Il fallimento della perestrojka

Il falso scenario entro il quale, nella ex Urss, avrebbe dovuto svolgersi il passaggio dall’economia di piano ad alcuni elementi dell’economia di mercato era caratterizzato dalla storica presunzione che la base di partenza della ristrutturazione fosse la società socialista e che il suo punto di approdo fosse un non meglio identificato sistema economico, all’interno del quale avrebbero dovuto convivere i capisaldi di una organizzazione della produzione e della distribuzione di tipo socialista con alcune categorie economiche dell’economia di mercato, ovvero del capitalismo.

Per i Maître à penser della perestrojka, in buona o cattiva fede che fossero, si era fatta ampiamente strada l’idea che la causa prima della profondissima crisi economica e delle sue devastanti conseguenze sociali fosse l’eccessiva ingerenza dello stato “socialista” nell’economia. Da qui l’implicito convincimento del fallimento del socialismo e della necessità della sua graduale trasformazione in elementi di economia capitalistica. Tra il 1985 e l’agosto del 1991, data del fallito colpo di stato, sia Gorbacev che i suoi collaboratori, pur perseguendo l’obiettivo del mercato e delle sue imprescindibili categorie economiche, per una sorta di opportunismo ideologico, continuavano a parlare di riformismo socialista, di aperture alle leggi del mercato ma non di stravolgimento del vecchio regime, aggiungendo confusione alla confusione.

L’idea che la sovrastruttura stato fosse, tra le componenti della crisi, quella che avesse il peso specifico maggiore, non era in quell’arco di tempo né originale, né una prerogativa dei riformatori del capitalismo di stato sovietico. Negli Stati Uniti, in Inghilterra, e poi in altri paesi ad alta industrializzazione, la deregulation, le privatizzazioni, la progressiva diminuzione o scomparsa del welfare state, sono stati una costante politica ed economica degli anni ottanta.

Per gli analisti sovietici, così come per quelli occidentali, l’errore è stato quello di non aver individuato, pur nelle sue specificità, con tempi e modi del tutto eccezionali, nella crisi del capitalismo di stato dell’Urss e dei paesi dell’Est un episodio, sia pur politicamente enorme ed economicamente dilatato, ma pur sempre un episodio di una ondata di crisi del capitalismo mondiale.

La reaganomics, così come la sua versione d’oltre oceano, ha creduto di tamponare le falle della crisi economica praticando un disastroso disimpegno (peraltro molto parziale) dello stato dalla economia, anche se nei fatti si è limitata a togliere dal bilancio statale le spese per l’assistenza sociale, peraltro già abbondantemente misera, per la scuola e la sanità, tagliando cioè i finanziamenti ai settori improduttivi, confidando nei meccanismi del “libero” mercato fuori da ogni tipo di ingerenza dello stato sia nella versione imprenditoriale che assistenziale. In conclusione, nulla è cambiato sul fronte della crisi, anzi tutti gli indici dell’economia reale si sono abbassati, e si è ingigantito sino a sfiorare i 50 milioni l’esercito dei nulla tenenti, ovvero dei diseredati.

Gli stessi analisti non si sono accorti, o hanno fatto finta di non accorgersi che al disimpegno dello stato, attraverso le privatizzazioni in alcuni settori dell’attività imprenditoriale, ha fatto riscontro un sempre più marcato intervento dello stato nella sfera finanziaria, rendendo la presenza statale più ingombrante e determinante di quanto lo fosse prima.

L’Urss, in ben altre situazioni di concentrazione dei mezzi di produzione e di centralizzazione del capitale finanziario nelle mani dello stato, si è incamminata sulla medesima strada facendo proprio l’assioma che solo privatizzando e ridando spazio alla libera imprenditoria si sarebbe potuto riguadagnare margini di profittabilità per i capitali investiti. Strane od occasionali similitudini? No. Più semplicemente, quando i meccanismi di valorizzazione si inceppano dando origine alle recessioni economiche, queste non tengono conto del tipo di organizzazione sociale che è chiamata ad amministrare i rapporti di produzione capitalistici. Quando le contraddizioni esplodono, lo fanno sotto l’involucro istituzionale del capitalismo di stato, privato o misto, pur nelle differenze di maturazione delle contraddizioni, di tenuta della sovrastruttura e del tipo di organizzazione sociale.

