profitto, il risultato non può che essere quello di soffocare i mercati accentuando l’esclusione dai consumi di masse sempre più consistenti di proletari (disoccupati) e quindi “non solvibili”. Si aggiunga il coinvolgimento, al ribasso, dei redditi di strati della piccola borghesia: si acutizza così l’atavica contraddizione che il capitalismo porta con sé, ovvero l’essere costretto ad una sovrapproduzione di merci per cercare di raccogliere plusvalore e contrastare la caduta del saggio di profitto. L’ultima spiaggia è quella di una violenta distruzione e svalorizzazione di capitale (come la guerra). Ma questa volta, in particolare, la eventuale “ricostruzione” dovrà fare i conti con quegli aumenti di produttività (plusvalore relativo) che l’applicazione di scienza e tecnica offrono al capitalismo.

Finché dura il dominio del capitale, le crisi sono inevitabili e sempre più devastanti. La sovrapproduzione di capitale – Marx lo spiega nel III Libro del Capitale (cap. XV) – non è altro che una sovrapproduzione di merci (e di capitali), la quale è pur sempre accelerata dalla legge della caduta del saggio medio di profitto, proprio a seguito del progressivo sviluppo della produttività sociale del lavoro vivo, la cui massa diminuisce rispetto all’aumento del lavoro oggettivato e movimentato con la introduzione di scienza e tecnica. Aumenta il capitale complessivo, necessario per produrre e vendere merci, facendo diminuire il rapporto col plusvalore strappato ad una minore forza-lavoro impiegata.

Come scriveva Marx, si verifica “la relativa diminuzione del capitale variabile rispetto a quello costante”. Viene erosa la base stessa della valorizzazione capitalistica, cioè lo sfruttamento – in quantità – del vivo lavoro.

Ancora una volta va ribadito con forza che il capitale, di per sé, non produce valore: nella circolazione si realizza il valore creato nel processo di produzione grazie al lavoro umano e incorporato nelle merci. Senza mediare una forte produzione di merci, che poi possano “circolare” sui mercati, il capitale non può più valorizzarsi. Sovrapproduzione e sottoconsumo si relazionano strettamente fra di loro a seguito della diminuzione del saggio di profitto; anche se il saggio del plusvalore, come massa, aumenta, la diminuzione del lavoro vivo porta poi ad una decrescita del saggio del profitto.

Diminuisce l’uso della forza-lavoro e quindi il suo sfruttamento

Già qualche decina di anni fa, le statistiche ci informavano che sulla base della medesima quantità di merci prodotta precedentemente, la forza-lavoro dei vari settori merceologici era diminuita di oltre la metà! Il “fenomeno” è continuato, e si è aggravato con il “ristagno” della stessa produzione di merci. Questo perché – come scriveva Marx – la massa dei prodotti (nella forma di merci) è aumentata enormemente entrando in conflitto con “le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche”. Lapidarie le conclusioni:

Vengono prodotte troppe merci, perché il valore e il plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti alla produzione capitalistica, ossia perché questo processo possa compiersi senza che si verifichino continue esplosioni.

Marx, Il capitale, Libro III

Ecco – in soldoni! – la caduta del saggio di profitto!

Programmare il mercato

Occorre – ecco i “riformatori” – programmare l’economia (capitalistica): una questione che sarebbe di esclusiva “volontà politica”, fingendo sempre di ignorare che ampliamenti della base produttiva e sviluppo delle forze produttive sociali entrano in conflitto con il fine ristretto della valorizzazione e accumulazione del capitale.

La pretesa di cavalcare le “regole del mercato” è vincolata dai meccanismi fondamentali, necessari (perfino ricondotti a… principi etici che tengono in vita il capitalismo. Dopo la “svolta” socialdemocratica del programma di Bad Godesberg, approvato dalla SPD nel 1959, e abbandonando ogni riferimento al marxismo – roba d’altri tempi! –, ci si affidava al bagaglio dell'etica cristiana, umanesimo e filosofia classica”; seguiva un abbraccio al riformismo democratico nel rispetto dei principi sui quali si basa la concorrenza e si regola il mercato.

La foglia di fico era quella di un impegno sociale e interventista in economia, con

efficaci controlli pubblici per impedire gli abusi del potere economico. La proprietà privata dei mezzi di produzione ha diritto di essere difesa nella misura in cui non intralci lo sviluppo di un equilibrato ordinamento sociale. La concorrenza condotta mediante imprese pubbliche è un mezzo decisivo per prevenire un predominio privato sul mercato; la proprietà collettiva è una forma legittima di pubblico controllo a cui nessuno Stato moderno rinuncia. Essa serve a preservare la libertà dallo strapotere delle grandi concentrazioni economiche.

