Lo Stato nell’epoca del capitalismo monopolistico

Immagine - La proclamazione dell’Impero Germanico a Versailles

Cenni sulla teoria marxista dello Stato

Lo Stato dunque non è affatto una potenza imposta alla società dall’esterno e nemmeno “la realtà etica dell’idea”, “l’immagine e la realtà della ragione”, come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con sé stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente ad eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’ordine; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato. (1)

A ragione Lenin fa di questo passo di Engels il pilastro su cui costruire una delle sue opere più vive ed attuali, l’ormai classico “Stato e Rivoluzione”. Vi è infatti, in questa analisi di Engels il nocciolo dell’intera teoria marxista dello Stato. Lo Stato non è né il frutto dell’accordo fra i soggetti di una determinata comunità, come secondo le concezioni contrattualiste, ispirate da Rousseau, né qualcosa proveniente dall’esterno della società, ma il prodotto della particolare organizzazione sociale esistente in un dato momento. Lo Stato, indipendentemente dalle diverse forme che può assumere, anch’esse storicamente determinate, altro non è che lo strumento di cui si avvale la classe dominante per la difesa e la tutela del suo dominio e per la conservazione dei rapporti di produzione vigenti, che quel dominio rendono possibile.

Lo Stato -- scrive Lenin -- è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati. (2)

Sono gli interessi inconciliabili fra le classi che determinano l’esigenza di una macchina statale. Lo Stato non è organizzazione comune a tutte le società, esso è solo delle società divise in classi. Finché gli interessi economici dei componenti le società sono stati conciliabili fra loro, non si è sentita l’esigenza di questa parti-colare organizzazione.

Lo Stato non esiste dunque dall’eternità. Vi sono state società che ne hanno fatto a meno e che non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado dello sviluppo economico, necessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione, lo Stato è diventato necessità. (3)

Per il marxismo rivoluzionario, lo Stato esce da ogni astrattezza per configurarsi come una necessità; come il punto di approdo del lungo processo storico che ha portato gli uomini a modificare continuamente le loro forme di organizzazione sociali sotto la spinta incessante dello sviluppo delle forze produttive. A differenza degli intellettuali borghesi che li avevano preceduti, Marx ed Engels non elaborano una teoria dello Stato secondo ciò che “avrebbe dovuto essere”, ma analizzando “ciò che è”. La loro elaborazione muove dall’analisi dei processi storici ed economici della società e, solo dopo averne svelato le più intime contraddizioni, ne coglie la loro dinamica reale. L’oggetto dello studio non è questa o quella specifica realtà statale, ma il processo, il filo comune che ha condotto, ovunque, alla nascita della macchina statale.

Questo modo di indagare consente al marxismo di compiere un salto di qualità nell’interpretazione di uno dei fatti più caratterizzanti la società moderna. Lo Stato che appare come un qualcosa “al di sopra delle parti”; che pone a tutti uguali obblighi ed uguali doveri, che considera i cittadini tutti uguali, non meno dello Stato feudale che tale uguaglianza negava, riflette una precisa esigenza classista. Lo Stato borghese è, al pari di quelli che l’hanno preceduto, macchina di repressione e di dominio classista, poiché nella società borghese la divisione in classi della società è mutata, ma non è stata abolita. Esso si differenzia nettamente dallo Stato feudale laddove la nuova classe dominante esprime esigenze diverse dalla vecchia e solo in ciò. Il vecchio Stato è lo Stato odioso della gabella, dell’economia chiusa, della tutela dei “diritti divini” della nobiltà contro tutte le altre classi sociali ed in particolar modo contro i servi della gleba. Il nuovo è lo Stato del libero commercio. La proprietà, prima che terriera, è proprietà dei mezzi di produzione. I nuovi schiavi sono legati a questa proprietà da un rapporto di dipendenza affatto nuovo: dalla schiavitù del lavoro salariato.

Entrambe le macchine statali hanno come perno della loro azione la difesa delle rispettive forme di proprietà: là quella feudale, qui quella borghese. Laddove l’indagine borghese si arresta, appunto perché incapace a cogliere le relazioni dialettiche intercorrenti fra struttura e sovrastruttura, l’analisi marxista affonda la sua critica. Per Rousseau, che pure più d’ogni altro si era avvicinato alla soluzione della questione, la macchina statale resta un’esigenza per la sopravvivenza del genere umano ed il suo “contratto” più una speranza, un “ciò che dovrebbe essere”, che ciò che realmente è.

Trovare una forma di associazione -- egli scrive -- che difenda e protegga, per mezzo di tutta la forza comune, le persone e i beni di ogni associato, e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisce tuttavia che a sé stesso e resti libero come prima: ecco il problema fondamentale di cui il contratto sociale offre la soluzione. (4)

Ardua, impossibile soluzione. Una siffatta associazione è tutt’altra cosa che lo Stato, così come si è prodotto storicamente. Il fatto è che gli associati non sono uguali fra loro. Anzi proclamandone l’uguaglianza formale se ne sancisce la disuguaglianza reale. Si ha un bel che dire: “uguaglianza dei diritti” fra proprietari e non. Per i primi il diritto alla proprietà è già acquisito e con esso il potere economico che ne deriva. Per gli altri, per la maggioranza, resta una pura dichiarazione di principio. Essi potranno solo in via ipotetica acquisire tale diritto e lo potranno solo a titolo individuale per cui la maggioranza rimarrà comunque esclusa e il dato della realtà per cui la società risulta divisa in classi, non viene rimosso con la proclamazione di un principio di uguaglianza. Né viene rimosso il fatto che chi possiede i mezzi di produzione è più forte economicamente e quindi anche politicamente.

Lo Stato poiché è nato -- scrive Engels -- dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e per sfruttare la classe operaia. (5)

Non vi può essere dunque, parità nell’ambito dello Stato se non si rimuovono le cause reali della disuguaglianza. Il problema istituzionale non può prescindere da quello economico, da quello strutturale. Nelle carte costituzionali possono essere garantiti “uguaglianza” e “libertà” ad ogni rigo, ma la sostanza del potere statale permarrà di classe, almeno fino a quando continueranno ad esistere le classi sociali. D’altra parte già in Rousseau l’origine della disuguaglianza era sufficientemente chiara. Egli scriveva:

Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide per credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato avesse gridato ai suoi simili “guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!”. (6)

Ma nel filosofo illuminista l’obbiettivo della sua critica è soprattutto la proprietà feudale, pertanto - fra l’altro essendo privo degli strumenti di indagine appropriati - gli risulta impossibile andare oltre. La società borghese era al suo nascere e comprendere la natura deinuovi “piuoli” e “fossati” era impossibile, quando, ancora, altri piuoli reclamavano di essere strappati ed altri fossati di essere colmati. Ma se la comprensione della questione risultava inibita a Rousseau, come a tutti gli altri pensatori premarxisti, non poteva più esserlo dopo che i nuovi rapporti di produzione si fossero compiutamente manifestati e con essi i nuovi rapporti di classe.

Una volta individuati i meccanismi del nuovo dominio di classe, una volta che la storia avesse presentato con chiarezza i nuovi protagonisti, la vera natura della disuguaglianza e quindi dello Stato che ne è l’espressione, non poteva non essere colta compiutamente. E una volta compresa pienamente l’origine, la natura e la funzione repressiva della macchina statale anche la soluzione per il suo superamento si rese evidente.

Il proletariato -- continua Engels -- si impadronisce dello Stato e anzitutto trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. (7)

Si rompe cioè il meccanismo della disuguaglianza, soltanto se la classe antagonista a quella dominante infrange i rapporti di proprietà esistenti.

Il superamento della divisione in classi della società non potrà essere che il frutto di un processo storico, più o meno lungo, in cui la nuova classe dominante reprime ogni forma di proprietà privata, fino a sopprimerla definitivamente. Questo Stato, pur essendo classista, è però profondamente diverso da quello precedente. Innanzi tutto non è più lo strumento della borghesia, della minoranza, contro la maggioranza della società, ma il suo contrario. Non reprime più gli eventuali attacchi alla proprietà privata, ma opera per la sua abolizione. I suoi compiti repressivi permangono, ma ad essere repressa è la classe legata alla proprietà privata dei mezzi di produzione, la borghesia. Il proletariato si pone sì come nuova classe dominante che reprime un’altra classe, ma si tratta della repressione che esercita una classe che per realizzare i suoi fini ha bisogno di portare a compimento il processo di socializzazione dei mezzi di produzione e, quindi, di abolire ogni forma di proprietà. La gestione dei mezzi di produzione deve aver luogo in funzione degli interessi della collettività e non di una minoranza sfruttatrice. Ma così facendo lo stato viene modificato profondamente, anzi, è evidente che deve essere uno Stato affatto nuovo. Non è la vecchia macchina ad assolvere ai nuovi compiti, questa deve necessariamente, come dice Marx, essere spezzata e sostituita con una nuova.

Il proletariato che per realizzare i suoi obbiettivi storici, deve procedere negando la proprietà privata di produzione, procede negando le basi materiali della divisione in classi della società.

Ma così sopprime se stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di classe ed ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come Stato. La società esistita sinora, muoventesi sul piano degli antagonismi di classe aveva la necessità dello Stato, cioè di una organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo, per conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi specialmente per tenere con la forza la classe sfruttata nelle condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione (schiavitù, servitù della gleba, semi-servitù feudale, lavoro salariato). (8)

Finché permane una società divisa in classi lo Stato permane come macchina repressiva nelle mani della classe dominante. Lo stesso proletariato in tanto sopprime lo Stato, in quanto nega se stesso come classe e ciò perché la sua collocazione nel processo produttivo è tale che i suoi fini possono realizzarsi soltanto mediante l’abolizione di ogni forma di proprietà.

Dittatura borghese e dittatura del proletariato

Per quel che mi riguarda -- scrive Marx -- a me non appartiene né il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna né quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo prima di me degli storici borghesi avevano esposto la evoluzione storica di questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto l’anatomia economica delle classi. Quel che io ho fatto di nuovo è stato di dimostrare:
# che l’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi dello sviluppo della produzione;
# che la lotta necessariamente conduce alla dittatura del proletariato;
# che questa dittatura stessa costituisce il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi...

E Lenin commentava:

In queste righe Marx è riuscito in primo luogo a esprimere con impressionante nitidezza l’elemento essenziale e fondamentale che distingue la sua dottrina dalle dottrine dei più profondi e avanzati pensatori della borghesia. In secondo luogo egli ha indicato la sostanza della sua dottrina dello Stato. (9)

Il fatto storico, cioè il processo di formazione delle classi, è dunque intimamente legato allo sviluppo delle forze produttive. Ma sviluppandosi, le forze produttive, per loro natura di carattere sociale, vanno a scontrarsi con i rapporti di produzione vigenti, determinando la base oggettiva per il loro superamento. Il proletariato che è classe senza proprietà, dovrà necessariamente pervenire all’esercizio di una sua dittatura, alla costruzione di un nuovo Stato quando le forze produttive si saranno sviluppate a tal punto da rendere improcrastinabile il riconoscimento del loro carattere sociale.

Nella teoria marxista dello Stato, il proletariato è individuato come classe rivoluzionaria, non per cedimenti sentimentalistici che inducono a pietà per i “miserabili” della storia, ma per la sua obbiettiva collocazione nel processo produttivo. Da ciò scaturisce la particolarità del suo essere classe dominante che procede alla sua negazione in quanto classe. Il passaggio, tramite la dittatura del proletariato, da una società divisa in classi ad una senza divisioni non è affidato ad un’utopia, o ad una costruzione intellettuale, ma è il prodotto di condizioni che sono immanenti al muoversi contraddittorio della realtà.