Ad una parte degli amministratori sovietici perestrojcanti, la crisi del capitalismo di stato, la diminuzione della massa dei profitti, l’incapacità di reggere competitivamente la concorrenza internazionale, la caduta del saggio medio del profitto nei settori dell’industria pesante e la ormai cronica mancanza di beni di consumo, sono apparsi come la conseguenza di intoppi, ritardi e disfunzioni dovuti alla presenza dello stato nell’economia, e non al maturare delle contraddizioni capitalistiche nella forma della gestione del capitalismo di stato.

Negli ambienti dell’accademismo riformista sovietico, fatta necessariamente astrazione dalla insostenibile confusione tra capitalismo di stato e socialismo, retaggio ancora non rimosso della controrivoluzione stalinista, è andata facendosi strada l’idea che solo demolendo le infrastrutture economiche e politiche della pianificazione, l’Urss, e con essa i paesi dell’Est europeo, avrebbe potuto tentare di riemergere da quel disastro economico in cui era pesantemente caduta.

Per tutta la seconda metà degli anni ottanta non c’è stato scontro, confronto o dibattito nelle sedi appropriate o a qualsiasi livello, che non vedesse lo stato ed i suoi organi della Pianificazione sul banco degli imputati.

I vari Aganbegjan, Gaidar e compagni, non hanno mai perso l’occasione di conclamare il definitivo fallimento dell’economia di Piano, il suo necessario superamento, assumendo come “nuovo” punto di riferimento l’economia di mercato dell’occidente, confortati in questa scelta sia dai guasti arrecati dall’economia di Piano, sia dal fatto che nello stesso opulento occidente, pur più nelle dichiarazioni di intenti che nei fatti, da Londra a Washington si gridava alle privatizzazioni, alla fine del welfare state, al ripristino delle leggi del libero mercato. Per loro, una sorta di viatico ben augurante; nei fatti, un vicolo cieco che li ha portati alla catastrofe definitiva, al crollo dell’Impero, all’incrudirsi della stessa crisi economica e ad episodi di sanguinosa guerra civile amministrati dalle borghesie repubblicane.

Se era nella logica delle cose che il passaggio da una gestione economica all’altra non potesse effettuarsi in modo indolore, pochi, e tra questi gli stessi iniziatori della perestrojka, erano disposti a credere che il prezzo della complessa operazione fosse così alto, cosi traumatico e, soprattutto così profondo da innescare furibonde lotte per il potere, forze sociali centrifughe, egoismi nazionalistici, massacri di militari e di civili e condizioni di vita per le masse lavoratrici al limite della sopravvivenza.

Quello che la perestrojka voleva ottenere e che non ha ottenuto

Nelle intenzioni di Gorbacev e di quella parte della borghesia di stato che avevano deciso di percorrere la strada della ristrutturazione totale, la perestrojka avrebbe dovuto compiere il passaggio dalla economia di Piano a quella di mercato, senza creare eccessivi scombussolamenti, perlomeno non più del necessario, piegando con il consenso popolare le istanze conservatrici della Nomenclatura burocratica e dell’Esercito, mantenendo intatto l’Impero cosi come lo avevano ereditato dall’amministrazione brezneviana, e soprattutto facendo in modo che la classe operaia, dalle province baltiche a quelle asiatiche, non si opponesse alle risicatissime compatibilità del nuovo corso economico.

Non poca cosa se si tiene in debito conto che, nonostante la spudorata campagna di sostegno di tutte le borghesie occidentali, il riformismo perestrojcante di Gorbacev poteva contare sull’appoggio operativo di una, anche se inizialmente compatta ed agguerrita, non rilevantissima parte della borghesia di stato e di un generale malessere sociale inoculato da più di un decennio di progressiva crisi economica, ma tutto da trasformare in consenso politico da conquistare ogni giorno tra la vecchia classe politica, nei grandi centri urbani, nelle fabbriche e nelle sterminate campagne.