Programma di Bad Godesberg: sembra di leggere la italica Costituzione…

Controlli democratici del mercato

Tutti suonano il medesimo spartito musicale: lo conosciamo a memoria da quasi un secolo: si rimane tra i vincoli del mercato, con l’illusione di poter soddisfare bisogni e diritti del “popolo”. Uno stalinista come fu l’economista Barca scriveva, ai tempi del Pci, che ciò era possibile “come sbocco pagante del processo di produzione e accumulazione”. Dimenticandosi di aggiungere: “del capitalismo”. Qui si commuovono i nostalgici dei bei tempi (per loro) in cui si svolgevano le battaglie (?) dei “nazional-comunisti” in difesa della concorrenza privata contro i monopoli; più tardi (1956) impegnati con le parole d’ordine di un “controllo democratico sui monopoli”; poi (1962 e 1976) con la “programmazione attraverso il mercato”, guardando all’obiettivo del “socialismo di mercato”!

I sopravvissuti di quella nefasta congrega interclassista, recriminano ancora oggi il mancato “impegno costante nel coniugare insieme mercato e dimensione democratica della politica e dello Stato”… Il binomio socialismo-mercato è irrinunciabile…

Persino un Togliatti (soprannominato dai suoi discepoli il Migliore), in evidente difficoltà tentò una distinzione… cercando di confondere ulteriormente le idee: fu nell’immediato secondo dopoguerra, ed almeno fino al diretto contrapporsi Usa-Urss. E ad alcune di queste “divagazioni” si opposero persini socialisti e azionisti, temendo di sconfinare nel “liberismo”.

Comunque il mercato era, ed è, per tutti il luogo dove la “domanda” renderebbe possibile l’unione tra produzione e bisogni; basterebbero pochi “stimoli e verifiche” (e qualche “sanzione”) per renderlo il meccanismo adatto a garantire la competizione industriale, sia nazionale sia internazionale. Oltre – si dice – al “libero manifestarsi delle variabili”… Sono, anche queste, parole di quel Barca sopracitato (e ai suoi tempi stimato e apprezzato membro della Segreteria del Pci, parlamentare per ben 7 legislature e presidente dell’Associazione “Etica ed economia”). E se più tardi qualcuno parlò di un errore l’aver sostenuto la “identificazione tra capitalismo e mercato”, fu solo per rimarcare che “l’accesso al mercato” non sarebbe stato giustamente valorizzato!

Non ci inventiamo nulla: abbiamo seguito i ragionamenti di un Barca, raccolti in un saggio del 1997, Da Smith con simpatia, che lo vedeva impegnato nel sostenere un “generale ripensamento delle regole del mercato e delle condizioni necessarie per coniugare insieme mercato e dimensione democratica della politica dello Stato”. Insomma, il mercato (stabilendo un “corretto funzionamento dei suoi meccanismi”…) andava considerato come il “necessario referente dell’economia”. Capitalismo e socialismo “pari sono”… e il secondo rivendicherebbe il “diritto di accesso al mercato”, solo reclamando “regole di trasparenza, di concorrenza, di libertà di accesso, per coniugarlo con una dimensione democratica della politica e dello Stato”. Rispetto assoluto per i meccanismi di mercato: ecco il socialismo di marca stalinista, ieri, e cinese, oggi…

Potremmo continuare nel commentare criticamente quelli che erano (e sono) presentati come “elementi di socialismo”,_ da intendersi quali “un arricchimento del mercato” e sempre “in relazione ad una offerta di merci e servizi di tipo privatistici”. Una economia, privata o “pubblica”, che ha (con un suo riconoscimento ufficiale) “due referenti, il mercato (aperto) e lo Stato (democratico)” i quali operano attraverso di esso con la maschera di una “comunità che con la domanda (denaro alla mano – ndr) crea mercato”. In parole povere, si tratterebbe di “scelte politiche” alle quali si impone la “verifica di economicità attraverso il mercato”, ovvero pareggio di entrate ed uscite delle “operazioni”, oltre la panacea del volontarismo, fondazioni “no-profit” (spesso ben mascherate), servizi sociali obbligatori, ecc.

Un solo obiettivo: “Plasmare le forze del mercato” per… “promuovere la crescita”!

Le colpe sono tutte della finanza?

Riconfermata la… necessaria presenza del mercato – continuiamo a leggere fra i pensieri e i bla-bla-bla borghesi, che se il capitale ha una colpa, essa sarebbe quella di “un progressivo allontanamento dei suoi centri di comando dal lavoro e dalle sedi in cui esso si svolge”, lasciandosi irretire nella finanziarizzazione dell’economia. Sono i giudizi espressi da un quotidiano che si definisce “comunista” (il Manifesto) nel tentativo di spiegarci un “errore” imputabile al capitalismo e che avrebbe costretto Stati e governi a farsi complici della “trasmigrazione del potere dell’economia reale alla finanza”. Chi scrive simili… divagazioni si domanda poi dove si vada a finire, dal momento che sia una politica espansiva che una restrittiva portano entrambe in un vicolo cieco anche la stessa finanziarizzazione.

Infatti, la “compressione dei redditi da lavoro” (ma perché non li chiamano per quello che sono, cioè salari?) riduce la domanda (in denaro) di merci. Il mercato va in tilt e la produzione capitalistica si “deprime”. D’altra parte, aumentando i salari si comprimerebbero i profitti, senza parlare della forte concorrenza sul mercato globale. Come trovare un equilibrio tra queste spinte contrapposte?