Lo Stato proletario, la dittatura del proletariato, è necessario proprio perché non è dato prevedere l’istantaneo e completo superamento di tutte le forme economiche del vecchio mondo ed esse, invece, vanno represse fino alla loro completa distruzione. Lo Stato che è la macchina indispensabile per esercitare tale repressione, con l’estinguersi dell’oggetto della sua opera repressiva, cessa, a sua volta, di essere necessario. Ma quando ciò sarà avvenuto, anche le classi sociali saranno definitivamente scomparse.

Lo Stato borghese è strutturato per la difesa dei rapporti di produzione il cui fine è la produzione di plusvalore per l’autovalorizzazione del capitale. L’autovalorizzazione del capitale implica una organizzazione produttiva e distributiva che riflette la suddivisione in classi della società. La direzione di entrambi i processi, anche quando si superano i confini delle fabbriche, è nelle mani di chi ha il potere economico e politico. Il fatto che essi costituiscano il mezzo mediante il quale soltanto la borghesia realizza completamente i suoi scopi li rende ineluttabilmente processi gestiti e diretti da pochi contro molti e più esattamente: diretti e gestiti dalla borghesia contro il proletariato.

La macchina statale che è l’espressione di questo antagonismo fondamentale, si attrezza per reprimere ogni possibile esplosione del conflitto sociale. Vi è un diritto che regola il normale svolgimento della vita economica che va difeso; un diritto di proprietà da garantire; un mercato del lavoro da regolamentare e così via. Ognuno di questi diritti esprime un contrasto di classe inconciliabile. L’imprenditore nella fabbrica, il commerciante nel suo negozio, il proprietario della casa, il banchiere nell’esercizio della sua usura legalizzata, ognuno di questi signori gestisce rapporti conflittuali per loro natura. Non vivrebbe un giorno di più il banchiere quando strozza il debitore, il proprietario di casa quando sfratta i suoi inquilini, l’imprenditore quando reclama ritmi sempre più intensi, il commerciante che raddoppia, triplica, quadruplica i prezzi delle merci di cui nessuno meglio degli operai che le producono conosce il reale valore, se non vi fosse un’organizzazione repressiva particolare dotata di appositi strumenti di repressione: esercito, polizia, magistratura, burocrazia ecc.

Ora, è evidente che l’organizzazione complessiva che ne consegue non può che modellarsi secondo l’oggetto e il soggetto da reprimere. La difesa della società borghese non può essere affidata che ad uno Stato borghese. Questo Stato può assumere, nella realtà forme apertamente dittatoriali o democratico-borghesi, ma qualunque sia la forma, esso deve reprimere colui che non paga il fitto, colui che non vuole farsi rapinare dal commerciante o, peggio, colui che in fabbrica dicesse ai suoi compagni, del capitalista: “guardatevi dal dare ascolto a quest’impostore” e con i suoi compagni procedesse ad estirpare i piuoli della proprietà borghese.

Lo Stato proletario nasce invece per la gestione di rapporti di produzione il cui fine deve necessariamente essere la soddisfazione dei bisogni della collettività. Nella società borghese a prevalere erano gli interessi di una minoranza, qui prevalgono quelli della maggioranza. Il nuovo Stato, pertanto dovrà essere organizzato in modo che il potere possa realmente essere esercitato dalla maggioranza, in modo cioè che il proletariato e le stratificazioni sociali che si riconoscono nei suoi obbiettivi e che ne condividono le aspirazioni, possano gestire il processo produttivo e distributivo in funzione dei nuovi rapporti di produzione. La dittatura del proletariato non può, dunque, valersi del vecchio Stato, ma deve necessariamente spezzare il vecchio e costruirne uno nuovo.

La dottrina della lotta di classe applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, porta necessariamente a riconoscere il dominio politico del proletariato, la sua dittatura, il potere cioè che esso non divide con nessuno e che si poggia direttamente sulla forza armata delle masse. L’abbattimento della borghesia non è realizzabile se non attraverso la trasformazione del proletariato in classe dominante, capace di reprimere la resistenza inevitabile, disperata della borghesia, di organizzare per un nuovo regime economico tutte le masse lavoratrici e sfruttate. (10)

Ora, anche lo Stato borghese più “democratico” è una macchina per reprimere “tutte le masse lavoratrici e sfruttate” e organizza un regime economico i cui fini non sono certo i bisogni di queste masse. Da un punto di vista di classe, non vi è Stato borghese, qualunque sia la sua forma, che non debba essere spezzato e sostituito con la dittatura del proletariato.

Le prime deformazioni della teoria marxista dello Stato

Sul finire del secolo scorso e agli inizi di questo, nel seno del movimento operaio, con l’estendersi delle forme democratico-borghesi dello Stato, ebbe a maturare la tendenza a considerare lo Stato in modo diverso dall’impostazione classica data dal marxismo.

Il fatto che in alcuni paesi fosse stato concesso il suffragio universale; che il nascente capitalismo monopolistico desse la sensazione che il modo di produzione capitalistico avesse trovato il modo per controllare le sue contraddizioni, indusse, soprattutto nell’ambito della socialdemocrazia tedesca, molti esponenti del movimento operaio, a ritenere che lo Stato borghese nella sua forma democratica potesse essere suscettibile di una trasformazione in senso socialista senza che la macchina statale venisse spezzata. Il passaggio dal capitalismo al socialismo perde, qui, il suo carattere di rottura rivoluzionaria e si configura come il punto di approdo di un lungo processo evolutivo. Così come nella teoria economica i Bernstein, i Tugan-Baranoskj e gli Hilferding rielaborando meccanicamente gli schemi del processo di accumulazione contenuti nel 2o libro de “Il Capitale”, giunsero alla conclusione che lo sviluppo capitalistico potesse svolgersi ininterrottamente fino ad assumere come possibile il suo superamento per semplice evoluzione, lo Stato borghese, nella sua forma democratica, parve essere una realtà nuova alla quale mal si addiceva l’interpretazione marxista (11).

Il diritto di voto -- scrive Bernstein -- in democrazia rende virtualmente il suo titolare partecipe della cosa pubblica, e questa partecipazione virtuale deve tradursi a lungo andare in una partecipazione effettiva. (12)

Dove è chiaro che il diritto di voto viene inteso alla maniera degli intellettuali borghesi che assumevano la uguaglianza politica dei cittadini per il solo fatto che essa era assunta come tale in sede giuridica, prescindendo dalla divisione in classi della società.

Dopo la caduta di Bismark, lo Stato che ha di fronte la socialdemocrazia tedesca è un sistema democratico-borghese compiuto. Il suffragio universale, accanto alla convinzione che la teoria marxista della caduta verticale del sistema capitalistico fosse stata smentita dalla realtà, spinsero ad operare per una revisione del marxismo e della dottrina socialdemocratica. Il materialismo dialettico si mostrava agli occhi dei capi socialdemocratici una camicia troppo stretta che ne vincolava le possibilità di manovra. La critica marxista anticipava un capitalismo in cui la società si sarebbe sempre più polarizzata nelle sue due classi fondamentali ed in particolar modo che si sarebbe andati incontro ad un processo sempre più esteso di proletarizzazione come conseguenza del processo di concentrazione dei mezzi di produzione e di centralizzazione dei capitali. La concentrazione portava con sé inevitabilmente, l’accrescersi delle masse prive di proprietà da una parte, e dall’altra, la centralizzazione del potere in un numero di mani sempre più ristretto.

I dati statistici nelle mani di Bernstein e soci, mostravano, invece, la crescita delle imprese piccole e medie; l’estendersi delle “mezze” classi, e, anziché l’impoverimento della classe operaia, una crescita del benessere generale. Perché mai il capitalismo sarebbe dovuto crollare, quando il suo destino, alla luce del riscontro matematico, appare orientato in tutt’altra direzione?

In realtà i processi di sviluppo della società non sono accessibili al puro dato matematico. Essi abbisognano d’essere integrati con l’analisi delle contraddizioni che nella società esistono. Soltanto muovendo da questa realtà è possibile vedere quale potrà essere l’approdo di un determinato processo di modificazioni in atto nella società. Da un punto di vista di classe si sarebbe potuto cogliere, come fece Lenin, che accanto ai processi di dilatazione delle forme della democrazia borghese, si erano innescati processi che lasciavano intravvedere, in una prospettiva più ampia, una chiara tendenza alla centralizzazione del potere. Era, infatti, la fase del massimo sviluppo del capitalismo individuale con in atto i primi processi di formazione della grande impresa monopolistica moderna.

Lo Stato borghese, esauriti ormai da tempo i compiti di repressione della vecchia classe feudale e di stabilizzazione del nuovo potere, perdeva nei paesi più evoluti certi suoi caratteri dittatoriali ed estendeva le forme della democrazia. Quella realtà economica, in cui prevalevano le imprese piccole e medie e la proprietà privata individuale, reclamava la libertà più ampia dei commerci. “Laissez faire-laissez passer”, era il motto del pensiero economico borghese. La ricomposizione dei punti di equilibrio del sistema, eventualmente spezzati, in questa concezione, avveniva mediante il libero svolgimento della legge della domanda e dell’offerta. Il compito dello Stato consisteva, dunque, essenzialmente, nell’assicurare che le regole del mercato non venissero violate e che nel suo seno potessero trovare composizione unitaria i conflitti economici interni ad una classe dominante molto diversificata, almeno quanto diversificati erano i centri del potere economico stesso. La democrazia borghese risultava necessaria per la ricomposizione politica dei conflitti interborghesi. A ben vedere, essa risultava la forma politica più idonea per la gestione unitaria di quella realtà. Consentiva infatti a tutte le frazioni borghesi di potersi esprimere nella gestione del potere. Garantiva la proprietà privata mediante gli apparati repressivi di qualunque altra forma statua-le.

La classe operaia pur avendo diritto ad eleggere suoi rappresentanti non era per questo più pericolosa, essendo il parlamento agibile soltanto nei limiti del diritto borghese. Più dei capi del movimento operaio, più degli stessi operai, la borghesia, classe dal recente passato rivoluzionario, ben sapeva che la base reale del potere è nella divisione in classi della società e che non vi è potere che non poggi sull’uso sistematico della violenza. Entrambe le cose erano garantite dalla repubblica democratico-borghese, perché temere? Marx aveva già colto che lo Stato borghese, anche nella sua forma più democratica, non modificava il rapporto di subordinazione della classe operaia al capitale e del diritto di voto parlava come

del potere di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo in Parlamento. (13)

Bernstein, e in seguito tutta la socialdemocrazia tedesca, ne fecero invece il toccasana di tutti i mali.

