Uomo, ambiente e capitale

Linee generali e un esempio

Che lo sviluppo (o la sopravvivenza diremmo meglio) del modo di produzione capitalista minacci l'equilibrio dell'ambiente e trovi dunque dei limiti è ormai un dato acquisito dallo stesso pensiero borghese. Ad esprimere il pensiero borghese ovvero l'ideologia della classe dominante tesa alla conservazione del dominio stesso, non sono certo i piccoli industriali di cui l'Italia abbonda e che esprimono nel nuovo governo la grettezza e la corta visione dei loro immediati interessi individuali che li caratterizza.

A interpretare le preoccupazioni della borghesia come classe storica e storicamente dominante sono piuttosto enti come il Club Di Roma o le commissioni dell'ONU, o il World Watch Institute. (1)

Scopo di questo lavoro non è certo quello di sottoporre ad analisi critica la massa di dati e di elaborazione ideologica degli stessi emessa da tali organismi, quanto quello di indicare le linee generali della critica marxista e alcune prospettive, altrettanto generali, dell'azione rivoluzionaria.

Cominciamo con la definizione di alcuni concetti basilari.

Uomo e ambiente - Un rapporto speciale

L'uomo ha iniziato a modificare l'ambiente naturale di cui è parte nel momento stesso in cui ha iniziato a dominarne alcuni fenomeni subordinandoli alle proprie necessità.

Il processo vitale di qualunque specie, animale o vegetale, implica una interazione fra la specie stessa e l'ambiente. Le interazioni possono essere di diverso tipo ed entità.

Brusche e violente variazioni dell'ambiente possono indurre modificazioni in una specie o addirittura la sua scomparsa (ricordiamo il caso eclatante dei dinosauri). D'altra parte l'azione "naturale" della specie induce a sua volta modificazioni nell'ambiente stesso: dalla formazione dell'attuale atmosfera ricca di ossigeno e favorevole alla vita animale, da parte dei vegetali nelle epoche primordiali della Terra, alla deviazione del corso dei fiumi a opera dei castori

Ciò che contraddistingue l'uomo dagli altri animali, nel rapporto con l'ecosistema, è però la sua capacità di conoscerlo progressivamente e sulla base di questa conoscenza modificarlo piegandolo alle proprie necessità.

Già quando l'uomo sistematizza le sue conoscenze sulle pietre e le loro proprietà e le traduce in ricerca e lavorazione di quelle più adatte a tagliare a raschiare o a colpire a distanza realizza un'azione sulla natura qualitativamente diversa dall'impiego dei bastoni da parte delle scimmie o del filo d'erba da parte dell'orso per stanare le formiche.

Quando poi le comunità umane passano dallo stato nomadico di pura caccia e raccolta alle prime forme di allevamento e di agricoltura le caratteristiche del loro particolare rapporto con la natura appaiono più evidenti. Il dissodamento, per quanto primitivo, del terreno per la semina e la raccolta di specie vegetali scelte dall'uomo stesso, costituisce un intervento sulla natura che va ben al di là della spoliazione "naturale" di un cespuglio delle sue bacche, come potrebbe essere operato da uno stormo di uccelli o da uno sciame di insetti.

È la rivoluzione neolitica, la prima grande rivoluzione tecnologica e scientifica dell'umanità, mediante la quale la produzione diventa la fondamentale, se non ancora unica, forma di sostentamento dell'uomo e delle sue collettività. L'intervento sulla natura è reso necessario ed è attuato al fine di adeguare l'ambiente, in quanto condizione della produzione, alle necessità di produzione stesse.

La comunità naturale della tribù o, se si vuole, il gregarismo, è il primo presupposto - voglio dire l'affinità di sangue, di lingua e di costume - dell'appropriazione delle condizioni oggettive della loro vita e della riproduzione e oggettivazione dell'attività di cui vivono (attività di pastori, cacciatori, agricoltori). La terra è insieme il grande laboratorio, l'arsenale che dà i mezzi e il materiale di lavoro e la sede che costituisce la base della comunità. Con essa gli uomini istituiscono un rapporto istintivo come la proprietà della comunità, e della comunità che si produce e riproduce nel lavoro vivo. (2)

Siamo ancora nella fase in cui manca agli uomini il concetto stesso di proprietà. Non a caso tale rapporto istintivo emerge nelle più svariate forme mistiche, para religiose in cui non c'è confine definito fra la ragione umana e le raffigurazioni che la psiche dell'uomo si fa della natura e delle forze in essa agenti.