Il “quotidiano comunista” sopra indicato è piuttosto incerto sul da farsi, a parte il non chiedersi neppure marginalmente il perché si arrivi a questo blocco tanto materiale quanto… mentale. Ma ecco spuntare la “alternativa radicale al potere della finanza”, con lo “studiare i problemi connessi”… Già, ma poi con “quali strumenti e conseguenze si possono affrontare situazioni estreme”? Si potrebbe ricorrere ad un prelievo (1% ?) sulle transazioni finanziarie oppure qualche tassa in più su “redditi e patrimoni dei ricchi” e una “redistribuzione della spesa pubblica”. La “cautela” delle proposte è più che evidente; qualunque intervento ha da essere “democratico”, dopo un appropriato dibattito dal quale – sempre… democraticamente – sia escluso chi osa mettere anche solo in discussione il presente stato di cose!

Mantenere in vita il capitalismo

Fra gli ammessi nei salotti del dialogo “democratico”, c’è un Landini (oggi alla testa della CGIL) il quale chiedeva – tempo fa in una intervista a Repubblica – che si facesse ogni sforzo affinché l’economia (capitalista!) potesse crescere e diffondere “prosperità”. E indicava “un piano straordinario di investimenti pubblici e privati” per rilanciare i consumi di merci. Fermo restando il loro “ruolo positivo” che li renderebbe “credibili” realizzando nuovo valore per mantenere in vita il capitalismo! É lo schema funzionale obbligato: se si inceppa (per la scarsità di plusvalore realizzato!) entra in crisi la speranza nella mitica crescita del sistema attraverso i cicli di valorizzazione del capitale. Se poi arriva anche il corona-virus, allora si salvi chi può! Una coesistenza del capitalismo con una epidemia globale come quella in corso, rischia un tracollo storico per questo modo di produzione e distribuzione (a pagamento)!

Reclamando “piena occupazione, salari dignitosi e diritti dei lavoratori”, Landini e soci raccontavano – già prima dell’epidemia – che il crollo degli investimenti, in corso da anni, fosse dovuto a scelte politiche sbagliate. E ti pareva! Chiedevano quindi al capitale di convertirsi a comportamenti di “libertà, fraternità ed eguaglianza” e invocavano una “riforma fiscale” (con tasse giuste e ben equilibrate…) in grado di avviare “un’ottima politica di progresso sociale”, senza costringere i “grandi capitali a migrare su conti esteri e le imprese a trasferire la propria sede fiscale”! Così, accarezzando i portafogli dei borghesi, si respingeva persino una patrimoniale che correva il rischio – diceva Landini – di colpire le piccole proprietà e “schiacciare la classe media nel bel mezzo della crisi”... Oltre – udite, udite – a colpire i “redditi di quei lavoratori dipendenti che hanno stipendi non da fame”. (C’è poi chi, a proposito dei patrimoni immobiliari, tira in ballo la inattendibilità dei valori catastali e le precedenti eredità familiari: insomma sembrerebbe più facile e sbrigativo organizzare una rivoluzione sociale che non “dare ai poveri per ricevere da Dio”…!).

Dunque, quello che si reclamava alla vigilia del collasso epidemico, altro non era che una blanda forma fiscale degna di questo nome”. Inchinandosi di fronte a compatibilità che condannano i lavoratori ad allontanarsi dalla propria emancipazione politica ed economica, indispensabile per liberarsi dagli artigli del capitale. Ad assisterli e confortarli in questa valle di lacrime, non manca poi chi fa loro rimpiangere (?) i tempi trascorsi al seguito di un “sindacato conflittuale e di una sinistra di classe organizzata”. Quindi si dovrebbero compiere altri passi politici (all’indietro!), con un blando rivendicazionismo a parole ma non nei fatti, per altro impossibili nel quadro di questa realtà capitalistica e delle contraddizioni che si sviluppano in essa. Vanno invece abbattute – diciamo noi – ma per questo bisogna cominciare ad uscire da tutto ciò che si pretende di conciliare con l’esistenza e il dominio del capitale, delle sue categorie e leggi di movimento.

Le cosiddette “nuove sinistre” si riempiono la bocca di appelli a un riscatto popolare capeggiato da un fronte democratico delle moltitudini dei cittadini europei. In testa personaggi (come un A. Negri e – fino a ieri – Sryza e soci di Podemos) che si aggrappano a conferenze sul debito per la costituzione di un sistema di solidarietà, nuovi criteri di misurazione e cooperazione fiscali e immancabili politiche del lavoro (rigorosamente salariato nonché produttivo di abbondante plusvalore). Il tutto in un “democratico” clima politico-sociale di libertà, eguaglianza e solidarietà.