Dalla sua, una porzione di quella borghesia burocratica disposta a correre l’avventura di trasformarsi, da gestori dei mezzi di produzione e del capitale finanziario, in proprietari degli uni e dell’altro; di riciclarsi da amministratori di plusvalore a estorsori diretti; da pubblici imprenditori sotto l’involucro del capitalismo di stato, a privati imprenditori in un’economia di mercato. In più una pletora borghese di aspiranti imprenditori, commercianti, bottegai, possibili liberi professionisti, mafie e mafiette che con il mercato nero e la politica delle tangenti non vedevano l’ora di rendere profittevoli i loro risparmi fuori e contro qualsiasi controllo dello stato. Per tutte queste categorie sociali la perestrojka non soltanto appariva per essere una specie di manna, ma aveva l’obbligo di proporsi in tempi brevi senza indugiare in considerazioni di tipo sociale o tantomeno etico. Se il problema era quello di togliere allo Stato il monopolio della estorsione del plusvalore e della conduzione dei meccanismi della valorizzazione del capitale, beh, allora occorreva farlo subito e con i mezzi più appropriati, violenza inclusa.

Contro, la linea Gorbacev, ha avuto sin dall’inizio quella parte della borghesia burocratica di stato che non solo non era disposta a correre l’avventura delle privatizzazioni e della libera imprenditoria, ma che vedeva ogni passo verso l’economia di mercato come un duro colpo a quella struttura sociale nella quale aveva fondato tutti i presupposti politici del suo privilegio economico. Ligacev e soci non hanno mai negato la necessità di un profondo processo di ristrutturazione economica ingenerato dalle devastazioni della crisi, solo che questa ristrutturazione avrebbe dovuto compiersi all’interno della pianificazione e non fuori, o peggio ancora, contro di essa. Per i “conservatori” l’andare verso l’economia di mercato significava smantellare i capisaldi del “socialismo” per aprirsi alle leggi del profitto, ovvero del capitalismo, inneggiando strumentalmente alla superiorità del primo rispetto al secondo.

Anche se scontatissimo per le nostre analisi, val la pena accennare al fatto che, al di là dell’uso strumentale dell’ideologia comunista, nell’Urss di quegli anni mai e poi mai si è posto il problema di un passaggio da una qualsivoglia struttura sociale di tipo comunista al capitalismo, ma che più semplicemente il passaggio dall’economia di piano all’economia di mercato altro non è che il tentativo di passare dalle forme organizzative del capitalismo di stato a quelle del capitalismo privato, anche se, a tutt’oggi, che le cose stiano in questi termini è ancora di là da venire.

Sempre contro la linea di Gorbacev si è manifestata l’indifferenza della stragrande maggioranza dei lavoratori. Educati per più generazioni nella menzogna della realizzazione del socialismo in Urss, nel bel mezzo di una grave crisi economica, che per loro si presentava sotto forma di salari di fame e di mancanza dei beni di prima necessità e di avversione al sistema che tutto ciò aveva creato, oscillavano tra lo sfarzoso “benessere” del mondo occidentale e il timore che l’economia di mercato potesse presentare ancora più problemi di quanti già ce ne fossero. In via subordinata aleggiava il sospetto che lo scontro tra riformisti e conservatori fosse tutto interno al Palazzo, e che poco o nulla, nonostante le dichiarazioni di comodo, aveva a che fare con gli interessi della classe operaia. Da qui lo scetticismo e l’indifferenza verso i contenuti della perestrojka.

Gli ostacoli politici

All’interno di questo quadro, era evidente ai propositori della “grande riforma” che, prima di poter mettere mano con qualche possibilità di successo ai fattori economici, occorreva sbarazzare il campo dalla presenza delle opposizioni politiche di “destra” e di “sinistra”, cioè dalla resistenza dei cosiddetti conservatori e dalle intemperanze dei radicali alla Eltsin, e coinvolgere le masse lavoratrici sul terreno delle riforme democratiche ed economiche, quali panacee di tutti i mali passati e presenti. Il tutto nella presunzione di tamponare le possenti pressioni centrifughe delle Repubbliche periferiche, che sollecitate dalla crisi economica, amministrate da spregiudicate borghesie burocratiche regionali, non vedevano l’ora di gestire in proprio le rispettive quote di plusvalore senza più dipendere dal famelico potere centralizzatore di Mosca.

La lotta sui tre fronti, con la relativa conservazione del traballante impero, avrebbe avuto possibilità di riuscita solo a condizione che la crisi economica allentasse la morsa, che le devastanti conseguenze del precipitare dei saggi della produttività, degli investimenti e dei profitti si riducessero a livelli sopportabili.