Ad una classe operaia numericamente ed intellettualmente non sviluppata -- egli scrive -- il diritto di voto può apparire per molto tempo ancora il diritto di scegliersi da sé il proprio “macellaio”, ma con lo sviluppo numerico ed intellettuale dei lavoratori esso diventa lo strumento per trasformare realmente i rappresentanti del popolo, da padroni, in servitori del popolo... Il suffragio universale è soltanto un frammento di democrazia, anche se è un frammento che alla lunga è destinato ad attrarre gli altri come il magnete attrae il frammento di ferro. E un processo che certo avanza più lentamente di quanto molti desiderano e tuttavia è in atto. Per favorire questo processo, la socialdemocrazia non ha strumento migliore che quello di porsi senza reticenza, anche sul piano dottrinale, sul terreno del suffragio universale e della democrazia, con tutte le conseguenze che ne derivano per la sua tattica. (14)

Assunta la base economica in espansione, senza coglierne i processi di trasformazione della quantità in qualità, l’analisi di Bernstein non poteve condurre che alla previsione di una crescita dei “titolari di voto”, partecipi della “cosa pubblica”. La democrazia, persa ogni sua altra definizione di classe, doveva necessariamente dilatarsi e, dilatandosi, trasformare lo Stato stesso in “res publica”, cosa di tutti ed in particolare della maggioranza dei cittadini. La classe operaia che avesse conquistato la maggioranza in parlamento, avrebbe di conseguenza conquistato la direzione della società.

compito della socialdemocrazia non poteva che consistere nel porsi “sul terreno della democrazia”. In Bernstein non vi è più neppure adesione formale al metodo materialistico-dialettico: la sua collocazione è fra le sirene del potere borghese al di là di ogni dubbio. È borghese quella teoria che fotografa un istante della vita sociale e pretende di averne ottenuto la vivisezione. La realtà è movimento, perenne movimento e lo sforzo d’interpretazione deve essere proteso a cogliere le ragioni che lo determinano e il suo modo di manifestarsi, cosa accessibile soltanto al socialismo scientifico che con Marx ed Engels queste ragioni ha scoperto.

Lenin che resta saldamente ancorato alla metodologia marxista coglie, invece, pienamente le linee di tendenza predominanti.

L’imperialismo -- scrive -- epoca del capitale bancario e dei giganteschi monopoli capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma in capitalismo monopolistico di Stato, mostra in modo particolare lo straordinario consolidamento della “macchina statale”, l’inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi monarchici che nei paesi repubblicani. (15)

Permanendo i rapporti di produzione capitalistici, la macchina dello Stato non muta la sua natura, ma solo le sue forme che affinano la sua funzionalità repressiva.

L’onnipotenza della ricchezza è in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro del capitalismo. La repubblica democratica è il miglior involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito... di questo involucro - che è il migliore - fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo. (16)

La repubblica demoratica borghese, costituisce dunque, un rafforzamento del potere del capitale. In essa gli sfruttati hanno la sensazione di poter decidere, ma in realtà nulla contano e le loro decisioni anziché produrre cambiamenti, perpetuano il potere della borghesia. Inoltre, l’illusione che lo Stato possa essere modificato mediante il voto, radica nella coscienza delle masse l’abitudine a delegare il proprio destino ora a questo, ora a quel partito ed a rinunciare all’intervento diretto nella vita politica. Il risultato è una sorta di idiozia parlamentare di cui si avvantaggia quella schiera interminabile di ciarlatani che affolla le aule parlamentari. Lo scontro sociale, tramite costoro, si incanala nel pantano della polemica formale, dei cavilli giuridici della legalità borghese fino ad accartocciarsi nella pratica del più banale compromesso. L’idea che

un autentico regime parlamentare -- come scrive Kautsky -- può essere tanto uno strumento della dittatura del proletariato quanto uno strumento della dittatura della borghesia. (17)

è stata una delle droghe più efficaci che la borghesia, tramite la socialdemocrazia, tanto della seconda che della Terza Internazionale, ha somministrato al proletariato mondiale per legarlo ad un regime che si va facendo ogni giorno più dispotico ed odioso. Prepotente ed arrogante con i deboli ed alcova rosata per quella fauna senza scrupoli che è la cosiddetta “classe dirigente”.

Dallo Stato liberale allo Stato odierno

Contrariamente a quanto pronosticato da Bernstein il capitalismo si è evoluto per tutto questo secolo, e fino ai nostri giorni, in ben altra direzione. Lo Stato si è modificato (insieme ai mutamenti avvenuti nel mondo della struttura), ma anziché aprirsi alle istanze delle masse sfruttate è divenuto uno straordinario concentrato di potere politico ed economico insieme.

Lo Stato liberale, come abbiamo già accennato, aveva come compito precipuo quello di assicurare che il mercato non subisse interferenze e che le transazioni fra i protagonisti della vita economica, necessarie al funzionamento dell’intero sistema, potessero aver luogo, nel rispetto delle regole fondamentali della società borghese, nell’ambito del mercato. Il mercato qui è inteso come il vero cervello del sistema. La libera concorrenza era il banco di prova della capacità individuale di ciascuno. Essa selezionava le aziende in modo che solo quelle sane potessero sopravvivere. La quantità e la qualità delle merci da produrre era regolata dalla legge della domanda e dell’offerta con il livellamento dei prezzi sul costo marginale. La continua selezione delle imprese assicurava il continuo rinnovamento dell’apparato produttivo determinando così un’accrescimento della produttività del sistema che avrebbe dovuto produrre un’espansione del benessere per tutti. Lo Stato sorvegliava sul buon andamento del mercato, ma non vi interveniva. Ad esso, anzi, veniva richiesta la garanzia che il mercato non venisse imbrigliato da vincoli di sorta. La regola aurea a cui si informavano i ministri economici, era quella che una buona amministrazione dovesse chiudere il bilancio in pareggio.

Da Waterloo in poi non c’erano più state guerre mondiali, e, dopo la guerra civile americana, solo pochi, brevi e localizzati conflitti. Era un’epoca di espansione, di sviluppo di moti di indipendenza; nuovi continenti si offrivano alla colonizzazione, si sviluppava un nuovo sistema industriale. L’umanità sembrava aver lasciato dietro le sue spalle le tempeste della storia, ai governi sempre più democratici, liberali ed umani, era risparmiata la necessità di affrontare le dure alternative di guerra e pace, di sicurezza o di tranquillità economica, di ordine costituzionale o di rivoluzione, bastava che si preoccupassero del miglioramento qualitativo e della progressiva espansione della società... In un sicuro regime di pace il pubblico bene non poteva essere pensato che come immanente alla somma delle transazioni private: non vi era necessità di un potere statale che trascendesse gli interessi particolari e li disciplinasse dell’alto. (18)

La piccola valle dell’Eden che descrive Lippman in realtà non è mai esistita, se non nella mente degli intellettuali borghesi. Ma è senz’altro vero che il ruolo dello Stato era, per così dire, limitato alla tutela del buon andamento della “cosa pubblica”, lasciando ai capitalisti privati, tramite il mercato, la più ampia libertà d’azione. Ma fino a quando ciò poteva durare? Le leggi della libera concorrenza, in realtà, portavano in loro, sviluppandosi, il loro opposto: il monopolio. Chi pensava che Marx dovesse essere accantonato in qualche sottoscala del British Museum, semplicemente chiudeva gli occhi, le orecchie e il naso di fronte alla realtà.

La concorrenza scaturisce, infatti, dalle contraddizioni fondamentali intrinseche al processo di accumulazione del capitale che si traducono nella legge della caduta tendenziale del saggio del profitto esaminata da Marx nel 3° libro de “Il Capitale”. Sotto la spinta dello sviluppo delle forze produttive, il sistema capitalistico è indotto a modificare continuamente la composizione organica del capitale. Il capitale costante tende a crescere più di quello variabile. Ne consegue un impiego di lavoro vivo, nella produzione di merci, relativamente in diminuzione. Le merci prodotte incorporano, cioè, sempre meno lavoro vivo e più lavoro morto sotto forma di capitale costante. Ma mentre il lavoro vivo, il capitale variabile, è suscettibile di trasferirsi nelle merci aggiungendovi nuovo valore, quello morto vi si trasferisce senza aggiungere nuovo valore. Pertanto, le merci prodotte da sistemi con capitale a composizione organica bassa contengono relativamente più plusvalore di quelle prodotte da sistemi con composizione più elevata.

Il saggio del profitto nelle imprese del secondo tipo è minore che in quelle del primo. Ma le seconde riescono, proprio perché avvantaggiate da un apparato produttivo più avanzato tecnologicamente e perciò a più elevata produttività, ad essere più competitive sul mercato e quindi a produrre merci meno costose rispetto a quelle prodotte in imprese o sistemi più arretrati. Sul mercato ciò si traduce in una ripartizione del plusvalore, prodotto complessivamente nel sistema, tale che i saggi di profitto più passi, rispetto a quello medio presente sul mercato, vengano compensati con spostamento di plusvalore dai settori o imprese a composizione organica più bassa verso quelli con composizione più elevata. (19)

La spinta contraddittoria che si determina è ad un tempo verso la ricerca di soluzioni produttive più competitive e di freni che rallentino la conseguente tendenziale caduta del saggio di profitto. Il sistema se non sviluppasse delle linee di controtendenza, cadrebbe in preda a feroci lotte interne. La concorrenza, se non avesse trovato freni, avrebbe portato al crollo verticale del sistema già da un pezzo. Il monopolio trova in questa contraddizione il suo terreno di coltura. La concorrenza porta infati a due risultati: da una parte decreta la morte delle imprese incapaci di adeguarsi alle innovazioni tecnologiche, dall’altra spinge alla costituzione di imprese di dimensioni sempre più grandi che vanno ad occupare le posizioni di mercato lasciate libere dalle imprese fallite o assorbite dalle più grandi. Riduzione delle piccole imprese ed aumento delle grandi significa una crescente concentrazione dei mezzi di produzione. Il possesso dei mezzi di produzione ed il potere economico e politico che da esso deriva, anziché dilatarsi si racchiude in numero di mani sempre più ristretto. La concorrenza ne risulta affievolita. Ogni concentrazione è in grado di controllare interi settori di mercato e nell’ambito di essi imporre rendite da monopolio sui prezzi.

Ma le dimensioni di tali concentrazioni, ad un certo grado del loro sviluppo, sono tali da risultare inaccessibili alla figura del capitalista individuale tradizionale. la proprietà privata individuale tende ad essere sostituita con forme di proprietà collettive, in particolar modo la proprietà delle imprese tende a passare dalle mani del singolo capitalista a quelli di più capitalisti riuniti in società. Sul finire del secolo scorso e per tutto il primo ventennio di questo, lo Stato che è ancora quello liberale, non è insensibile al grido di dolore degli amanti della libera concorrenza e produce, specialmente in America, una serie ininterrotta di leggi antitrust allo scopo di contenere la crescita di un sistema capitalistico di tipo monopolistico. A dispetto di esse, però, il monopolio si impose decretando la fine di tutte le fandonie sulla libera iniziativa privata come base di uguaglianza e libertà.

La concorrenza non viene soppressa così come non spariscono le piccole imprese. Quest’ ultime sopravvivono, però, come appendici della grande industria e la concorrenza tende a spostarsi in una dimensione sempre più vasta, su scala internazionale.

Lo Stato, in conseguenza di ciò, è chiamato ad estendere gli strumenti di tutela del mercato dalla dimensione nazionale a quella internazionale al fine di assicurare non più solo materie prime a buon mercato, ma anche aree di influenza dove esportare le eccedenze di capitale finanziario che si formano all’interno. Con l’esportazione di capitale finanziario, il capitalismo entra nella fase dell’Imperialismo e lo Stato muta profondamente il suo volto.