Per tutti costoro non c’è alternativa alla figura di un homo oeconomicus un poco più generoso (si potrebbe dire quasi “filantropo”…) e partecipe ad un “dialogo costituzionale per il controllo sul vertice monetario e politico dell’Europa”. L’obiettivo di un tale “dinamismo sociale” sarebbe quello di “emancipare i cittadini dalla povertà”… Per chi fosse dubbioso di un simile programma, lo si dovrebbe far sperare che soltanto un “sistema di controllo e/o di comando sulle strutture produttive e finanziarie dell’Europa stessa” possa “riformare e superare il capitalismo”… Un piccolo cabotaggio riformistico guidato da faccendieri politici a servizio del capitale.

Un quadro allarmante

Che il quadro generale dell’economia sia più che allarmante per la stessa borghesia è evidente, al punto che gli “economisti seri” (?) già prima del coronavirus prevedevano il peggioramento di una “recessione” ormai persistente, con costi enormi e una “pericolosa degenerazione” del tessuto sociale. Qualcuno torna a rispolverare l'intervento statale che miracolosamente dovrebbe creare occupazione sostituendosi al mercato. Sempre con qualche colpo di bacchetta magica che dia vigore a miracolose “misure consistenti e stabili”…

Alcuni (addirittura in abiti “antagonisti”) giungono ad argomentare che meglio sarebbe scartare una ipotesi di investimenti in opere pubbliche (un’alta intensità di capitale senza un sicuro business…) per passare invece ad altri lavori “socialmente utili”, sì, ma per ragioni clientelari e di portafoglio. Inoltre – si aggiunge – attenzione a non turbare il mercato del lavoro con una “indebita concorrenza” che avrebbe effetti “distorsivi” sulla ordinaria occupazione (e disoccupazione): le assunzioni dei lavoratori, in questi casi, dovrebbero riguardare solo il settore degli investimenti a fondo perso: già, quelli che il capitale poi disdegna e fugge per mancanza di adeguati profitti!

Altri geniali pensatori avanzano il timore che, riducendo troppo la disoccupazione, si finisca col rendere meno flessibile il mercato del lavoro penalizzando altre pur necessarie riduzioni del costo del lavoro e del ripristino di competitività internazionale? Nel complesso, si tratterebbe comunque – dicono – di misure valide solo per un periodo di emergenza, dopo di che interverrà il mercato, cioè proprio la fonte della espulsione di milioni di proletari; un mercato che dovrebbe tornare “in grado (ma quando mai? – ndr) di garantire un livello soddisfacente di occupazione”. Avanti, dunque, per l’equità dei redditi… e il benessere delle persone!

E mentre si blatera attorno ad astratti obiettivi di una giustizia sociale (sostenibile), il vero e concreto obiettivo – senza il quale il capitalismo si accartoccia su se stesso – rimane quello della crescita dei valori monetari prodotti. La crescita consumistica sarebbe la condizione di sopravvivenza del sistema capitalistico e sempre ad essa si torna. L’imposizione della crescita, dello sviluppo, è quindi un sacrosanto obiettivo per tutti (…sindacati compresi!): occhi puntati su indici di borsa, crescita del Pil, rating, spread, eccetera. Prosegue così una costante mercificazione della vita (e dell'ambiente naturale), con la più ricca borghesia istupidita nel gioco perverso del denaro che compra denaro e che si illude di guadagnare altro denaro.

Le speculazioni dell’homo oeconomicus

Ed eccoci nuovamente alla vita dell’homo oeconomicus: una speculazione continua, nel mondo finanziario come in quello industriale. Tornano i ricordi del crack di Wall Street nel 1929, i junk bonds americani, la bolla immobiliare giapponese negli anni ’80 e l’ondata speculativa nel mercato dei titoli tecnologici (fine degli anni ’90). Lungo questi esplosivi sentieri, il capitale ha camminato, zoppicando, trascinando masse enormi di denaro, stretto nella tenaglia delle “fondamentali economiche” del capitalismo.

Da quando (fine agosto del 2020) la FED ha annunciato una “revisione strategica” delle sue politiche monetarie, la scena “economica” è scossa da volatilità e incertezza. Franata la “stabilità finanziaria”, coordinamenti promessi e normalizzazioni sono scomparsi e disperatamente (ma altro non possono fare) si tenta di evitare esplosioni di insolvenze pubbliche e private. Quindi, avanti con la stampa di pacchi di carta-moneta, con la chimerica speranza di evitare una crisi finanziaria che avanza. E intanto, dopo i crolli del 2008 prosegue la discesa dei tassi di interesse, fattisi addirittura negativi, mentre gli aumenti della liquidità – da tutti invocati – hanno portato le Banche a riempirsi di titoli pubblici e obbligazioni varie, poi ritirati dalla BCE per il “quantitative easing”. Il colpo di grazia è arrivato con il coronavirus che ha fatto della espansione monetaria uno… specchietto per le allodole!