Fra queste raffigurazioni della collettività c'è quella divinizzata del faraone o del despota asiatico che appare il creatore delle grandi opere come quelle di regolazione delle acque, quali condizioni collettive dell'effettiva appropriazione mediante il lavoro.

Altrove (e siamo nella culla della civiltà classica) la comunità per vicende storiche peculiari a quest'area, appare sempre come primo presupposto:

ma non quale sostanza di cui gli individui siano meri accidenti o della quale siano elementi puramente naturali - presuppone cioè come base non la campagna, ma la città come sede già creata (centro) degli agricoltori (proprietari fondiari). L'agro si presenta come territorio della città; non il villaggio come mero accessorio della campagna. La terra in sé - per quanto possa offrire ostacoli alla sua lavorazione e appropriazione effettiva - non offre nessun ostacolo alla istituzione di un rapporto con essa in quanto natura inorganica dell’individuo vivente, suo laboratorio, mezzo di lavoro. oggetto di lavoro e mezzo di sussistenza del soggetto. (3)

In tutti i casi, scopo della produzione - annotiamolo bene - è ancora l'uomo stesso e i suoi bisogni. Non si è ancora arrivati al rovesciamento per cui è la produzione a essere scopo (non degli uomini ma del capitale al quale la collettività è sussunta).

Questo rivolgimento lo compirà il modo di produzione capitalista fattosi dominante.

Per tutta la fase precedente la rivoluzione sociale ed economica della borghesia, dunque, il rapporto delle collettività umane con la natura è pur sempre teso al dominio di questa da parte di quello: ma questa tendenza è limitata da alcune condizioni.

La prima è quella sopra annotata: gli interventi sulla natura sono limitati alle necessità immediate della produzione a sua volta limitata ai bisogni della popolazione. Il lavoro, la specifica attività umana di produzione, è ancora quasi esclusivamente lavoro necessario, dove fra le necessità che la produzione deve soddisfare rientrano i consumi di lusso delle classi dirigenti e quelli delle comunità con le quali i mercanti mediano il rapporto. L'invenzione del sistema di rotazione dei campi insieme a quella del giogo a spalla per gli animali (intorno all'anno 1000) comporta un aumento della produzione agricola in misura superiore all'aumento delle estensioni coltivate (quindi un raffreddamento della necessità di nuovi disboscamenti), sufficiente ad alimentare una popolazione in forte crescita.

Altro fattore limitante dell'impatto umano sulla natura, e connesso al primo, è la scarsa circolazione delle merci e degli uomini. I commerci, per quanto sviluppati, si limitano a quanto scambiabile con il plusprodotto posseduto da corti, aristocratici e clero e proveniente quasi esclusivamente dall'agricoltura. Limitatezza della circolazione e dei trasporti significa limitato impatto delle vie e dei mezzi di trasporto, che si traduce in un intervento sulla natura tale da non intaccarne però gli equilibri globali.

Scienza e tecnica

Sul piano sovrastrutturale, nei modi di pensare e considerare la natura, questa appare, in tutto l'arco storico precapitalista, come un elemento a sé e per sé, spesso sacralizzato seppur in modi progressivamente diversi (dal dio sole Ra degli egizi alle nove sfere celesti di santa romana chiesa). La sete di conoscenza che pur ha sempre caratterizzato l'umanità è sempre stata segnata da domande quali "Come ha avuto inizio il mondo? Come è fatto? Come è diventato quello che è ora?". E sempre l'uomo, nella fattispecie di prete, erudito o 'scienziato', ha dato risposta nella forma di miti cosmologici che descrivono nei modi più fantasiosi come gli dei crearono il mondo o portarono l'ordine dove prima regnava il caos. A quei miti, per amor dell'armonia, dovevano poi corrispondere seppur ai diversi gradi di cultura, le spiegazioni dei fenomeni più semplici: dalla caduta dei gravi alla diffusione del calore e della luce.

Ma scienza e tecnica procedevano su piani distinti e quasi mai connessi. La "scienza" ai dotti, ai filosofi (generalmente preti, cristiani o no), la tecnica ai contadini, agli artigiani, ai mercanti.