Lo Stato, che fin qui era stato il gendarme del mercato senza entrarvi, è costretto, dalle esigenze di conservazione del sistema, a farlo in prima persona. Inoltre, data la nascita di settori produttivi ad elevatissima composizione, come le ferrovie, è costretto ad occuparsi anche della loro gestione. Si tratta di settori che, data la loro composizione organica, danno saggi di profitto bassissimi: la compensazione potrebbe aver luogo imponendo altissime rendite di monopolio, ma ciò è impossibile perché si tratta quasi sempre di settori di pubblica utilità. Il capitale privato tende, pertanto, ad abbandonarli e lo Stato è costretto ad assumerne in proprio la gestione al fine di assicurare il regolare funzionamento del sistema nel suo complesso. Inserendosi nei settori produttivi la macchina statale è costretta a darsi i necessari strumenti di gestione e quindi anche nuovi apparati burocratici che tendono a spostare il centro del potere dagli organi legislativi verso quelli esecutivi.

Con la prima guerra mondiale questi nuovi apparati burocratici si estendono ancora di più. Le grandi dimensioni del conflitto richiedono infatti ingenti mezzi finanziari e la subordinazione dell’apparato industriale alle esigenze militari. Le banche d’interesse pubblico che fin qui si occupavano quasi esclusivamente dei problemi relativi all’emissione della moneta, ora si trovano costrette ad intervenire in tutte le fasi della circolazione monetaria al fine di garantire il sostegno finanziario alla guerra. Le imprese di importanza bellica vengono poste sotto il controllo dello Stato, anche se non statalizzate. Si passa così da uno Stato “neutrale” nei confronti dei processi economici, ad uno che, suo malgrado, deve interessarsene.

Nell’intervallo fra le due guerre mondiali il processo va avanti. La grande industria, che ha ormai definitivamente preso il sopravvento, impone le sue esigenze. Essa per ottenere costi unitari bassi e quindi competitivi deve poter suddividere i costi fissi su di un numero elevato di unità prodotte. La produzione della grande industria deve necessariamente aver luogo su vasta scala, altrimenti essa non è competitiva, pertanto la domanda aggregata non può scendere oltre certi limiti senza provocare terribili crisi economiche. Lo Stato, allora è chiamato a coprire quei vuoti di domanda che si creano inevitabilmente sul mercato. Lo Stato che la borghesia prima voleva fuori dai processi economici, è ora divenuto indispensabile per il loro regolare svolgimento. Non è ancora il moderno capitalismo di Stato, ma neppure il vecchio Stato liberale.

Con la grande crisi del 1929, il mercato mostra tutta la sua debolezza come centro di ricomposizione dei complessi equilibri economici necessari alla sopravvivenza della grande impresa monopolistica. Le tesi liberiste vengono travolte d’un solo colpo e con esse anche le ultime resistenze dei settori più arretrati della borghesia che continuano a reclamare limitazioni all’intervento dello Stato nell’economia.

Con la grande crisi... l’intervento dello Stato -- scrive Tamburrano -- diventa importante ed organico. La grande crisi sconvolse il mondo capitalistico come una bufera improvvisa; il numero dei disoccupati che, nel 1929, era nel mondo capitalistico di 10.000.000 raggiunse i 40.000.000 nel 1932, ... la produzione industriale, fatta uguale a 100 nel 1929, scese di un terzo nel 1932. La crisi dimostrò che il capitalismo dopo aver scatenato sanguinose guerre coloniali ed imperialiste, regalava alle classi lavoratrici disoccupazione e miseria e rischiava di far crollare tutto l’apparato produttivo. (20)

La crisi fece cadere l’ultima foglia di fico sulle virtù taumaturgiche del libero mercato. Il mercato, giusta la previsione marxista, lasciato a se stesso aggiungeva anarchia ad anarchia ed esponeva il sistema capitalistico ad enormi rischi.

Nonostante le notevoli capacità produttive disponibili, gli operai, i lavoratori in generale e la piccola borghesia conobbero quella fame fisica che si voleva sepolta da tempo. Di fronte al rischio di un crollo di incalcolabili dimensioni lo Stato venne in aiuto del mondo borghese. Il teorico dell’intervento dello Stato nell’economia, Keynes, elaborò la teoria del finanziamento in deficit della spesa pubblica. Lo Stato veniva chiamato a costituire, sul mercato depresso, una domanda aggiuntiva che funzionasse da stimolo per l’apparato produttivo. In America si inaugurò il New Deal. In Germania, lo Stato nazista costruì fabbriche per la produzione di beni necessari alla costruzione di opere pubbliche e stimolò la produzione industriale incrementando la spesa bellica. In Italia nacque e con esso si ebbe il passaggio di importanti settori produttivi, come quello siderurgico, quasi completamente nelle mani dello Stato, oltre che la nascita delle prime società a capitale misto.

La seconda guerra mondiale diede nuovo impulso a questa tendenza e per tutta la sua durata, tanto in Europa che in America, la fetta più consistente della domanda aggregata era costituita dalla domanda pubblica. Né la chiusura del conflitto servì a rallentare questa tendenza. Il piano Marshall, elaborato dagli Stati Uniti per sostenere la ricostruzione dell’Europa occidentale, è il più clamoroso ed organico piano di sostegno all’esportazione di capitale finanziario delle grandi imprese monopolistiche che sia stato mai concepito prima di allora.

I dati odierni che quantificano l’intervento dello Stato sono ormai di pubblico dominio. Interi settori produttivi di interesse strategico sono nelle mani dello Stato. In Italia sono controllati direttamente dallo Stato, il settore siderurgico, quello energetico, i trasporti ferroviari ed aerei, tutti i trasporti pubblici urbani. L’agricoltura, come ha riconosciuto in un suo intervento sul quotidiano “La Stampa” l’ex ministro Medici, è considerato un settore “di pubblica utilità” e quindi è paticamente gestito - tramite il credito agevolato e i finanziamenti di sostegno - dallo Stato.

La presenza dello Stato si ritrova anche in settori dove vengono realizzati elevati profitti e fra questi il più importante è il settore bancario. Il credito ordinario è tutto nelle mani di banche dello Stato. Dello Stato è la più capillare rete di raccolta del piccolo risparmio costituita dalle Casse di Risparmio; è sua anche la più grande banca italiana, la Banca Nazionale del Lavoro. Anche il credito a medio e lungo termine è controllato da istituti pubblici, fra questi il più importante, la Medio-banca, è dello Stato. L’ultima grande banca privata, il Banco Ambrosiano, è stata recentemente “suicidata” sotto un ponte di Londra, in seguito ad oscuri intrallazzi da cui è emerso che trattavasi più che di una banca, di organizzazione gangsteristica.

Oltre all’impegno in prima persona, lo Stato è il maggior cliente della grande industria. Secondo dati forniti recentemente dal ministro del Bilancio, il 35% della domanda aggregata complessiva è costituito dalla domanda diretta di beni e servizi da parte dello Stato e il finanziamento in deficit della spesa pubblica ha raggiunto la colossale cifra di 80-100 mila miliardi.

L’intervento pubblico è ritenuto ormai indispensabile anche dai settori più tradizionali della borghesia. Si reclamano sì, tagli a “lacci e lacciuoli”, ma nessuno, neppure il più incallito libero-scambista, reclama il ritorno dello Stato nell’alveo di un tempo. Da tutti è riconosciuto che senza questa presenza il sistema capitalistico andrebbe incontro al crollo verticale.

Pochi -- osserva Berle, intellettuale di sicura fede borghese -- vogliono realmente un regime di concorrenza illimitata nella società moderna; certo non lo desiderano né le grandi società per azioni, né i loro impiegati, né i loro fornitori. Essi vogliono non una lotta perpetua, ma un lavoro stabile: vogliono produrre merci ad un prezzo più o meno prevedibile, in condizioni più o meno prevedibili di modo che le merci possano essere vendute sul mercato e ad un prezzo precedentemente fissato.

E Tamburrano che lo cita, aggiunge:

il fatto è che sinora lo Stato, tutto sommato, ha recato più vantaggi che svantaggi al sistema economico capitalistico. (21)

Lo Stato, insomma, è divenuto esattamente quello previsto da Engels che scrive:

Lo Stato moderno è l’organizzazione che la società capitalista si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia dagli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. (22)

Dall’esame dei processi da cui dialetticamente si è generato lo Stato moderno, risulta confermata integralmente la teoria marxista dello Stato. Esso, anche se espropria numerosi capitalisti, o li sopprime totalmente, è rimasto una macchina di classe ed il suo compito essenziale, come per lo Stato liberale, resta la tutela della dittatura borghese.

L’organizzazione del potere nel moderno Stato-capitalista

Così come nella vita economica si calcola che meno del 2% di tutte le società del mondo occidentale controlla il 70-80070 del movimento degli affari mondiali, nella vita politica il controllo del potere è appannaggio di pochi e ristretti gruppi. Nelle repubbliche democratiche borghesi, la conseguenza più vistosa del processo di centralizzazione del potere è il progressivo decadimento delle istituzioni tradizionali della democrazia stessa. Il parlamento, che è il luogo (secondo le carte costituzionali) dove dovrebbe manifestarsi e concretizzarsi il “contratto sociale”, si è completamente svuotato di ogni sua funzione legislativa e di controllo, per trasformarsi nel luogo dove si celebra il rito formale della ratificazione di decisioni prese altrove.

Il moltiplicarsi delle attività economiche ed imprenditoriali, di cui lo Stato è il titolare, ha reso necessario per la loro gestione, la costituzione di apparati burocratici sempre più potenti. Essi, dovendo garantire la continuità delle attività economiche, hanno via via assunto un’ampia autonomia rispetto al potere legislativo che si è visto ridotto dapprima all’esercizio della sola attività di controllo e in seguito, data la complessità delle attività svolte dallo Stato, a quella di sola ratifica.

L’esecutivo, (il governo) ha acquistato, così, un potere di gran lunga maggiore di quello previsto dal diritto costituzionale nelle repubbliche democratiche.

Il Parlamento non costituisce affatto o contribuisce in misura molto limitata alla elaborazione della politica economica del Governo, non dà nessun apporto nella fase essenziale della predisposizione dei vari provvedimenti, non interviene nei rapporti tra esecutivo e le varie categorie economiche e sociali, non è in grado di controllare adeguatamente l’esecuzione degli impegni assunti dal Governo verso le Camere, nei confronti dell’opinione pubblica e dei gruppi organizzati, ignora per quali vie e per quali canali si svolge la multiforme e complessa attività degli organi di amministrazione, non controlla la politica e la spesa dei numerosi enti pubblici la cui incidenza nella vita produttiva è in continua espansione. (23)

Il Parlamento continua a mantenere il diritto di controllo sui governi e può ancora farli e disfarli, ma ciò solo in teoria

in quanto le decisioni del Parlamento sono proiezioni di decisioni, di compromessi avvenuti in altre sedi, nelle direzioni dei partiti, nelle trattative tra esponenti nel mondo economico, sindacale, ecclesiastico cioè di decisioni prese da élites che governano di fatto fuori dal Parlamento e che hanno mille modi per ottenere l’adesione alle proprie decisioni da parte dei parlamentari che, tra l’altro, nel 99% dei casi sono iscritti ai vari partiti o fanno parte dei vari gruppi di pressione sindacali, religiosi di categoria. (24)

Il Parlamento che, secondo i riformisti e gli opportunisti della Seconda Internazionale, avrebbe dovuto consentire la “scalata al cielo” senza rotture preventive della macchina statale è ormai un inutile orpello dello Stato capitalista. I gruppi che realmente detengono il potere sono i soli che possono garantire l’elezione nel Parlamento. I deputati e i senatori sono loro pedine prive di qualunque autonomia. Le elezioni sono divenute una farsa dove per parteciparvi è necessaria la disponibilità di ingenti mezzi finanziari. Occorrono esperti pubblicitari e il controllo dei mass-media, prima di ogni altra cosa; una potente rete di raccolta dei voti e, solo come contorno, una proposta politica. Gli aspiranti onorevoli, in genere, prestano la loro faccia tosta e nulla più. In America, dove la farsa elettorale si è più che altrove caratterizzata in questa direzione, è stato eletto alla presidenza un attore di film western da sale parrocchiali che a mala pena è capace di biascicare un discorso scritto da altri, preso com’è dal dubbio se su quella battuta bisogna ostentare un sorriso o un viso corrucciato. In genere sorride, in omaggio all’antico adagio latino...