Nel frattempo ci dicono che i bilanci della BCE e della FED negli ultimi dieci anni hanno triplicato la dimensione in rapporto sia al Pil dell'Eurozona sia degli USA. Una espansione che potrebbe generare – finalmente!, applaudono certi “economisti” – una improvvisa forte inflazione. Gli armonizzatori del capitalismo, temendo il diffondersi di destabilizzazioni, vedrebbero con favore una “normalizzazione” delle politiche monetarie in modo coordinato internazionalmente: non si capisce mai bene se ci fanno o se ci sono… Ed insistono nel chiedere un’azione graduale, e coordinata internazionalmente, per elevare i requisiti di capitale delle banche anche a fronte di impieghi normalmente considerati non rischiosi, come la detenzione di titoli di Stato, estendendoli a intermediari non bancari e limitando anche il grado di indebitamento delle imprese che prendono a prestito. Si tratterebbe insomma di sostenere l’agonizzante sistema, migliorando le regole del governo societario in modo da difendere gli interessi dei piccoli e medi azionisti. Il “mondo del lavoro” dovrebbe applaudire interpretando il tutto – molto democraticamente… – come un riequilibrio della distribuzione dei redditi e delle ricchezze!

Sullo stesso piano critico e… programmatico, si è presentato al pubblico il nuovo presidente confindustriale invocando una “azione comune” e aprendosi al dialogo (anche lui!), ma solo per le partite-chiave, quelle con cui il capitale si illude di sopravvivere. Dunque, rilanciare il piano “Impresa 4.0” agevolando gli investimenti nella digitalizzazione delle aziende. Seguiranno – non lo dice ma saranno inevitabili – tutta una serie di “ridimensionamenti” che si tradurranno in ulteriori licenziamenti. Le tecnologie innovative sono obbligate per rendere le imprese sempre più competitive…

Una serie di tentativi disperati per sostenere una situazione economica che si aggrava di giorno in giorno e costringe il capitale ad aggrapparsi a spericolati azzardi speculativi, mentre crescono i disordini valutari che comportano gravi conseguenze specie nei Paesi più deboli.

Al tavolo, sempre meno imbandito, degli interessi capitalistici, una sedia vuota è al momento quella dell’inflazione: nonostante il desiderio di vederla occupata (vista la quantità di moneta e di credito in circolazione nell’ultimo decennio), i tassi d’inflazione sono bassi. Il fatto preoccupante è quello che – in un caso o nell’altro – ci sono dei percorsi obbligati quantomeno per evitare che il palazzo crolli immediatamente, questa volta per una scarsa liquidità e quindi per l’insolvenza sia di debitori privati, banche comprese, e sia pubblici. Quindi, si stampa moneta e si abbassano i tassi soprattutto per evitare crisi finanziarie con effetti collaterali, negativi e inevitabili. Oltretutto, la maggior parte dei debitori sono poco “produttivi” (o non lo sono del tutto) e quindi il sistema non li può sostenere a lungo. Figurarsi poi se si dovessero aumentare – come qualcuno chiede – i tassi di interesse: le conseguenze, visti i deficit strutturali esistenti, sarebbero tali da sconvolgere ogni parvenza di solvibilità di banche, imprese e governi. Sarebbe la catastrofe.

Nubi tempestose all’orizzonte

Gli indebitamenti dell’economia mondiale stanno raggiungendo picchi pericolosi, tali da far tremare i polsi alla borghesia di tutto il mondo (Cina compresa…). Gli “addetti ai lavori” che assistono il capitale in lenta agonia, si preoccupano di fronte ad una produzione industriale in evidente crollo. Tutti reclamano immediati “interventi di politica economica”, proponendo una governance multilaterale degli scambi di merci. C’è chi chiama tutto ciò (compreso un “ampio piano di investimento dei capitali”…) il passaggio ad una forma di capitalismo “socializzato”! Naturalmente al seguito di “politiche economiche espansive” che dovrebbero garantire una sana competizione di mercato, compreso quello del lavoro…

La terza rivoluzione industriale (microelettronica, informatica, digitalizzazione) ha abbassato i livelli occupazionali e sta per essere seguita dalla quarta (intelligenza artificiale), approfondendo un processo distruttivo della essenza del valore (il lavoro vivo). La crescita dell’automazione comporta – col capitalismo – una crescita esponenziale della disoccupazione (e sottoccupazione) tecnologica, condannando così l’economia reale a una inarrestabile crisi di profitto. É fondamentale per l’esistenza del capitale, per il rafforzamento dei suoi rapporti sociali (socializzazione degli uomini con la compravendita della loro forza-lavoro). Il denaro fa da mediatore istituzionalizzato per acquistare il lavoro che dovrà poi produrre maggior valore da tradurre in altro denaro, e così via all’infinito. Ad una condizione: che il denaro diventi capitale, ma per questo è necessario che possa appropriarsi costantemente di tempo di lavoro (pluslavoro e quindi plusvalore) strappato agli operai salariati che producono merci. Se il numero di questi diminuisce, nonostante aumenti la produttività, il saggio di profitto calerà ulteriormente; non solo, ma anche la domanda-acquisto di merci si deprimerà maggiormente. La tecnologia avanzante rende superfluo una gran parte del lavoro salariato di massa e finisce con il “turbare” la sostenibilità dell’attuale formazione sociale.