Non solo questo non si verificò nei sei anni di amministrazione gorbacioviana, ma tutti gli indici economici registrarono una ulteriore, fatale flessione. In linea con l’evolversi negativo degli avvenimenti, la strategia di Gorbacev ha dovuto continuamente aggiustare il tiro. Da un’approccio politico propositivo (necessità dell’immediata introduzione delle riforme e contrapposizione frontale verso i nemici politici) è passata ad una tattica di compromissorio attendismo (sospensione e/o rallentamento nella introduzione delle riforme economiche e ricerca, soprattutto all’estero tra i paesi del campo occidentale, di sostegno e di alleanza da giocare a proprio vantaggio nella situazione interna) per approdare ad una politica di arroccata difesa sino al crollo definitivo.

Nell’ultimo periodo, sempre più chiuso nella morsa dei suoi avversari politici, che da versi opposti e su opposti programmi lo pressavano senza dargli praticabili vie di scampo, Gorbacev ha giocato le residue carte con opportunistica determinazione.

Nell’estremo tentativo di rimanere alla guida dell’Urss, ha operato contemporaneamente sui due versanti opposti della questione politico-istituzionale: promessa delle riforme democratiche e pretesa di una maggiore concentrazione dei poteri istituzionali. Democrazia ed autoritarismo, questi i due corni della questione. In altri periodi ed in aree diverse, si sarebbe potuto definire una simile politica di sopravvivenza quella “della carota e del bastone”. Promesse a chi di dovere per l’affannosa ricerca del consenso, pugno di ferro e repressione per gli oppositori.

Le promesse democratiche proposte, quali il pluralismo politico, le libertà di associazione e di espressione, la riforma istituzionale dei meccanismi di eleggibilità dei rappresentanti politici a tutti i livelli, la maggiore autonomia delle Repubbliche rispetto al Centro, la creazione di centri consultivi e decisionali non necessariamente dipendenti dal Pcus, avevano strumentalmente l’obiettivo di agganciare le masse lavoratrici al progetto perestojcante e di tranquillizzare le irrequiete borghesie periferiche.

In seconda battuta, più le riforme politiche fossero avanzate più i margini di agibilità dell’ala conservatrice si sarebbero ristretti permettendo a Gorbacev di procedere con maggiore velocità e sicurezza. Era sin troppo evidente, anche per un neofita delle procedure privatistiche, che un colossale processo di ristrutturazione economico, come quello che si andava e si va tuttora paventando, non avrebbe potuto muovere un passo senza che i produttori di plusvalore accettassero, artatamente convinti, di comportarsi come una variabile dipendente alle necessità di valorizzazione del capitale.

In caso contrario solo l’esercizio della forza avrebbe potuto garantire il proseguo del processo di rinnovamento economico, sia contro l’ingovernabilità delle masse, sia contro i processi di secessione delle borghesie periferiche. Ma perché l’uso della forza fosse non solo possibile, pronto ed efficace, ma anche legittimo, occorreva che istituzionalmente dipendesse centralmente da un’unica persona giuridica, la sua.

Non per niente, dopo aver costatato la riluttanza e/o l’indifferenza della stragrande maggioranza della popolazione produttiva ai tempi della grande riforma e dopo aver costatato che il tentativo secessionistico delle Repubbliche baltiche poteva essere preso a modello dalle altre Repubbliche, e che i conservatori e i radicali non avevano nessuna intenzione di deporre le armi, Gorbacev ha tentato il suo, piccolo, colpo di stato. Oltre che segretario del Pcus e Presidente dell’Urss si è fatto nominare capo del Governo, ha invocato ed ottenuto i pieni poteri, compreso quello delle leggi eccezionali qualora la situazione interna lo richiedesse.

Solo ripulendo il campo dagli ostacoli politici di qualsiasi provenienza e dall’eventuale ripresa della lotta di classe, il Grande riformatore avrebbe avuto ragionevoli speranze di continuare sulla sua strada e di rimanere saldamente al potere.

Il piano non è riuscito, non tanto per una reazione delle masse lavoratrici, che al contrario, a parte qualche significativo episodio come quello dei minatori, non si sono inserite nello svolgimento dei fatti, quanto perché l’aggravarsi della crisi ed il rafforzarsi di quegli ostacoli politici provenienti dall’alto delle vecchie strutture di partito e dall’ambiente della burocrazia statale si sono rivelati insormontabili.