Agli scarsi rapporti fra questi e i filosofi corrispondeva la scarsa o nulla corrispondenza fra le acquisizioni della tecnica e le elocubrazioni dei filosofi.

Finiti i secoli bui, attorno all'anno 1000 si inventa anche la ruota per filare, poco dopo si sviluppa l'uso dei mulini a scopi diversi dalla sola macinazione dei cereali (follatura dei panni, martelli da frantumazione, mantici da forgia), quasi in contemporanea (ca 1150) si produce acido nitrico dalla distillazione di una miscela di salnitro e allume e si distilla l'alcol, utilizzato nella fabbricazione dei profumi. Molti altri sono i progressi in tutti i campi della tecnica, ma essa attiene ancora solo a quella produzione volta al soddisfacimento dei bruti bisogni materiali dell'uomo, dalle cui problematiche i dotti solitamente rifuggono, e che comunque sono estranee al mondo medievale della "virtute e canoscenza". L'alchimia si avvale, sì, di molte singole scoperte ma rimane ferma alla tesi della trasmutazione dei metalli, alla ricerca dunque della pietra filosofale; giunge a confliggere con la "scienza ufficiale" della Chiesa che la condanna, tuttavia rimane nei cieli del sapere metafisico, fine a se stesso.

L'uomo vince e piega a sé la natura a partire dalla conoscenza che ne acquisisce. Ma il procedere di questa conoscenza è diviso su piani diversi e con caratteristiche diverse e non convergenti.

La modifica e l'adattamento delle condizioni oggettive (e ambientali) della produzione avanza secondo le richieste di questa; la conoscenza più generale della natura, non è tale in realtà e si muove su un terreno estraneo alla pratica del rapporto con la natura medesima. I produttori reali studiano e conoscono quanto immediatamente necessario alla produzione; gli studiosi fantasticano e si leggono l'un l'altro circa il mondo, la sua natura e composizione, il suo rapporto con l'universo e con le/la entità divina che tutto crea e giustifica.

In altri termini, possiamo dire che la conoscenza agente sulla natura, propria e pertinente al mondo della produzione viaggia indipendentemente da una pretesa conoscenza generale che sulla natura non ritorna né vuole ritornare.

Gli scienziati d'oggi, legati come sono alla forma immediata della "loro" storia dicono che l'origine della scienza moderna sta in due nuovi fattori che intervennero pochi secoli fa: l'invenzione delle lenti e del modo di disporle per farne telescopi e microscopi e l'inizio, da parte di un certo numero di scienziati, dello studio sistematico di fenomeni quali l'oscillare del pendolo e il rotolare dei corpi sferici. Seguiamo un illustre fisico e astrofisico come Hannes Alfvén:

Che cosa poterono trovare di così affascinante in questi fatti banali? Perché non continuare a sondare gli affascinanti misteri dell'universo? È abbastanza semplice: investigando fenomeni così ordinari, essi poterono, almeno in un settore liberarsi dalla inconsistenza del mito e costruire un sistema di conoscenze basato soltanto su osservazioni verificabili. Nessun esperimento poteva essere accettato finché non fosse 'riproducibile', vale a dire finché non producesse lo stesso risultato indipendentemente da quando dove o da chi fosse fatto. (4)

É vero, ma non sufficiente. L'altra questione che si pone infatti è questa: perché "solo pochi secoli fa" intervennero quei due fattori e in modo così rivoluzionario sul corso delle scienze?

Viene allora da osservare che l'assemblaggio sistematico delle lenti in telescopi e e il loro impiego intervengono a cavallo del XVI e del XVII secolo, così come fra Cinque e Seicento si colloca l'opera di scienziati quali Bacone e Galilei e il loro successo.

Ma sempre a proposito di lenti, giova ricordare che fu l'inglese Roberto Grossatesta (1170-1253), vescovo di Lincoln e primo cancelliere dell'Università di Oxford, a studiare e formulare una teoria della rifrazione attraverso una lente sferica e a studiare l'utilità pratica delle lenti per ingrandire piccoli oggetti e avvicinare quelli distanti. Rimase dunque inascoltato? Neppure; fu sempre letto e studiato da altri scienziati e dotti che avevano poco o nullo interesse a conoscerne e sperimentare le tesi. Fino al Seicento.