Scienza e tecnologia hanno ridimensionato quella produzione industriale di massa che si sviluppò ai tempi del fordismo. Ridimensionatosi il lavoro salariato sulle catene di montaggio (con l’avanzare di microelettronica e digitalizzazione), il capitale fittizio si è illuso di fare da motore di valorizzazione, col risultato di gonfiare le speculazioni finanziarie e far perdere valore al denaro stesso. La produzione capitalistica elimina gran parte del lavoro umano indispensabile per valorizzare il capitale. É costretto a farlo per restare competitivo sui mercati internazionali, con l’illusione di contrastare una caduta persistente del saggio medio di profitto. Magari richiamando lo Stato ad una delle sue principali funzioni, cioè assecondare la competizione di mercato.

Le rivoluzioni industriali

Il capitalismo finanziario si affanna a “creare” rappresentazioni di un denaro senza valore reale; lo otterrebbe per una magica virtù, proprio quando sta crollando quel rapporto sociale che fa del lavoro salariato la sola condizione per mantenere in vita il capitale, fornendogli il plusvalore come suo ossigeno fondamentale.

La crisi del capitalismo, accelerata dall’epidemia virale, va sempre più maturando quelle che già Marx riteneva le condizioni materiali necessarie perché “nuovi e superiori rapporti di produzione” possano sostituirsi a quelli precedenti, facendo così emergere una diversa formazione sociale. Quasi, scriveva, come se questo sviluppo della formazione economica della società si possa paragonare ad un “processo di storia naturale”. Chiaramente non si tratta di una evoluzione da intendersi meccanicamente, attuabile dalla sera alla mattina: intervengono complesse dinamiche storiche, a loro volta influenzate dallo scontro di tutta una serie di elementi oggettivi che trascinano con sé anche interpretazioni ideologiche soggettive le quali vanno ad ostacolare la complessa realtà che le ha originate e alimentate.

La condizione per il concretizzarsi di un salto rivoluzionario rimane pur sempre quella di una ripresa della lotta di classe, con il formarsi di una salda organizzazione politica, indispensabile affinché alle condizioni oggettive si accompagnino quelle soggettive, a cui il partito fa da guida. La guida, dunque, di una avanguardia che sappia smascherare ogni lusinga riformatrice che piega alle logiche e agli interessi del capitale le masse proletarie confuse nel “popolo”. Uno dei principali compiti del partito è quello non di sostituire la classe proletaria bensì aiutarla a concretizzare – sviluppandola – una coscienza di classe per sé, rompendo quella gabbia ideologica nella quale il proletariato è stato rinchiuso dalla borghesia. Persino la maggior parte di alcune avanguardie subiscono il dominio degli interessi e logiche del capitale. Solo il concretizzarsi di un intervento rivoluzionario potrà definitivamente aprire le porte ad una nuova società di uomini liberi ed eguali, assicurando per tutti condizioni di vita umane e non più – per molti di loro – bestiali.

Prima, durante e dopo il corona-virus

La sopraggiunta esplosione epidemica del coronavirus ha letteralmente gettato nello sconforto il “pensiero economico” dell’intellighenzia borghese, che già da tempo si agitava in un vero e proprio letto di spine cercando di spiegare e sbrogliare uno dei tanti nodi che si stringono al collo del capitale, soffocandolo. Dalla sera alla mattina si è del tutto dissolta la effimera speranza di poter “far crescere il Paese”, magari riuscendo a consolidare un... miglior rapporto fra capitale e lavoro: “equo, sostenibile, amico dei salari, dei consumi e della crescita”... E mentre i gestori del capitale soffiano nei loro pifferi uno stonato ritornello tranquillizzante, si diffondono “ufficialmente” i dati riguardanti i derivati sulle commodities – come il grano, il petrolio, l'oro, ecc. – in migliaia di miliardi di dollari. Chiaramente si tratta di pericolose manovre speculative, agenti sull'andamento dei prezzi: già l’anno scorso (2019) i futures sul petrolio, che muovono centinaia di “barili virtuali” rispetto ad un barile reale di greggio, avevano determinato le impennate del prezzo della benzina al di fuori di marginali influenze del mercato. Poi i prezzi precipitarono in basso, causa la crisi già in atto e complici anche le manovre degli hedge funds e dei  Cta (Commodity Trading Advisors, fondi petroliferi).

La conclusione è la solita: il capitale, nel suo movimento contraddittorio (il capitale è “la contraddizione vivente” – Marx), approfondisce il baratro della crisi, invano aggrappandosi ad illusioni salvifiche basate su politiche monetarie.

Nodi che si aggrovigliano

Il bel mondo accademico, tanto quello raccolto attorno alla scuola neoclassica quanto quello che affolla i corridoi dei collegi keynesiani, alza la bandierina del mainstream macroeconomico, cercando di puntellare teoricamente una governance economica praticamente allo sbando. Da decenni alla ricerca di un qualche paradigma al quale aggrapparsi. L’idealismo si aggira tra le rovine di “teoremi fondamentali” che durano lo spazio di un mattino, lasciando attonite le schiere degli “scienziati-economisti” e le “sfere etiche” nelle quali svolazzano traendone fantasiose (e sofferte) ispirazioni. Il “concetto etico” dominante resta quello del massimo profitto da difendere ad ogni costo, scopo di vita o morte per il capitale.