Lo stesso dubbio episodio del fallito colpo di Stato dell’agosto 1991, una volta pietosamente esauritosi, invece di rilanciare le ambizioni gorbacioviane, le ha affossate del tutto, aprendo la strada al suo avversario di sinistra, Eltsin e alla rovinosissima caduta dell’Impero. Uno degli aspetti paradossali del fallimento della perestrojka, versione Gorbacev, sta tutto nel fatto che il suo maggiore affossatore, Eltsin, ne ha sempre rivendicato la necessità e l’impellenza, accusando Gorbacev di incoerenza e di eccessivo attendismo. Anche per il futuro nuovo Zar della sola Russia, la grande riforma avrebbe dovuto risolvere i problemi economici senza suscitare le ire delle masse lavoratrici e senza distruggere l’impero. Dal suo punto di vista prima arrivava la lotta per il potere, prima doveva sconfiggere il suo avversario anche a prezzo di stravolgere i due grandi obiettivi. Poi avrebbe amministrato da solo ciò che rimaneva della perestrojka e dell’Impero, cercando di fare della sua Russia il centro di aggregazione della nuova Unione e di sé stesso il salvatore di tutte le Russie dalla peste comunista.

Solo in questa chiave è possibile leggere gli episodi che in rapida successione hanno portato l’Urss alla definitiva rovina. Dopo il fallito colpo di stato di agosto, quando Gorbacev, usufruendo degli ultimi spiccioli del suo potere, ha messo fuori legge i partiti comunisti e ha decretato la fine dell’Urss, proponendo una nuova forma associativa delle quindici Repubbliche ex sovietiche sotto la denominazione di Urss, Unione delle Repubbliche Sovrane, si è visto sbarrare la strada dall’iniziativa di Eltsin delle tre Repubbliche slave prima, e della Csi poi.

Cosi la perestrojka, prima ancora di muovere i primi significativi passi verso il mutamento dell’economia, travolta dall’ingigantirsi della crisi economica, si è risolta, suo malgrado, per essere un potente fattore di disgregazione interna, un motivo di scollamento della periferia rispetto al centro e, in mancanza di una ripresa della lotta di classe, l’indisturbato terreno di scontro per il potere tra le varie fazioni borghesi.

Il crollo del più colossale impero retto a capitalismo di Stato, non poteva determinarsi che a colpi di feroce guerra civile, di faide di Palazzo, di recrudescenze etnico-religiose, di nazionalismi vecchi e nuovi, di tutto quel vecchiume e di quelle ideologie antistoriche di cui si sono nutrite quasi tutte le borghesie regionali.

I limiti del passaggio all’economia privata

Se le faide politiche interne alla struttura dell’Urss hanno giocato un ruolo importante sul rallentamento delle innovazioni economiche previste dalla perestrojka e sullo sfaldamento dell’impero, determinanti sono stati l’aggravarsi della crisi economica e la difficoltà tecnica di accedere in tempi brevi ai meccanismi di un’economia di mercato di stampo occidentale.

I profeti della grande riforma non si nascondevano certamente le grandi difficoltà verso le quali stavano camminando, ma non pensavano di dover fare i conti con ostacoli economici e finanziari la cui superabilità si è dimostrata nel breve periodo sempre meno a portata di mano. Un conto era legiferare sulle privatizzazioni, sulla riforma delle Comuni e sulla nascita di imprese cooperativistiche o di società per azioni nell’industria e nel settore agricolo, una cosa era prefigurare giuridicamente il passaggio dalla proprietà statale a quella privata di consistenti settori dell’economia; altra cosa era la praticabilità di tutto questo, i suoi costi sociali e le nuove disfunzioni che si sarebbero pericolosamente sommate alle vecchie.

Sin dall’inizio, da quanto cioè la perestrojka ha assunto nei progetti dei riformatori del Palazzo il ruolo di condizione necessaria alla salvezza della patria, tre erano i cardini attorno ai quali tutto avrebbe dovuto ruotare: progressiva destatalizzazione dell’economia, reperimento di capitale finanziario e di tecnologia sui mercati finanziario e commerciale internazionali.