Cosa successe allora?

Era successo che scienza e tecnica andassero avvicinandosi.

Era cresciuta una borghesia di mercanti e artigiani, banchieri e manifatturieri; la vicinanza fisica e non solo di ricchi borghesi, da una parte clero e aristocratici dall'altra nelle grandi città portava anche i primi ad esprimere i propri esponenti in quel mondo della cultura in quelle università che erano state fino ad allora esclusivo appannaggio dei secondi.

E i nuovi studiosi portavano con sé l'impronta culturale della propria classe, più legata al mondo della produzione, più contaminata in sostanza dalle brute necessità di conoscenza e di appropriazione delle condizioni di una produzione che doveva poteva e voleva crescere.

La borghesia iniziava a portare le sue istanze nelle più alte sfere della cultura, prima ancora di sognare il potere esclusivo che avrà poco più di un secolo dopo. In realtà si annuncia nelle vicende della scienza, in questo avvicinarsi e unirsi della tecnica e della scienza in dialettico rapporto, il carattere che presto avrà il trionfante modo di produzione capitalistico.

Non a caso già pochi decenni dopo Galileo i grandi matematici del XVII secolo trovarono nelle macchine sporadicamente usate nella manifattura punti di appoggio pratici e incitamenti allo sviluppo della loro scienza (o meglio strumento della scienza) e della meccanica che tanto ruolo svolgerà nella rivoluzione industriale. (5)

Il nodo centrale

La produzione basata sul capitale dunque, come crea da una parte l'industria universale - ossia pluslavoro, ovvero lavoro che crea valore - così d'altra parte crea un sistema di sfruttamento generale delle qualità naturali e umane, un sistema della utilità generale, il cui supporto è tanto la scienza quanto tutte le qualità fisiche e spirituali, mentre nulla di più elevato in sé, di giustificato per se stesso, si presenta al di fuori di questo circolo della produzione e dello scambio sociali... Soltanto col capitale la natura diventa un puro oggetto per l'uomo, un puro oggetto di utilità e cessa di essere riconosciuta come forza per sé; e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome si presenta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai bisogni umani sia come oggetto di consumo, sia come mezzo di produzione. (6)

Se nelle comunità primitive le condizioni naturali della produzione, la natura stessa, si presentano in unità con gli uomini viventi e attivi, produttori, è con la prima strutturazione statuale e dunque in classi di quella stessa società che si avvia un processo di...

separazione delle condizioni organiche dell'esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che si attua pienamente soltanto nel rapporto fra lavoro salariato e capitale. (7)

In questo rapporto il lavoro appare come totalmente alienato dalle condizioni della produzione: esso è una merce che per quanto particolare perché l'unica capace di creare valore, è ridotta a fattore del capitale produttivo.

Come le forze produttive del lavoro, storicamente sviluppate, cioè sociali così anche le forze produttive naturali del lavoro si presentano come forze produttive del capitale al quale il lavoro viene incorporato. (8)

La produzione finalizzata alla accumulazione e dunque alla riproduzione, in un ciclo chiuso su se stesso in cui l'uomo appare come strumento della produzione da una parte e consumatore del prodotto dall'altra; la subordinazione della natura alle necessità di siffatta produzione - questa è la caratterizzazione di fondo del modo di produzione capitalista che nessuno ambientalista vuol vedere e che rappresenta invece l'oggetto da modificare per evitare gli imminenti disastri ecologici.

Egizi e capitalisti europei

In fondo, per chiunque si dica marxista, il concetto è semplice: l'uomo tende sempre e comunque a modificare le condizioni della produzione (del lavoro), tende sempre cioè a soggiogare la natura, quale condizione oggettiva a lui esterna, alle necessità del suo lavoro. Ma...

Fintantoché il lavoro è finalizzato ai bisogni dell'uomo, in quanto specie, indipendentemente dalla entità e natura dei suoi bisogni e dalla loro crescita, il rapporto di dominio sulla natura non ne turba gli equilibri interni, se non in misura tale che rende possibile il riequilibrio medesimo dell'ecosistema complessivo.