Certamente, tutelare i “diritti di proprietà” e contemporaneamente la “libertà economica” (magari eliminando le “rigidità” del mercato del lavoro…), nella ricerca di “equilibri efficienti”, è una impresa impossibile. Gli studiosi dei rimedi adatti a riparare le imperfezioni del sistema (considerandole “eliminabili accidenti storici”…) hanno ipotizzato ed anche sperimentato correttivi di vario genere. Molto si è puntato sui comportamenti degli imprenditori nel domare quegli “spiriti animali” che scorrazzano sia in campo economico che finanziario.

Uno di loro, il baronetto Keynes, non poteva che prendere atto dei “fallimenti del mercato”, guardando al “rimedio” di un intervento pubblico. Sostenendo la domanda aggregata (politiche fiscali, spesa pubblica in aiuto a quella privata) si sperava in un aumento della produzione di merci, dell’occupazione e del reddito dei cittadini. Chiaramente, Keynes non intendeva solo salvare il capitalismo da una crisi che rischiava di portarlo ad un crollo finale, bensì farlo funzionare al meglio attraverso un intervento dello Stato per una “socializzazione degli investimenti di capitale”. Dopo di che, sarebbe bastato dirigere l’andamento dello sviluppo attraverso una razionale imposizione fiscale, i tassi di interesse, ecc. E poiché se i “redditi” ristagnano, anche la produzione di merci si affloscia, Keynes ripiegò su un ruolo fondamentale da far giocare alla “domanda aggregata”. Doveva essere il toccasana provvidenziale, ed invece diventò un altro peso morto che affogherà il capitalismo.

Cresceva intanto il generale piagnisteo (oggi ripreso a furor di… popolo) sulla “assenza di qualsiasi cultura della produttività” di merci, la quale aumentando avrebbe potuto favorire (?) i poveri – lo si racconta pure ai giorni nostri – nonostante i loro vuoti portafogli. Insomma, basterebbe correggere le “scelte politiche” sbagliate…

Qui va subito detto che finché dominano le “regole del gioco” imposte dall’esistenza del capitale coi suoi bisogni e interessi, nessuna proposta di un qualsivoglia intervento potrà in alcun modo cambiare un fenomeno – quello della miseria crescente – che sta assumendo dimensioni sempre più dirompenti. E vanno pure rimarcati i limiti dei modelli neoclassici di previsioni di crescita economica, dove la strutturazione economica dovrebbe trovare l’adattamento all’introduzione di avanzate tecnologie. Ciò richiederebbe un migliore assetto operativo, riguardante sia il prodotto (merci di ogni tipo e quantità) sia l’occupazione, per altro sempre più flessibilizzata e precaria. Ma uno sguardo – pur in estrema sintesi – sull’ultimo mezzo secolo di storia del capitalismo, ci mostra la illusorietà di tali prospettive.

Esperienze fallimentari

La storia delle politiche monetarie, che la borghesia ritiene quasi fondamentali, è nota dai tempi di Bretton Woods, cioè dagli accordi basati su un regime di cambi fissi che dava al dollaro il ruolo di valuta di riserva internazionale, convertibile in oro con un cambio fisso. Poi, nel 1971, subentrò una “fluttuazione sporca”, con interventi sul mercato dei cambi a sostegno di alcune valute nazionali. Si introdusse un regime monetario “fiat” (così sia…) senza limite alle emissioni di moneta. Il capitale cercava di liberarsi, invano, dei lacci e lacciuoli delle monete contingentate con i valori delle merci prodotte. Valori che cominciavano ad essere in caduta…

Produrre in continuazione merci è l’imperativo dei maggiori paesi capitalistici. Un po’ meno per quelli “periferici”, stretti nelle spire dell’imperialismo americano, russo e oggi cinese (Medio Oriente e Sud-Est asiatico). L’inflazione divenne però, negli anni ’70-‘80, preoccupante; il movimento operaio era scosso dal diffondersi di proteste sindacali e lotte per migliorare salari e condizioni di lavoro, mentre la crisi petrolifera del 1973 riduceva il potere d’acquisto dei salari, colpevolizzati come causa (non conseguenza!) dell’aumento dei prezzi delle merci. Il blocco dei salari faceva seguito al riproporsi di ideologie monetariste, mettendo da parte il mito della piena occupazione: meglio era ammettere un “tasso naturale e inevitabile di disoccupazione”!

In Italia, a salire in cattedra fu la volta dell’economista Modigliani, futuro premio Nobel, contrario ad ogni indicizzazione dei salari al seguito dell’inflazione, anzi favorevole ad una riduzione degli stessi (blocco della scala mobile). Circolavano tesi monetariste-neoliberiste, che il CESPE (Centro Studi di Politica Economica) ed il Pci fecero proprie per aiutare la profittabilità, in iniziale crisi, delle imprese...