Per ciò che riguarda gli ultimi due problemi, l’idea gorbacioviana era quella di dare vita ad imprese a capitale misto (Joint ventures), con le quali attirare capitali e tecnologie occidentali indispensabili a qualsiasi processo di ristrutturazione, in particolare a quello sovietico, povero di capitali e con una struttura produttiva tecnologicamente obsoleta in quasi tutti i settori più importanti dell’economia. In contropartita il regime sovietico avrebbe concesso la possibilità ai partners occidentali di detenere il 51% del pacchetto azionario, cioè di avere nelle proprie mani la gestione produttiva e commerciale dell’impresa, e la ghiotta opportunità di reperire in loco materie prime e soprattutto forza lavoro a prezzi estremamente concorrenziali.

A parte l’invito americano a non favorire più di tanto l’asfittica economia sovietica, invito che, sino al fatidico dicembre del ’91, aveva la doppia valenza di impedire all’ex storico nemico una facile convalescenza e ai capitali europei, segnatamente a quello tedesco, di realizzare autonomamente il controllo di vaste aree economiche e remunerativi investimenti, per i capitali occidentali l’avventura sovietica si presentava più problematica del previsto. Innanzitutto le opportunità di investimenti produttivi ex novo o di rilevamento di strutture produttive statali, si sono rivelate in genere meno appetibili e quindi meno praticabili di come apparivano sulla carta. Per cui delle quasi 3 mila Joint ventures poste in essere dal capitale finanziario occidentale, solo pochissime, sei o sette, hanno svolto il ruolo per il quale erano state progettate. Tutte le altre si sono inserite in settori secondari come quello terziario, delle infrastrutture o del commercio di piccolo cabotaggio, eludendo completamente le aspettative dell’ambizioso mega-progetto di ristrutturazione.

In secondo luogo, la recessione dell’economia occidentale, caratterizzata tra le altre cose da una accentuata penuria di capitali e dall’alto costo del denaro, accoppiata all’insicurezza del quadro politico istituzionale che ha caratterizzato l’Unione Sovietica nella seconda metà degli anni ottanta, sino alla sua dissoluzione, ha indotto Governi ed imprenditori d’occidente ad andare con i piedi di piombo.

La prospettiva di rischiare i già scarsi capitali in un quadro di riferimento politico incerto, concludere contratti che avrebbero potuto saltare assieme al regime, sono stati pesanti deterrenti anche per gli imprenditori più avventurosi. In aggiunta l’inconvertibilità del rublo, o la sua convertibilità promessa e mai raggiunta, ha reso l’avventura dei capitali occidentali verso l’est, una questione a rischio da prendere con le molle.

Anche dopo il crollo dell’Impero, nella neonata Csi come nella stessa Russia di Eltsin, l’afflusso di capitale finanziario e tecnologia occidentali hanno segnato il passo. Il che non sta a significare che le imprese a capitale misto non siano nate, ma che il loro numero e soprattutto le loro dimensioni, e quindi l’apporto in termini di capitali e di tecnologia, sono stati nettamente al di sotto delle aspettative dei fautori della grande riforma. Sino ad ora, l’Occidente europeo ha preferito rischiare capitali in regimi politici più stabili ed in settori più sicuri. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia sono stati i paesi dell’Est ad avere la preferenza per la loro maggiore stabilita politica; informatica, telecomunicazioni e settore metalmeccanico (produzione di automobili), gli ambiti economici prescelti dagli investimenti.

Per cui, sia nella vecchia Urss che nell’odierna Csi, il perno tecnologico-finanziario attorno al quale avrebbe dovuto ruotare tutto il processo della ristrutturazione economica, praticamente non si è mosso, o là dove si è proposto lo ha fatto con risultati pressoché irrilevanti.

L’altro nodo del passaggio dall’economia di piano all’economia di mercato, le privatizzazioni, si è dimostrato nei fatti, anche se per ragioni diverse rispetto alla nascita delle Joint ventures, altrettanto problematico. L’Urss si è presentata all’appuntamento con le privatizzazioni in condizioni finanziarie disastrose.

A parte la ormai cronica penuria di capitali, ed un debito estero pari a 52 miliardi di dollari, la struttura portante dell’apparato finanziario, la capacità di rastrellamento dei risparmi e dei piccoli capitali, la rigidità delle forme di credito erano praticamente rimaste ferme.