Certamente anche le grandi opere idrauliche degli egizi comportavano una modifica radicale sulla natura dei luoghi interessati: il corso naturale degli eventi delle acque, del terreno e della vita animale e vegetale in quelle zone veniva radicalmente deviato: laddove avrebbero lussureggiato alcune specie arboree fra zone umide e deserto, e prosperato certa fauna, si coltivava fin dentro quel che è oggi deserto, con le conseguenti variazioni di flora e fauna; il grande fiume stesso avrebbe trovato nel corso dei secoli percorsi diversi, più o meno sinuosi verso il mare. Ma l’equilibrio complessivo veniva comunque mantenuto: certa fauna si è spostava altrove, certe specie vegetali prosperavano in altri siti paludosi.

Altrettanto certamente i disboscamenti medievali hanno ridotto la superficie forestale europea, ma non in modo tale da incidere sensibilmente sulla produzione di ossigeno e sulla vivibilità delle foreste per le specie animali presenti.

Dal momento in cui, invece, la produzione è finalizzata... alla produzione e i bisogni dell'uomo sono considerati esclusivamente come possibili destinatari della produzione di beni capitalistica, che deve risultare in un profitto per il capitale, tutto cambia.

La produzione aumenta: sia la massa di ciascuna merce sia la varietà delle merci cresce a tassi mai prima raggiunti.

Il capitale si internazionalizza: prima estende al mondo intero la rete dei suoi interessi, colonizzando i paesi a diverso percorso storico, fermi a forme precapitaliste di sussistenza o a forme più avanzate a carattere tributario (scioccamente definite feudali da certo sinistrismo d'accatto), poi, e attraverso questa prima penetrazione, si impone ovunque come modo di produzione dominante, sussume qelle formazioni sociali esportando ovunque le sue contraddizioni e i suoi meccanismi di sfruttamento dell'uomo e della natura. (9)

Nei paesi subsahariani, per esempio, le tradizionali colture di sussistenza, varie e praticate per millenni in equilibrio con l'ambiente, vengono brutalmente sostituite dalle colture intensive dei prodotti di esportazione; i contadini, espropriati dei loro possessi, per lo più collettivi della terra, privati dei mezzi tradizionali di sussistenza, rimangono a lavorare in ranghi molto ridotti sulla terra in cambio di mezzi di sussistenza forniti dal capitale stesso (poco importa se direttamente in natura o in denaro per acquistare i prodotti sul mercato, e poco importano, in linea generali, le forme specifiche e variabili di reclutamento e di disciplinamento del lavoro).

Qui già si assiste a una turbativa dell'equilibrio naturale, quando le suddette colture (per esempio di cotone) impoveriscono drammaticamente il terreno, artificialmente mantenuto produttivo del cotone stesso con i prodotti fertilizzanti e ammendanti dell'industria metropolitana.

Le radicali modificazioni del mercato delle materie prime con la forte riduzione del prezzo e del consumo di cotone hanno poi portato all'abbandono di quelle colture: Risultato: sulle masse popolari della formazione sociale autoctona, ormai distrutta nelle sue tradizionali strutture e forme di produzione, e artificialmente ricreata attorno ad una borghesia tanto rozza quanto stracciona, e tanto arrogante quanto bramosa degli standard metropolitani (dell'est o dell'ovest) si abbattono miseria e inoccupazione, mancanza di cibo ma impossibilità anche di tornare a produrre il cibo con i mezzi tradizionali. Qui sono ancora intervenute le metropoli ( e questa volta i governi, non i singoli imprenditori) con i loro "aiuti". Aiuti allo sviluppo, dicono, o dicevano. In realtà operazioni speculative ancora una volta per gli imprenditori metropolitani.

In realtà, a partire dalla prima guerra mondiale, il capitale ha acquisito la capacità di incidere sugli equilibri globali dell'ecosistema.

Dapprima inavvertitamente, poi sempre più evidentemente la riduzione di tutti gli aspetti della vita materiale e intellettuale - eccetto la sola produzione e il momento dello scambio delle merci - a condizioni della produzione di plusvalore e profitti ha dato questa nuova forma della contraddizione fondamentale del capitale: quella della incompatibilità fra sviluppo capitalistico e ambiente.

Ambiente e contraddizione fondamentale

Perché la definiamo una forma della contraddizione fondamentale?