La farsa è così evidente, così sfrontata, così puttana che il numero dei partecipanti si assottiglia sempre più. Negli U.S.A., vota meno del 40% degli aventi diritto. In tutti i paesi di più antica democrazia borghese, l’esercito dei votanti va riducendosi ad una sparuta pattuglia. In Italia, che pure resta il paese del mondo occidentale con più partecipanti, alle ultime elezioni politiche circa il 30% degli aventi diritto non ha votato e il numero delle schede bianche o annullate intenzionalmente è risultato talmente elevato da indurre molti pubblicisti a parlare dell’esistenza di un partito della “scheda bianca”, accreditato di un buon 15%. Secondo il noto pubblicista Galli, per ottenere l’elezione del presidente negli Stati Uniti, basta spostare da un partito all’altro, fra i partiti maggiori, il 10-15% dei voti. Il fatto è che ormai è chiaro anche alle grandi masse l’inutilità del Parlamento per la semplice ragione che il potere reale risiede altrove, laddove lo ha portato il processo di concentrazione dei mezzi di produzione.

Un gruppo economico moderno costituisce un’unità economico-finanziaria che controlla imprese che svolgono attività collegate ad uno o più processi produttivi. La società-madre o capofila, quasi sempre una finanziaria, detiene il pacchetto di azioni di maggioranza della società più importante... Attraverso il meccanismo delle partecipazioni incrociate (vietato dalla legge, ma regolarmente attuato) essa riesce a controllare una o più imprese collegate alla propria attività. Poiché queste, a loro volta, controllano altre imprese, la società madre con un esborso irrisorio di capitale finanziario esercita il controllo di un numero molto grande di imprese. Il risultato è che si realizza un ciclo produttivo integrato che va dall’acquisizione delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito. Oltre al controllo diretto, di natura azionaria, molte imprese pur mantenendo l’autonomia formale, cadono sotto l’influenza del gruppo nel corso dello svolgimento dei rapporti di scambio con esso. È il caso di imprese fornitrici che producono per un gruppo industriale parti accessorie del prodotto del gruppo. Nel settore automobilistico sono numerose le imprese medie e piccole che forniscono accessori per le autovetture e che, pur mantenendo la piena autonomia formale, sono, alla fine dei conti, sezioni staccate della grande impresa, tanto è forte la loro dipendenza dall’andamento del ciclo economico e finanziario di quest’ultima.

A causa del frazionamento della proprietà azionaria, in genere un numero molto ristretto di persone, in possesso del 15-20 per cento del pacchetto azionario di una società-madre, pone sotto il proprio controllo veri e propri imperi industriali e finanziari. Le moderne società multinazionali presentano spesso bilanci di gran lunga superiori di quelli degli Stati in cui operano.

Per gruppi di queste dimensioni è impossibile operare senza un adeguato potere politico. Tanto se di proprietà pubblica che privata, questi gruppi devono necessariamente tessere una fitta rete di rapporti con gli organismi dello Stato che intervengono nei processi economici. Allo scopo, essi pongono sotto controllo giornali, televisioni, banche e ogni cosa che possa servire alla bisogna. In particolar modo, oggetto del loro interesse sono i partiti politici, o correnti all’interno dei partiti.

Gli innumerevoli scandali che frequentemente vengono a galla, come conseguenza delle lotte intestine fra questi diversi gruppi, hanno portato alla luce tutti i meccanismi di funzionamento di queste che, con termine inglese, vengono definite “lobby”. L’intreccio dei rapporti economici, finanziari e politici che stabilisce un determinato gruppo è tale da costituire un vero centro di potere che sintetizza quello economico e quello politico. I partiti cessano di essere macchine politiche per la sola raccolta del consenso e divengono essi stessi, ad un tempo, centri e strumenti di potere. Trasformati in questo senso essi non presentano più la tradizionale omogeneità ideologica e politica, potendo convivere nel loro ambito lobby diverse. Nell’ambito di un partito politico si possono determinare così lotte feroci per il suo controllo. Il controllo del partito, data la subordinazione ad esso degli uomini politici, significa direttamente il controllo dei centri di potere dello Stato. Le mediazioni interborghesi che prima avevano luogo all’interno del parlamento, ora si svolgono nei partiti e fra i partiti, sia di maggioranza che di opposizione.

La conseguenza più vistosa di ciò è la pratica della lottizzazione del potere secondo norme ormai codificate. Non vi è presidenza di banca, di industria, di giornali, di ente assistenziale che sfugga a questa logica. Quando i contendenti non trovano l’accordo tutto si paralizza e si scatenano lotte feroci con regolamenti di conti sempre più di stampo mafioso. Quando la mediazione ha luogo e gli equilibri ricomposti, le istanze dei gruppi di potere si trasformano in leggi dello Stato senza alcuna opposizione. Il processo di formazione delle decisioni è dunque l’opposto di quello previsto dalle carte costituzionali. Anziché dai “cittadini” allo Stato, esso parte da ristretti centri di potere e, una volta conclusosi viene imposto, tramite lo Stato, alla maggioranza della società.

In Italia, dove ancora permangono regolamenti parlamentari alquanto liberali, è allo studio una serie di proposte tese a modificarli. Si punta esplicitamente all’abolizione del voto segreto in Parlamento, al fine di assicurare alle segreterie dei partiti il più completo controllo sui loro gruppi parlamentari. Inoltre è allo studio una revisione della legge elettorale in modo da ridurre la possibilità di partecipazione alle elezioni da parte dei gruppi minori. I partiti avendo, in quasi tutti i paesi più avanzati, imposto il riconoscimento della loro funzione di pubblica utilità, sono finanziati direttamente dallo Stato. Il finanziamento pubblico, aggiunto a quello ancora più corposo proveniente dai grandi gruppi economici, ha dato loro una maggiore autonomia dall’elettorato e un maggior potere nei suoi confronti. L’elettorato non è acquisito tanto sulla base dell’adesione politica, quanto su quella del ricatto clientelare. Lo sterminato esercito dei pubblici dipendenti, i militari, il clero, gli assistiti di tutte le specie e razze costituiscono la base di un consenso al di là di ogni dubbio. Gli esclusi non votano e se lo fanno non sanno né per cosa né per chi. All’esterno i partiti si presentano, salvo sfumature, tutti uguali e in genere, anche quando si alternano al potere, le loro politiche rimangono sostanzialmente invariate. Le correnti consentono ad ogni partito di aver disponibili diverse politiche buone sia se si è all’opposizione che al governo, pertanto essi risultano capaci di passare dall’una all’altra delle situazioni senza scosse traumatiche.

In America dove il sistema si è affinato fino a raggiungere la perfezione sono rimasti in gioco due soli partiti e le differenze fra i due sono inesistenti.

In un certo senso abbiamo il regime del partito unico -- ha detto Kennan -- perché ideologicamente, non vi è distinzione tra i due partiti: le loro dichiarazioni sono uguali in banalità e piattezza, e quelli che rifiutano di integrarsi nei loro ranghi, sono come cittadini che in Russia non sono membri del partito, condannati alla passività politica.

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E -- aggiunge Tamburrano -- non è diversa la situazione nei paesi europei ove la socialdemocrazia ha rinunciato a molti connotati che la distinguevano e la opponevano ai partiti ‘borghesi’. La Francia e l’Italia si trovano in una situazione particolare per la presenza di forti partiti comunisti e, in Italia, di un partito socialista diverso dalle socialdemocrazie europee. Ma la diversità è in grande parte apparente perché l’alternativa comunista è più un’alternativa di potere che di valori. (25)

La macchina statale moderna si presenta, dunque, come un organismo economico-politico compatto non soggetto a rischi per il mutare degli uomini o dei partiti al Governo. Che siano i socialisti o i comunisti o i democristiani ad avere la maggioranza le cose non mutano: il potere resta saldamente nelle mani di chi ha la direzione dei processi economici. Il fatto che gran parte dei gruppi siano di proprietà pubblica non modifica la sostanza di questo potere, che consiste nell’assicurare al processo di accumulazione capitalistica le migliori condizioni per il suo svolgimento. Così anche quando lo Stato legifera, apparentemente, a favore dei lavoratori e contro alcuni settori della borghesia privata, in realtà opera nell’interesse del capitale e più esattamente del grande capitale monopolistico. Lo statuto dei lavoratori, ad esempio, da anni sbandierato come il segno tangibile della possibilità di introdurre “elementi di socialismo” nel sistema, mentre ha codificato certe garanzie formali per i lavoratori, ha consentito di ridurre la conflittualità nella grande industria e a dare allo Stato gli strumenti giuridici ed amministrativi per intervenire in prima persona nel mercato del lavoro.

Anche quando ha preso provvedimenti contro un’impresa o un settore industriale, anche quando ha adottato misure invise ai capitalisti, misure che riducevano il profitto immediato anche quando si è schierato a favore dei lavoratori in un conflitto sindacale, per lo più lo Stato fin ora ha avuto di mira il mantenimento o il rafforzamento della società capitalista nel suo complesso. Per esempio, lo Stato inasprisce i tributi sui profitti distribuiti: apparentemente, questa misura colpisce i “tagliatori di cedole”, in realtà lo Stato mira a favorire il reinvestimento del profitto e a sollecitare l’espansione della produzione capitalista; lo Stato si schiera contro i datori di lavoro e a favore degli operai che chiedono aumenti salariali o la riduzione degli orari di lavoro: non si tratta dell’appoggio dei poteri pubblici alle lotte anticapitalistiche degli operai ma del proposito di scongiurare un’eventuale depressione oppure di aumentare la produttività del lavoro (la sociologia e la psicologia del lavoro hanno dimostrato che l’eccessivo affaticamento fa diminuire la produttività della forza-lavoro)... in questi casi lo Stato aiuta i lavoratori, come categoria necessaria al sistema capitalistico, cioè come prestatori d’opera subordinata all’imprenditore capitalista. (26)

Sia pubblico che privato, aggiungiamo noi.

Il fatto è che si tratta di un apparato che avendo racchiuso al suo interno potere politico ed economico insieme, ha una visione d’assieme delle esigenze di conservazione del sistema, che la figura tradizionale del capitalista individuale, dal suo angusto punto di vista, non poteva avere. Se così non fosse la moderna società borghese verrebbe lacerata dai contrasti interni e più in generale le contraddizioni che scaturiscono dal processo di accumulazione capitalistica sarebbero talmente acute da non poter essere facilmente mistificate agli occhi di chi quotidianamente ne sopporta le conseguenze.