Anche se un progetto di legge del 1987 prevedeva la possibilità di creare, accanto a quelle di stato, altre banche, istituzionalmente autonome e autofinanziantesi, e concedeva allo stato di autofinanziarsi attraverso l’emissione di Certificati di Credito, ed alle imprese di emettere azioni ed obbligazioni, sullo schema dei mercati monetari e finanziari dell’Occidente, la sua operatività è rimasta quasi totalmente sulla carta.

Per cui, uno stato finanziariamente debole, indebitato sino al collo, bisognoso esso stesso di capitali, non era assolutamente in grado di favorire il processo di privatizzazioni provocando centralmente la devalorizzazione dei beni strumentali e delle infrastrutture concentrate nelle sue mani. Se si fosse trovato in condizioni finanziarie meno precarie, il capitalismo di stato sovietico avrebbe potuto accompagnare il sistema economico realizzato verso le prime consistenti conquiste dell’economia privatistica, svendendo le proprie strutture produttive o cedendole al prezzo simbolico di un rublo. Solo a questa condizione si sarebbe potuto creare la condizione propizia ed operativamente percorribile del passaggio, anche se parziale, ai privati dei beni strumentali. Così, invece, l’offerta di privatizzazione restava all’interno dell’area delle buone intenzioni senza percorsi privilegiati o agevolazioni di sorta. Per giunta, a peggioramento della situazione, nell’ultimo biennio di vita dell’Urss (l990-91), gli indici economici sono ulteriormente peggiorati. L’inflazione si era stabilizzata sul 35-40%, -3% il prodotto nazionale lordo, la produzione industriale era calata del 7% mentre sempre bassissima, -6%, era la produttività del lavoro.

In simili condizioni, i mancati introiti delle eventuali privatizzazioni e i loro costi sociali, avrebbero avuto l’effetto di accelerare ulteriormente la disgregazione del Governo centrale.

Analogo discorso per la domanda di privatizzazione. L’aspirante borghesia privata sovietica si è trovata nella scomoda posizione di chi, pur volendo con grande determinazione, non può concludere l’affare con buona soddisfazione. La distanza tra il volere e il potere, ancora una volta sta nella mancanza di capitali, e questa volta nella versione privata.

Per quanto gli aspiranti borghesi nella versione privata abbiano potuto accumulare nelle vesti di borghesia di stato, amministrando individualmente quote più o meno rilevanti di plusvalore socialmente prodotte, fatti salvi rarissimi casi eccezionali, nessuno di essi poteva gestire una concentrazione di capitale finanziario sufficiente a proporsi quale consistente quota-parte di domanda di privatizzazione.

Le grandi imprese statali, lo sfruttamento e la commercializzazione delle materie prime, il possesso e la gestione dei grandi e medi centri di distribuzione sono rimasti privatizzabili sulla carta, nei disegni di legge, nelle ambiziose aspettative della costituenda borghesia privata, ma non nell’immediato procedere degli avvenimenti riformistici.

Perché operativamente le cose potessero avere un minimo di possibilità d’attuazione, occorreva che accanto, e parallelamente al pronunciarsi delle normative sulle privatizzazioni, lo stato provvedesse a favorire la concentrazione e lo sviluppo del capitale privato, o quantomeno di quella minima concentrazione in grado di innescare l’inizio del processo di privatizzazione.

Invece la struttura creditizia è rimasta tale e quale, rigida e monopolizzata dallo stato, l’auspicato passaggio dalle Casse di Risparmio a Istituti di credito a breve e medio termine stentava a realizzarsi, la nascita delle Banche Commerciali private dava segnali di enorme difficoltà; delle creazioni di Fondi di Investimento, in quegli anni cruciali, non se ne è nemmeno parlato. Il primo esempio lo si è avuto molto tardi, nel maggio del ’92, non nell’ex Urss, ma in Ungheria a sostegno proprio di un ambizioso programma di privatizzazione.

Nell’Urss di Gorbacev, quando la borghesia riformista stava tentando l’operazione più complessa e politicamente delicata, sono venuti meno i due fattori determinanti il passaggio dalla proprietà statale dei mezzi di produzione alla proprietà privata degli stessi.