Già nella prima metà degli Anni ‘80 cominciò una massiccia diffusione di Ict (Information and Communication Technology). Con l’era dei computer, le statistiche sulla produttività del lavoro cominciarono a segnalare gli effetti definiti “positivi” dei tagli ai posti di lavoro. Il processo “innovativo” faceva crescere la produttività industriale. Ma presto all’aumento del plusvalore relativo faceva seguito un aumento della composizione organica del capitale investito; il saggio di profitto calava nonostante (lo dichiarano ufficialmente, fra gli anni ’80 del secolo scorso e il 2007) i salari siano scesi di 10/15 punti percentuali nei paesi “avanzati”.

Gli sbandamenti della politica monetaria

Invano, gli Usa tentarono di rafforzare il dollaro con una politica monetaria restrittiva (alti tassi di interesse), ma crescendo il disavanzo commerciale con l’estero, si adottarono alcune misure protezionistiche. E crescevano i debiti, pubblici e privati, e gli intrallazzi finanziari: già nel 1970 “il valore complessivo delle attività finanziarie a livello mondiale era grosso modo equivalente al Pil mondiale” (Società di consulenza Mc Kinsey). Poi salirà a vertici impressionanti, coi debiti a centinaia di miliardi di dollari: uno spaventoso, mostruoso, accumulo di denaro che dovrà essere, presto o tardi, restituito.

I debiti stringono il capitalismo in una morsa mortale

Tassi bassi e dollaro debole spingono in alto l’indebitamento dei Paesi più deboli, con un record nominale di oltre 72 mila mld di dollari (8.300 mld di valuta estera). Quanto al debito USA, escluso il settore finanziario, siamo al 187% del Pil. Una catasta di bond che presto andranno in scadenza e saranno da rifinanziare per un controvalore di almeno 20mila miliardi di dollari, di cui il 30% nell’area dei Paesi emergenti (soprattutto India e Brasile), oltre alla Cina.

I capitalisti in coro, privati e pubblici – ora alle prese con l’attacco del coronavirus – reclamano “attività più efficienti” ed a maggiore intensità tecnologica (sempre con minore impiego di manodopera). Poi raccontano di voler “creare” nuovi e abbondanti posti di lavoro salariato! Intanto, ci si libera degli “esuberi” per ottenere… crescita economica ed occupazione!

Pochi milioni di super-ricchi e miliardi di indigenti

Si assiste da anni ad una inaudita concentrazione di ricchezza, saldamente stretta nelle mani di una minoranza di individui e di famiglie. Negli scarsi dati che circolano, non sono calcolati per altro i capital gains (incrementi di valore patrimoniale dei titoli posseduti). Questo mentre masse di proletariato (e strati di piccola borghesia) vengono drogati nell’attesa di un miracoloso avvento di “politiche redistributive” (non certamente, però,_ delle ricchezze in mano alla borghesia). Le diseguaglianze sarebbero persino “giuste”, altrimenti si metterebbe a repentaglio una “crescita” la quale, ci raccontano, proprio da certe disuguaglianze verrebbe resa possibile… sotto le bandiere, sdrucite, del “benessere per tutti”.

In effetti, gli scenari mostrano il precipitare di una crescente instabilità economica (e quindi politica) che si è diffusa nel mondo capitalista. Tutte le maggiori e minori potenze, nel mondo intero, sono alle prese con situazioni e condizioni allarmanti, aggravate giorno dopo giorno dal diffondersi della pandemia.

Gli obiettivi del capitale, di fronte alla crisi, sono quelli di comprimere quanto più sia possibile le condizioni di vita (economiche, politiche, sociali) delle masse proletarie, paradossalmente costretto a ridurre le stesse vendite di merci che si dovrebbero produrre in quantità sempre più esorbitanti nel tentativo di compensare la inesorabile discesa dei saggi di profitto.

Lo spettacolo, quello offertoci dalle opposizioni di “sinistra” in campo politico e sindacale (con le dovute “distanze sanitarie”…), è certamente fra i più osceni. D’altra parte, nessuno di loro, attori e comparse, potrebbe mai rivoltare una frittata che sta diventando indigesta per tutti. Neppure si vuol “disturbare” questo sempre più assurdo modo di produrre e distribuire, giunto al suo capolinea storico e sgretolandosi nella cornice di un imbarbarimento sociale presentato come “convivenza civile”. Apparentemente e faticosamente sostenuta da piccole dosi di droghe “assistenziali”, mentre nei settori della istruzione pubblica, assistenza sanitaria, ecc., si aprono crepe che si pretenderebbe eliminare coi cosiddetti “equilibri fiscali”. Era il più “bel mondo” possibile (da “fine della storia”, ricordate?), con il crollo di quello che era stato spacciato per un “paese comunista”. Ed ora tutti assieme stiamo soffocando, coronavirus a parte, stretti fra le spire di un mostruoso e gigantesco vampiro:

Il capitale è lavoro morto che resuscita, come un vampiro, solo succhiando lavoro vivo, e tanto più vive quanto più ne succhia.

Marx, Il Capitale, libro primo, cap. 8
DC
Domenica, July 11, 2021

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.