Come si giustifica un sistema nelle cui mani la tecnologia moderna ha messo le chiavi per produrre quanto occorre alla società per soddisfare i suoi bisogni fondamentali e, invece, elargisce miseria e disoccupazione? Lo Stato stende con il suo intervento veli pietosi su questo crimine contro l’uomo che lavora e le sua aspirazioni. Ma ancor più, è esso stesso divenuto vampiro di marxiana memoria che succhia il sangue a tutto spiano. Dalla fabbrica al Parlamento, dai partiti alle istituzioni pubbliche, dagli apparati burocratici all’ultima cabina elettorale è un tutt’uno che esercita la più potente dittatura che il capitale avesse fin qui espresso.

In Russia e in tutti i paesi dell’Europa dell’Est, dove il moderno Stato capitalista, per essere il prodotto della sconfitta della rivoluzione d’Ottobre, ha bruciato le tappe, la potenza repressiva della macchina statale ha raggiunto vertici inauditi. Ridotta l’area privata dell’economia a un fatto del tutto marginale, dai centri del potere politico ed economico promana il ritmo della vita della società. È lo Stato che appronta il piano economico generale cui i soggetti economici, pur nell’àmbito di una certa autonomia (almeno dopo la riforma di Liberman) devono uniformarsi.

Dalla produzione alla distribuzione tutto è controllato centralmente e nessuno può opporsi, pena l’internamento nelle patrie galere. Non avendo percorso per via evolutiva il passaggio dall’economia del libero mercato a quella monopolistica, non si è prodotta la grande impresa monopolistica privata e quindi neppure quella diversificazione dei centri di potere che caratterizza i sistemi occidentali. La mediazione fra le diverse fazioni della classe dominante, qui può fare a meno anche delle parvenze della democrazia formale per cui non troviamo traccia né di istituzioni di carattere democratico borghese né di partiti. Tutto passa attraverso il Partito-Stato e gli scontri e le mediazioni hanno luogo al suo interno senza che all’esterno se ne abbia sentore. Peggio degli zar, gli uomini del potere fanno e disfano. Tutto è loro consentito. Tanto più restrittivi sono i divieti imposti ai cittadini, tanto più grande è la loro libertà.

Tutto ciò porta spesso a indignazione i pubblicisti borghesi occidentali, ma è poi così diversa la realtà dei loro sistemi? Nella vita quotidiana delle grandi imprese pubbliche e private occidentali, essere fuori dai partiti o dai sindacati, che dei partiti sono la lunga mano sui posti di lavoro, significa essere fuori da tutta una serie di vantaggi che vanno dalle facilitazioni di carriera all’assegnazione dei posti di lavoro. I sindacati russi possono fare di un lavoratore un privilegiato o un internato a vita in campo di concentramento. Sono i sindacati, infatti, che gestiscono gran parte dell’assistenza sociale. Loro compilano la lista dei “meritevoli” cui assegnare periodi di vacanze a spese dello Stato o miglioramenti salariali. Il Sindacato ha cessato di essere lo strumento per la difesa economica dei lavoratori e si è trasformato in uno strumento di controllo dei lavoratori nell’àmbito del piano economico centrale e delle esigenze aziendali. La subordinazione del lavoro al capitale muove dal Partito-Stato e si articola attraverso i sindacati fin sul posto di lavoro.

Altri apparati, soviet, esercito, polizia ecc., sono i veicoli della dittatura nella vita fuori dalle fabbriche così che il potere centrale è presente in ogni istanza della vita sociale, imponendosi ed imponendo le sue scelte.

Nel mondo occidentale le forme del potere non sono dissimili nella loro sostanza. Qui tutto è mistificato dal fatto che ognuno di questi organismi (sindacato, polizia magistratura, consigli di quartiere, distretti scolastici ecc.) fa precedere il proprio nome dall’aggettivo “democratico”. I sindacati occidentali svolgono da tempo la stessa funzione di quelli russi. Essi sono presenti nei consigli di amministrazione delle aziende pubbliche, intervengono nella destinazione degli investimenti e dei fondi di spesa. Hanno potere in merito alle carriere e ai trasferimenti. Ufficialmente si può essere non iscritti, ma ciò in realtà significa essere esclusi da ogni possibilità di miglioramento ed essere esposti ad ogni sorta di rappresaglia. Ufficialmente i rappresentanti vengono eletti dalla base, ma in realtà, oltre i delegati di fabbrica, le cariche vengono assegnate dai partiti.

Il sindacalista di professione vive distaccato dal processo produttivo e dai lavoratori. Con essi si incontra un paio di volte all’anno, quando si tratta di illustrare i contenuti di accordi sottoscritti con i padroni o le loro organizzazioni. In genere trascorre più tempo con i rappresentanti del capitale che con i lavoratori, non avendo, da quando è stato introdotta la delega, neppure la necessità di raccogliere le quote di iscrizione provvedendo a ciò i padroni stessi mediante trattenuta sul salario. In Inghilterra, in America e in Germania l’iscrizione al sindacato è di fatto obbligatoria in quanto raramente un’impresa assume un’operaio non iscritto a uno dei maggiori sindacati. In Italia è allo studio la costituzione di un’Agenzia del Lavoro, affidata al sindacato, cui è devoluta la gestione dell’offerta di lavoro. Recenti accordi sindacali hanno introdotto l’autoregolamentazione degli scioperi, per ora nei soli settori di pubblica utilità, con cui, oltre ad imporre limitazioni al diritto di sciopero, si riconosce di fatto la legalità soltanto agli scioperi indetti dalle maggiori Confederazioni e, al loro interno, non tutti hanno titolo a proclamare scioperi (ne sono esclusi i consigli dei delegati). Anche qui dunque la dittatura del capitale muove dal centro e raggiunge il posto del lavoro valendosi di organismi che, sorti come strumenti della lotta economica dei lavoratori, si sono evoluti fino a diventare uno dei pilastri fondamentali della conservazione. Non diversa è la situazione fuori dalle fabbriche. I cittadini sono chiamati a votare in continuazione, ora per i consigli di quartiere, ora per il consiglio comunale, ora per la scuola, ora per il Parlamento, ma le loro scelte sono necessariamente preda dei partiti e dei loro immensi apparati burocratici che come abbiamo visto sono funzionali ad un sistema di potere centralizzato e sottratto ad ogni possibile controllo. Il diritto di voto mai come oggi è stata una truffa a favore della classe dominante. La democrazia formale è, ormai, null’altro che uno specchietto per allodole sprovvedute.

Lo stato moderno in conseguenza della concentrazione dei mezzi di produzione, non può che essere, qualunque ne sia la forma, che la macchina cui è affidato il compito, attraverso diverse istanze organizzative di carattere burocratico, di garantire la stabilità del ciclo economico e dei processi produttivi nell’àmbito dei rapporti di produzione vigenti. Laddove la borghesia tradizionale, legata alle forme di proprietà individuale, è risultata storicamente incapace o impotente ad assicurare con le forme statuali corrispondenti, il regolare funzionamento della società borghese, lo Stato ne ha preso il posto come capitalista collettivo nell’interesse della continuità del sistema.

Le nuove teorie opportunistiche sullo Stato

L’evoluzione dello Stato borghese non si è svolta nella direzione di un allargamento progressivo della democrazia, ma nel suo contrario. Il fatto, però, che nel corso della sua evoluzione lo Stato abbia sottratto alle forme di proprietà privata individuali, la gran parte, e in alcuni paesi tutti i mezzi di produzione, ha aperto il varco a nuove elaborazioni sulla possibilità del passaggio dal capitalismo al socialismo senza preventiva rottura della macchina statale. Lo Stato moderno sarebbe, da questo punto di vista, una macchina del tutto nuova, “né capitalista, né proletaria” e per la quale risulta superata la teoria marxista-leninista. Così, quel falso marxismo che Lenin aveva buttato fuori dalla porta, rientra dalla finestra e dilaga nelle file del proletariato.

La sua azione [quella dello stato - ndr] in genere ha mirato allo sviluppo del meccanismo del profitto e non infrequentemente alla difesa di interessi sezionali di gruppi privati. Ma ciò... è avvenuto perché lo Stato per sua natura, non può essere altro che un “comitato che amministra gli affari della borghesia”, un “capitalista collettivo”, oppure perché l’azione dello Stato è stata condizionata in modo determinante dalle forze del profitto privato, per cui mutandosi il rapporto di forze, diventando il peso dello schieramento anticapitalistico prevalente, le strutture statali possono essere utilizzate per una politica qualitativamente diversa, ispirata agli interessi collettivi senza bisogno della rottura preventiva della macchina statale? (27)

La risposta, già implicita nella domanda è:

L’intervento dello Stato nella società civile con compiti crescenti di coordinamento e di direzione, specie in materia economica, sono elementi di una tendenza oggettiva eversiva del capitalismo, anche se finora, a causa del rapporto di forze, lo Stato, dominato dai grandi gruppi è intervenuto per difendere interessi settoriali o generali del meccanismo di accumulatone e del profitto capitalistici. Questa conclusione è di grande importanza perché sottolinea che la subordinazione dello Stato agli interessi ed alle scelte dei monopoli non è un fatto inevitabile e fatale, connaturato all’essenza dello Stato, ma dipende soltanto dal peso condizionante che hanno avuto finora i gruppi privati. Lo Stato se il movimento dei lavoratori acquisterà la forza politica e culturale (egemonia) per condizionarlo... potrà diventare gradualmente uno strumento al servizio degli interessi del movimento. (28)

Lo Stato moderno sarebbe dunque un ibrido che può essere orientato in una direzione o nell’altra a seconda che la forza egemone al suo interno sia la borghesia o il movimento dei lavoratori.

La corona è in un rigagnolo -- soleva dire Napoleone quando era ancora giovane ufficiale -- basta chinarsi e raccattarla.

Così, la macchina statale moderna è divenuta per questi intellettuali “organici” al servizio dei partiti della vecchia e nuova socialdemocrazia, una scatola vuota d’ogni contenuto di classe conquistabile con qualche pugno di schede in più. La questione che si pone nell’esame della natura dello Stato odierno non è se esso sia o no in contraddizione con gli interessi dei gruppi monopolistici privati, ma se esso deve tutt’ora considerarsi una macchina di classe. La contraddizione tra gruppi privati e pubblici è un dato innegabile della realtà. Dall’esame che abbiamo fin qui svolto emerge chiaramente la tendenza dei gruppi monopolistici pubblici a prevalere su quelli privati che porta con sé inevitabilmente i motivi di scontro anche traumatici per il controllo dello Stato. Si tratta di vedere, però, se questo conflitto resta interno ad una medesima realtà borghese o porta con sé le ragioni del conflitto fra borghesia e proletariato e se il proletariato schierandosi contro l’influenza dei gruppi monopolistici privati, non faccia altro che affidare il proprio destino ad un boia, anziché un altro. La più compiuta esperienza storica che ci è data di osservare, la Russia, mostra che anche laddove la proprietà privata, nella sua forma tradizionale, è abolita o ridotta a fatto marginale, lo Stato resta una macchina repressiva di classe.