Uno, lo stato, dilaniato dalle faide intestine, prostrato dal perdurare e dall’aggravarsi della crisi, bisognoso di capitali concepiva il programma delle privatizzazioni più come un modo per autofinanziarsi che non come un obiettivo da favorire finanziariamente. Quindi si era in presenza di uno stato che da un lato predicava l’assoluta necessità di passare ad un regime di proprietà privata e di libera imprenditoria, e dall’altro si comportava in modo non conforme alle sue stesse aspettative.

Due, la penuria di capitali privati e la loro mancata concentrazione, hanno fatto sì che l’effettiva domanda di privatizzazioni fosse debole, marginale e soprattutto non in grado da sola di operare il tanto agognato passaggio dall’economia di piano a quella di mercato.

Nel quinquennio 1987-91 le poche privatizzazioni che si sono effettuate hanno riguardato imprese di piccole o piccolissime dimensioni, attività professionali, la gestione di fattorie, il piccolo commercio ed alcune cooperative ed ex-comuni.

La grande industria statale, peraltro oggetto economico da Joint ventures e non da semplice privatizzazione, è rimasta inchiodata al suo posto, lo stesso dicasi per le grandi imprese agricole dello stato, vecchie e tecnologicamente obsolete.

Rimanendo le Joint ventures e le privatizzazioni più sulla carta, a livello di aspettative inevase che non svolgenti il ruolo trainante dell’intera e complessa riforma economica, la perestrojka, se per perestrojka si intende l’articolato progetto di passare da un’economia pianificata, gestita interamente dallo stato, ad una economia di mercato caratterizzata dalla libera imprenditoria, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e da tutti i suoi corollari, salvando l’impalcatura dell’Impero ereditato dalla gestione brezneviana, si è arenata sulle secche di quella stessa crisi che l’aveva generata.

In altri termini, quella che avrebbe dovuto essere un’efficace cura al grande male del capitalismo di stato, si è risolta per essere un momento di aggravamento e di accelerazione della crisi sia sul fronte economico che su quello politico istituzionale. Non solo la perestrojka, nei sei anni di amministrazione gorbacioviana, non ha rimosso i problemi di contrazione della massa dei profitti, della caduta del saggio del profitto, della diminuzione della produttività e della devastazione dell’intera economia, ma ha finito per favorire le lotte di Palazzo per il potere centrale, i movimenti centrifughi delle borghesie repubblicane, e quindi, lo sfascio completo dell’Urss.

Nella storia moderna del capitalismo, non si era mai dato un crollo di regime così vasto, profondo e repentino, ma non si era mai dato nemmeno una crisi economica di così devastante portata, né un tentativo di soluzione di queste caratteristiche.

Ma come drammaticamente succede in simili circostanze, la vera vittima dello sfascio e delle soluzioni di ricompattamento dei meccanismi di valorizzazione del capitale sia in chiave statale che privata, è la classe lavoratrice. Nell’effimera, ultima fase di sopravvivenza dell’Urss, il disorientato e politicamente svilito proletariato sovietico è stato oggetto di rozze ma efficaci turlupinature.

Proveniente da sessant’anni di controrivoluzione stalinista, nei quali la conservazione del capitalismo di stato ha operato con le buone e con le cattive per imprimere nelle coscienze proletarie la convinzione che statalismo e pianificazione significassero socialismo, la classe operaia sovietica è andata all’appuntamento con la crisi e con la perestrojka ideologicamente disarmata e confusa. Poi è rimasta attonita e disinteressata alle contorsioni dei padri della perestrojka. Al riguardo non va dimenticato come Gorbacev abbia esordito proponendosi quale riformatore socialista prima, antisocialista poi, e ogni volta chiamando le masse a sostenere il suo progetto. Infine il proletariato sovietico, dall’Armenia alle province baltiche, dal Turcmenistan all’Ucraina è stato chiamato a fare quadrato attorno agli interessi delle rispettive borghesie regionali. Inizialmente come carne da cannone da immolare sulle nuove frontiere borghesi. Poi, dopo la caduta dell’Impero, in Russia come altrove, sulle sue spalle le nuove, decentrate borghesie tenteranno di ricostruire il ricostruibile in nome della vecchia o di una nuova perestrojka.

Fabio Damen

Prometeo

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