Classicamente la contraddizione fondamentale del capitalismo, che è poi la stessa di tutti i modi di produzione trascorsi, è quella fra i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive: il capitale stesso si pone cioè come limite allo sviluppo delle forze produttive.

Questa tesi, quando rozzamente formulata dallo stalinismo, presterebbe, e di fatto presta il fianco alla facile obiezione di qualche fessacchiotto che, se lo sviluppo delle forze produttive risulta dannoso al capitalismo, figuriamoci che cosa avverrebbe liberandolo del tutto; ovvero non è certo auspicabile un ancor più forte sviluppo delle forze produttive ad opera del socialismo se quello capitalista è già tendenzialmente catastrofico.

La tesi marxista resta invece validissima perché il punto cruciale, che abbiamo sopra indicato, sta nello scopo della produzione ovvero nell'impiego delle forze produttive.

Già oggi sappiamo che rimediare ai guasti ambientali del capitalismo comporterà una massa non indifferente del lavoro sociale a soddisfare appunto il bisogno essenziale dell'umanità di far prosperare l'ecosistema di cui è parte. Per rientrare a far parte dell'ecosistema potremmo dire.

Si pensi solo alla necessità di modificare radicalmente i sistemi di trasporto generalizzandoli all'intera umanità, mentre invece il capitale sta pensando con cinica cupidigia alla possibilità di dotare di un automobile qualche decina di milioni di cinesi e indiani benestanti (l'Africa è vista per ora come troppo povera e senza speranze).

O si pensi alla necessità di ridurre drasticamente la produzione di rifiuti.

Questo è possibile alla sola condizione di dare avvio a una gigantesco sviluppo di nuovi strumenti, di nuove tecniche sulla base di un liberato nuovo grandioso corso delle scienze.

In fondo, questa necessità di "nuovo" orientamento è sentita dalla stessa borghesia, che non manca di fare qualche sforzo in questo senso, ed è significativa la preoccupazione per i rifiuti tossici. Ma la borghesia non può andare al di là della preoccupazione e della limitazione della loro crescita: non può né fermare la crescita nella produzione di rifiuti tossici, né provvedere al loro vero smaltimento.

Non può invertire la tendenza all'aumento di produzione dei rifiuti tossici perché questi sono legati alla produzione di una infinità di merci ormai connaturate alla formazione sociale borghese attuale, (si pensi solamente alla produzione petrolchimica).

Non può smaltirli efficacemente perché la "operazione" ha senso capitalisticamente solo se coinvolge l'intero insieme dei paesi in cui è diviso il misero pianeta. Altrimenti gli enormi investimenti necessari eventualmente imposti in qualche paese andrebbero a gravare solo come costi sui già calanti profitti, non potendo scaricarsi sui prezzi per evitare la concorrenza dei paesi in cui non si imponesse il servizio. In queste condizioni tale servizio per quanto mercificato non rappresenta una merce autonoma: il suo valore d'uso non sarebbe universalmente riconosciuto sul mercato e sarebbe priva di valore di scambio al di fuori della imposizione pubblica, da parte dello stato.

L'investimento ecologico allora - cosa che stenta a entrare nelle zucche verdi - può sì creare lavoro e può anche dare lauti profitti alle aziende che lo effettuassero, ma, non solo non aggiungerebbe nulla al plusvalore totale, ma costituirebbe una sottrazione di sue quote.

La pressione politica di riformisti, ambientalisti e in genere di una più avvertita società civile potrebbe anche giungere alla imposizione di norme e controlli efficaci sul territorio nazionale metropolitano (negli Usa come in un Italia senza Berlusconi), ma ciò comporterebbe la delocalizzazione delle produzioni implicanti rifiuti tossici in paesi più tolleranti, con effetto zero sul bilancio planetario di produzione e smaltimento.

Ma - incalza l'ambientalista riformista - questo sarebbe un primo passo verso una politica globale di prevenzione. Sarebbe cioè un primo passo nella marcia che dovrebbe condurre alla soluzione globale del problema per via politica. Beata superficialità!

Ammesso e assolutamente non concesso che tale marcia possa essere avviata, i suoi tempi sono assolutamente più lenti di quelli del degrado planetario. E senza tener conto degli immani disastri delle guerre che nel frattempo interverrebbero comunque e magari con coperture ideologiche riconducibili a tali "battaglie politiche".