L’uso del termine “pubblico” per i gruppi monopolistici appartenenti allo Stato non implica che sia stata superata la proprietà borghese dei mezzi di produzione, ma al contrario che questa si è evoluta in una forma più raffinata e più idonea ai mantenimento dell’ordine capitalistico. La proprietà privata dei mezzi di produzione non è il fine, ma il mezzo del modo di produzione capitalistico. Il capitalista imponendo il diritto di proprietà sui mezzi di produzione, impone, soprattutto, che il processo produttivo abbia luogo in funzione del profitto, ovvero dell’autovalorizzazione del capitale. L’involucro giuridico nasconde un più vasto contenuto di classe che consente ad una parte sola della società, ad una classe, di disporre delle forze produttive per il mantenimento dei suoi privilegi. Il diritto di proprietà si sostanzia solo se vi è effettivamente uso privato, altrimenti è nulla, pura formalità che lo stesso diritto borghese, ammettendo l’usucapione, prevede possa estinguersi. La proprietà borghese non cessa perché scompare qualcuno che possa dire: “questo è mio!”, ma solo se tutti possono dirlo e, di conseguenza, possono usare l’oggetto della proprietà, nella fattispecie, solo se l’uso delle forze produttive ha luogo in funzione degli interessi della collettività.

Il passaggio dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato non è avvenuto sopprimendo l’uso privato di essi, al contrario lo Stato se ne è impossessato per garantire la continuità del loro uso in funzione del profitto ovvero di un interesse particolare, e perciò “privato”. È proprio Tamburrano a ricordarci Berle che scrive a questo proposito:

questo non è il risultato di un socialismo strisciante, ma è piuttosto la conseguenza diretta di un capitalismo galoppante. (29)

Le categorie economiche del capitalismo non ne sono uscite indebolite, ma rafforzate.

In Russia, ad esempio, permangono, come nei sistemi occidentali, il profitto ed il salario. Il prodotto sociale non viene ripartito né in ragione diretta del lavoro effettivamente prestato come secondo la formula del socialismo inferiore, né secondo quella del comunismo: “ad ognuno secondo i suoi bisogni”, ma in ragione della quantità di moneta che si offre in cambio e che può rappresentare salario o redditi da capitale, in entrambi i casi siamo in presenza di un processo tipico della società capitalistica. La soppressione della proprietà privata qui non ha significato assolutamente il superamento del capitalismo, ma la formazione di una classe borghese, una borghesia di Stato che dispone delle forze produttive nell’ambito dello Stato, per il raggiungimento di obiettivi particolari. Essa non va confusa con la burocrazia che non è classe, ma va individuata in coloro che disponendo dell’uso del capitale esercitano, mediante questo un dominio sulle masse sfruttate. Scriveva Da-men a proposito della Russia:

La tendenza a un sempre maggior intervento dello Stato, che è caratteristica di questa fase dell’economia nei paesi industrialmente più progrediti, trova nell’economia sovietica la sua manifestazione più organica, più definita e completa. Sulla generale linea di sviluppo del capitalismo monopolistico la Russia ha potuto bruciare più d’una tappa, grazie alla Rivoluzione d’Ottobre, che ha consentito l’accentramento più assoluto dell’economia nell’àmbito dello Stato e alla controrivoluzione stalinista di valersi di questo enorme potenziale economico così accentrato per ingigantire il potere dello Stato e dare avvio all’esperienza estrema del capitalismo. Il protagonista di questa fase della storia è dunque lo Stato la cui economia riproduce i modi e i caratteri, su scala forse allargata, propri della produzione e della distribuzione capitalistica (salario, mercato, plusvalore, accumulazione ecc.). Quale nuova classe che attraverso questo esercita la propria dittatura? La strapotenza dello Stato sovietico non può non aver risolta in concreto il programma d’una classe omogenea e forte, per la coscienza che ha del proprio essere di classe e della funzione storica che è chiamata a compiere. (30)

Non è data come storicamente possibile, una formazione economico-sociale che si avvale dei meccanismi propri del modo di produrre capitalistico senza che vi sia anche una corrispondente classe destinataria del frutto dello sfruttamento dei lavoratori. Non ha luogo il processo di autovalorizzazione del capitale senza una borghesia che lo gestisca e ne sia beneficiaria. Il moderno Stato capitalista proprio nella misura in cui è capace di perpetuare il modo di produzione vigente, anche in presenza della sconfitta della borghesia tradizionale, non consente il passaggio da un’economia di tipo capitalistico ad una socialista. Anche il più profondo sconvolgimento sociale che non procedesse alla rottura preventiva della macchina statale sarebbe destinato di lì a poco a riprodurre nell’àmbito dello Stato una classe dirigente che assumerebbe, come classe cominante, il dominio della società.

L’idea di una macchina statale che non merita di essere distrutta è la stessa, premarxista, che ammette lo Stato al di sopra delle classi: è un’idea borghese. E sostanzialmente borghese, se si vuole ancora più mistificante, è l’altra che pur non negando il permanere del carattere di classe della macchina statale, educa il proletariato a ritenere che “la democrazia” possa funzionare come veicolo per il passaggio da una società capitalista ed una socialista.

La borghesia capitalistica, incapace di far fronte sul terreno della democrazia alle rivendicazioni della classe operaia -- scrive Gruppi del P.C.I. -- e dei lavoratori italiani, aveva appoggiato il fascismo al suo sorgere e ne aveva fatto la propria espressione politica. Responsabile del fascismo, la borghesia italiana vedeva colpita, dal crollo del fascismo, la propria egemonia. Quei princìpi di democrazia che essa aveva abbandonato dovevano essere assunti, nel corso della guerra di liberazione, dalla classe operaia che, guidata dal P.C.I. - unito con un patto di unità d’azione al Partito socialista - si poneva alla testa di un largo schieramento nazionale di unità antifascista. Non si trattava, però, per la classe operaia, di restaurare la democrazia prefascista. Questa aveva rivelato, di fronte alle esigenze delle masse lavoratrici, i suoi contenuti conservatori e, proprio per ciò, l’incapacità di reggere all’attacco reazionario. Si trattava di instaurare una democrazia che venne chiamata di tipo nuovo capace di impedire per sempre un ritorno del fascismo e di forme di potere reazionario. Era perciò la questione delle strutture economiche e la questione dello Stato. Nato da un’ambigua e contraddittoria “ribellione” piccolo borghese, in cui gli atteggiamenti demagogici mal nascondevano la sostanza antisocialista, collegatasi rapidamente alla reazione degli agrari... il fascismo era salito al potere con l’acquiescenza del grande capitale finanziario e ne era ben presto diventato l’espressione tipica, lo strumento della sua “dittatura terroristica aperta”... La riconquista della democrazia di tipo nuovo che andava instaurata, doveva realizzare una serie di riforme economiche capaci di colpire il capitale monopolistico e la grande proprietà terriera... Le riforme di struttura, la partecipazione dei lavoratori alla direzione dello Stato avrebbero dovuto imprimere alla democrazia italiana uno sviluppo dinamico, perché ogni riforma ne invoca altre, perché la direzione dei lavoratori, nello Stato, e nella società avrebbe dovuto allargarsi sempre di più. Si parlò, perciò, nella teorizzazione del P.C.I. e particolarmente di Togliatti, di democrazia progressiva. Essa veniva concepita come una fase intermedia tra la democrazia borghese - in senso tradizionale - e il socialismo; una fase intermedia di tensione e di lotta che stabiliva un intimo collegamento tra democrzia e socialismo. (31)

La guerra di liberazione avrebbe operato, nello specifico della situazione italiana, una sorta di transustanziazione dello “spirito” del socialismo nella democrazia borghese “tradizionale”. La “nuova” democrazia, come il P.C.I. ritiene tuttora sia quella italiana, in realtà non è sorta in contrapposizione al grande capitale monopolistico e contro di esso. Sono stati centri come la Banca Commerciale a svolgere nell’ultimo periodo del fascismo, quando era evidente a tutti il suo crollo imminente, a proteggere e sostenere non pochi capi del futuro Stato “democratico” di tipo “nuovo”. Gli stessi quaderni di Gramsci sono stati, come è ormai acquisito, passati da Sraffa alla Banca Commerciale che li ha custoditi gelosamente. Ma a parte ciò, la guerra di liberazione è nata, è stata allevata, è stata organizzata all’interno del fronte imperialistico più potente schierato nel H conflitto mondiale e perciò mai ha operato su basi che potessero in qualche modo essere considerate antimonopolistiche. L’involucro statale che ne è uscito al pari di quelli già esistenti nel fronte imperialistico occidentale, alla luce dei riscontri storici oggi possibili, non ha presentato alcuna delle caratteristiche ipotizzate dal P.C.I. e se ciò fosse avvenuto dovremmo oggi essere ad ammettere che tutto il materialismo dialettico è un anticaglia da museo. Avremmo cioè avuto, nel bel mezzo della società borghese, una sovrastruttura controllata o “egemonizzata” di lavoratori, mentre permaneva la loro subordinazione economica al capitale, e ciò, ormai, per circa quaranta anni, a meno che l’Italia non sia divenuto, nel frattempo, un paese socialista... all’insaputa dei lavoratori.

La democrazia italiana, nella sua ispirazione fondamentale, indicata dalla Costituzione, non è il risultato di un’egemonia borghese, bensì della funzione dirigente del proletariato e delle sue forze politiche. Non si era perciò determinata la situazione che faceva dire a Lenin “la repubblica democratica è il miglior involucro politico per il capitalismo”, perché ciò vale appunto per una democrazia di cui la forza egemone sia la borghesia... Il rapporto si è rovesciato: la democrazia è divenuto il terreno storico su cui la classe operaia può realizzare, difendere e allargare le proprie alleanze, estendere la propria influenza, fare avanzare il regime sociale e politico del paese. La democrazia si rivolge contro il dominio monopolistico e la forze politiche che lo rappresentano. Diverso è dunque il rapporto [altra transustanziazione - ndr] della classe operaia con la Costituzione democratica. La Costituzione è il risultato, nel suo insieme, della guerra di liberazione e delle lotte successive della classe operaia e dei suoi alleati. Difendere, attuare la Costituzione - anche se resta in limiti borghesi - diventa il modo con cui la classe operaia può meglio avanzare verso il suo obiettivo di classe, il socialismo. (32)

Siamo alla menzogna più sfacciata pronunciata con la coscienza di mentire. Si afferma ciò che è dimostrato dagli stessi intellettuali borghesi non essere vero e cioè che la democrazia si rivolge contro il dominio monopolistico, quando vi è tutto un processo storico che mostra come nell’ambito della democrazia ha avuto luogo e ha prosperato proprio quel processo di centralizzazione del potere che caratterizza il capitalismo monopolistico.

Certamente, il capitalismo monopolistico porta con sé una contraddizione insanabile con l’espansione delle forme democratiche anche borghesi, ma la democrazia borghese, così come la libera concorrenza rispetto alla concentrazione dei mezzi di produzione, non può in alcun caso costituire un ostacolo al processo di centralizzazione del potere. Non può esservi tra essa ed un’altra forma borghese (il monopolio) contrapposizione rivoluzionaria essendo entra nbe espressione di un medesimo modo di produzione; entrambe espressione di una medesima divisione di classe. La difesa della costituzione da parte degli operai, risulta quindi quanto di più arretrato si possa immaginare poiché difendere un pezzo di carta è un modo come un altro per arroccarsi in difesa di un passato ormai sepolto. Un pezzo di carta di cui, fra l’altro, si riconoscono i limiti borghesi.

Il volto del potere oggi
Il volto del potere oggi

L’elemento essenziale della dottrina di Marx è la lotta di classe. Così si dice e si scrive molto spesso. Ma questo non è vero e da questa deformazione errata deriva, di solito, una deformazione opportunista del marxismo, un travestimento del marxismo nel senso di renderlo accettabile alla borghesia. Perché la dottrina della lotta di classe non è stata creata da Marx, ma dalla borghesia prima di Marx, e può in generale, essere accettata dalla borghesia. Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e della politica borghese. Ridurre il marxismo, deformarlo ridurlo a ciò che la borghesia può accettare. Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi al riconoscimento della dittatura del proletariato. (33)

Ammettere, e ancor più se nella fase del dominio del capitale monopolistico, la possibilità, anzi la necessità, di una democrazia di tipo “nuovo”, ma che nella sua sostanza è tutta nell’esperienza storica del capitalismo, è riconoscere cittadinanza eterna alla dittatura borghese. Lenin a ragione marchia a fuoco questi falsi marxisti perché la loro opera distrugge ogni possibilità di pervenire alla dittatura del proletariato. Il proletariato non può condividere il suo potere con alcuno, né tanto meno con la borghesia perché il suo potere, la sua dittatura servono e si concretizzano soltanto e in quanto reprimono ogni forma di proprietà, ogni subordinazione delle forze produttive ad interessi che non siano quelli del proletariato e della maggioranza della società.

L’opportunismo -- scrive ancora Lenin -- non porta il riconoscimento della lotta di classe al punto precisamente essenziale, sino al periodo del passaggio del capitalismo al comunismo, sino al periodo del passaggio del capitalismo al comunismo, sino al periodo dell’abbattimento della borghesia e del suo annientamento completo. In realtà questo periodo è inevitabilmente un periodo di lotta di classe di un’asprezza inaudita, un periodo in cui le forme di questa lotta diventano quanto mai acute, e quindi anche lo Stato di questo periodo deve essere uno Stato democratico in modo nuovo (per i proletari e i non possidenti in generale), e dittatoriale in modo nuovo (contro la borghesia). (34)

Tanto più se si tiene conto che la macchina statale moderna è, come già abbiamo rilevato, capace di riprodurre, nel proprio seno, una borghesia di Stato che non abbisogna del riconoscimento giuridico della proprietà dei mezzi di produzione.

A prendere la parola a rigore, una vera democrazia non è mai esistita né esisterà mai. È contro l’ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata. Non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per occuparsi degli affari pubblici, e si vede facilmente che esso non potrebbe istituire commissioni a quest’uopo, senza che la forma dell’amministrazione cambiasse. Infatti io credo di poter porre come principio che, quando le funzioni del governo siano divise fra parecchi tribunali, i meno numerosi acquistano, prima o poi, la maggiore autorità, non fosse altro a cagione della facilità di sbrigare gli affari, a cui sono condotti naturalmente. (35)

Questa che a Rousseau appare una questione insolubile è invece l’obiettivo cui il proletariato deve tendere per poter pervenire ad una società di tipo socialista. Non vi sono alternative, né vie intermedie. Essa stessa è la fase intermedia fra una società divisa in classi ed una senza divisioni sociali. Essa stessa è, cioè, il mezzo perché superandone la ragione che lo determina, lo Stato, come macchina repressiva, possa “estinguersi”.

Lo Stato proletario per evitare che, a causa della potente concentrazione di mezzi di produzione che si determina nelle sue mani, si ricostituisca una nuova borghesia, e le forme economiche capitalistiche anziché essere distrutte si rinnovino, deve sostituire la macchina statale concepita ed organizzata per l’esercizio del potere della minoranza sulla maggioranza, con un’altra che consenta l’intervento diretto della maggioranza nella gestione economica e politica della società.

Anche qui non si tratta di procedere alla costruzione di nuove “città del sole”, ma di individuare, dati i nuovi scopi del processo produttivo e distributivo, la base per la costruzione della nuova sovrastruttura. È possibile oggi organizzare i due processi secondo gli interessi della collettività, ovvero secondo un piano necessariamente centralizzato, ma elaborato e controllato dalla classe operaia e in generale dalla maggioranza? L’esperienza storica del proletariato mostra che questo problema è risolvibile. Il proletariato nei tentativi compiuti fin qui ha proposto una macchina statale del tutto particolare capace di consentire alla maggioranza la più completa partecipazione alla gestione del potere. La Comune di Parigi ci offre indicazioni abbastanza precise per la costruzione di un simile Stato.

La Comune fu composta dei consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti dalla classe operaia. (36)

Dunque, innanzitutto la revocabilità. L’esperienza russa ha dimostrato però che la revocabilità in sé non è sufficiente a garantire il distacco del potere dalle mani della classe operaia in quelle dei suoi delegati. In Russia pur prevedendo i soviet, la revocabilità, il proletariato non è riuscito ad impedire il ritorno, seppure in una forma più avanzata, del capitalismo. Le ragioni sono certamente tante e già abbondantemente analizzate dal nostro partito. Qui ci preme sottolineare che l’esercizio della revocabilità, intanto è possibile, in quanto le masse lavoratrici possono esercitare il controllo sull’operato dei suoi rappresentanti. Un tale controllo implica la semplificazione più completa ed accessibile degli apparati di gestione di potere e ciò potrebbe apparire nella moderna società industriale pura utopia. Invece le tecniche più avanzate fornite dall’elettronica, mettono oggi i lavoratori nelle condizioni di esercitare tale loro diritto in via permanente e senza grosse difficoltà.

La computerizzazione, già largamente diffusa, sottratta alla borghesia, mette, chiunque sappia leggere e scrivere, nella condizione di accedere anche alle tecniche più complesse e specialistiche. Gli apparati burocratici che tanto gli operai parigini che russi tentarono di porre sotto il loro controllo, rendendo i funzionari pubblici eleggibili e revocabili in qualsiasi momento, oggi possono essere in gran parte soppressi. I processi produttivi possono essere vincolati ad un piano centralizzato senza che i produttori ne vengano “espropriati”, in quanto il processo di formazione delle decisioni può muovere dalla periferia al centro e viceversa, senza che le masse si radunino continuamente in assemblea. Senza contare che anche questa possibilità si è notevolmente accresciuta, vista l’elevatissima produttività del lavoro e l’automazione dei processi produttivi.

La formazione del processo decisionale che trova il veicolo per muovere dalla periferia al centro e viceversa risolve automaticamente anche la separazione del momento decisionale da quello esecutivo, aumentando le possibilità di controllo dell’operato dei rappresentanti dei lavoratori, realizzando, così, una delle conquiste più importanti della Comune sottolineata da Marx e da Lenin con estremo vigore.

La Comune sostituisce questo parlamentarismo venale e corrotto della società borghese con istituzioni in cui la libertà di opinione e di discussione non degenera in inganno; poiché i parlamentari devono essi stessi lavorare, applicare essi stessi le leggi, verificarne essi stessi i risultati, risponderne essi stessi direttamente davanti ai loro elettori. Le istituzioni rappresentative rimangono, ma il parlamentarismo, come sistema speciale, come divisione del lavoro legislativo ed esecutivo, come situazione privilegiata per i deputati, non esiste più. Noi non possiamo concepire una democrazia, sia pure una democrazia proletaria, senza istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo concepirla senza parlamentarismo. (37)

L’unità del processo legislativo ed esecutivo danno al controllo operaio un contenuto del tutto nuovo, nel senso che esso può finalmente esercitarsi su tutta la vita economica e politica e non limitarsi a votare

ogni tre o sei anni quale membro della borghesia dovesse mal rappresentarlo.

La produzione su vasta scala, la grande rivoluzione tecnologica di questi ultimi anni hanno messo nelle mani del proletariato tutti gli strumenti necessari ad una democrazia diretta per esprimersi compiutamente nell’opera di smantellamento di ogni strumento di repressione politica. Né questo implica la negazione del processo di concentrazione dei mezzi di produzione, al contrario risolve definitivamente la contraddizione che lo ha accompagnato per tutta l’esperienza storica del capitalismo tra il suo essere sociale e la sua subordinazione agli interessi angusti della classe dominante.

Organizziamo la grande industria partendo da ciò che il capitalismo ha già creato; organizziamola noi stessi, noi operai, forti della nostra esperienza operaia, imponendo una rigorosa disciplina, una disciplina di ferro, mantenuta per mezzo del potere statale dei lavoratori armati; riduciamo i funzionari dello Stato alla funzione di semplici esecutori dei nostri incarichi... è questo il nostro compito proletario che si può e si deve cominciare facendo la rivoluzione proletaria. Questo inizio sulla grande produzione, porta con sé alla graduale estinzione di ogni burocrazia, alla graduale instaurazione di un ordine - ordine senza virgolette, ordine diverso dalla schiavitù salariata - in cui le funzioni, sempre più semplificate di sorveglianza e di contabilità saranno adempiute a turno, da tutti, diverranno poi un’abitudine e finalmente scompariranno in quanto funzioni speciali di una speciale categoria di persone. (38)

Questa è la strada da percorrere, l’unica che realmente può evitare all’uomo moderno di essere trasformato nel più soggiogato degli schiavi che la storia ricordi, qualora inseguisse l’illusione di una democrazia borghese che dispensa socialismo per opera dello spirito santo e delle fandonie dei suoi apostoli sedicenti marxisti.

Giorgio

(1) Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Ed. Riun., pag. 200.

(2) Lenin, Stato e Rivoluzione, Ed. Riun., pag. 61.

(3) Engels, op. cit., pag. 203.

(4) Rousseau, Il Contratto Sociale, Ed Nuova Univ. Cappelli, pag. 183.

(5) Engels, op. cit., pag. 201-202.

(6) Rousseau, op. cit., pag. 113.

(7) Engels, op. cit., pag. 203-204.

(8) Engels, Antiduhring, Ed. Riun., pag. 305.

(9) Lenin, op. cit., pag. 93-94.

(10) Lenin, op. cit., pag. 85.

(11) Vedi Prometeo n. 1, 4a serie.

(12) E. Bernstein, Socialismo e Democrazia, Ed. Laterza, pag. 189.

(13) Marx, La guerra civile in Francia, Ed. La vecchia talpa, pag. 132.

(14) E. Bernstein, op. cit., pag. 187.

(15) Lenin, op. cit., pag. 92

(16) Lenin, op. cit., pag. 69

(17) Vedi M. L. Salvadori, Dopo Marx, Ed. Einaudi, pag. 47

(18) Lippman, La Filosofia Pubblica, Ed. Comunità, pag. 8

(19) Vedi Prometeo n. 5, 4a serie.

(20) Autori vari, Bilancio del marxismo, Ed. Cappelli, pag. 62.

(21) Tamburrano, op. cit., pag. 75.

(22) Engels, op. cit., pag. 297.

(23) Tamburrano, op. cit., pag. 77.

(24) Tamburrano, op. cit., pag. 79.

(25) Autori vari, op. cit., pag. 81.

(26) Tamburrano, op. cit., pag. 96-97.

(27) Tamburrano, op. cit., pag. 98-99.

(28) Tamburrano, op. cit., pag. 114-115.

(29) Tamburrano, op. cit., pag. 76.

(30) O. Damen, Amadeo Bordiga, Ed. EPI, pag. 36-37.

(31) L. Gruppi, La teoria marxista dello stato, Ed. Teti, pag. 341-342.

(32) L. Gruppi, op. cit., pag. 355.

(33) Lenin, op. cit., pag. 94.

(34) Lenin, op. cit., pag. 95.

(35) Rousseau, op. cit., pag. 224-225.

(36) Marx, op. cit., pag. 133.

(37) Lenin, op. cit., pag. 111-112.

(38) Lenin, op. cit., pag. 114.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.