Quanto alla impossibilità di avvio di una tale marcia verso l'efficace controllo politico a scala planetaria dei fattori ambientali, basti dire che tale controllo contrasta in modo inconciliabile con l'essenza stessa del capitalismo che è la produzione per il profitto, non per i bisogni dell'umanità.

Questo è l'elemento non tanto trascurato quanto furbescamente occultato anche da James O' Connor il professore americano di sociologia economia e problemi ambientali che si spaccia per marxista e che pretende di aver inventato l'eco-marxismo, geniale innovazione a quello che lui definisce il marxismo classico e che è invece il "marxismo" della scuola stalinista e socialdemocratica.

Ci limitiamo, in proposito a questa generalissima indicazione critica, e a qualcun altra ripromettendoci di esaminare in seguito più in dettaglio le tesi dell'eco-comunismo.

Eco-marxismo? No grazie

Scrive O'Connor che

Nella teoria tradizionale, lo sviluppo di forme più sociali delle forze e dei rapporti produttivi è considerata una condizione necessaria ma non sufficiente per la transizione al socialismo. Nell'eco-marxismo, lo sviluppo di forme più sociali di assetto (provision) delle condizioni di produzione può essere considerato condizione necessaria, ma non sufficiente per il socialismo. Bisogna però aggiungere subito che un “socialismo ecologico” sarebbe diverso da quello immaginato dal marxismo tradizionale, primo perché - sotto il profilo delle “condizioni di produzione” - la maggior parte delle lotte assumono una dimensione particolarmente “romantico-anticapitalista”, e cioè sono “difensive” più che “offensive”; secondo perché è ormai diventato evidente che nel capitalismo, la tecnologia, le forme del lavoro, ecc., incluso l'ideologia del progresso materiale, sono diventati parte del problema e non la sua soluzione. (10)

Qui è espressa la sostanza riformista delle tesi "eco-marxiste".

Nella prima distinzione che fa O'Connor fra marxismo tradizionale e le sue tesi si cela una grande mistificazione. Le forme più sociali delle forse e dei rapporti produttivi sono condizione necessaria del socialismo solo nel senso che esse sono implicazioni dell'affermazione definitiva del capitalismo e delle sue contraddizioni. (D'altra parte la socialità della produzione è un elemento già insito nelle prime forme della manifattura, ben prima della rivoluzione industriale e a maggior ragione della affermazione politica della borghesia.) Ampie argomentazioni e dimostrazioni in merito si trovano tanto su Il Capitale quanto sui Grundrisse.

Orbene, nella tesi dell'auto-definitosi eco-marxista il crescere di quelle "forme più sociali" sarebbe non il portato dello sviluppo capitalista, indipendentemente dall'azione politica del proletariato, bensì il prodotto di questa azione politica. Così, pur ritenendole non sufficienti, quelle lotte stesse vengono ritenute condizione necessaria. È la classica formula riformista in base alla quale si dovrebbe fare quel che si ritiene volta a volta necessario (e lo è, ma per il capitale!) rimandando l'obiettivo "finale" a un domani sempre posposto e infine perso di vista.

Ora che il proletariato appare particolarmente inattivo ed è di fatto assente dalla scena politico-sociale quale soggetto autonomo, (materialmente scompaginato nella sua vecchia composizione e ideologicamente disarmato da 70 anni di controrivoluzione staliniana e dal fallimento dell'esperienza stalinista stessa con la caduta del Muro) i radical-riformisti sono tutti alla ricerca di nuovi soggetti delle loro lotte. L'eco-marxismo, che di quel radicalismo riformista è una espressione, sposta dunque il terreno dell'azione alle condizioni della produzione (in breve l'ambientalismo), dove si riproduce comunque il medesimo meccanismo: lotte immediate per perseguire "forme più sociali di assetto delle condizioni di produzione" e avvicinare così progressivamente un sempre misterioso socialismo.

La verifica? È lo stesso O'Connor a fornircela, alla pagina prima.

I rapporti sociali di riproduzione delle condizioni di produzione (e cioè lo stato e la famiglia come strutture dei rapporti sociali e anche gli stessi rapporti di produzione, nella misura in cui si verificano "nuove lotte" all'interno della produzione capitalistica) rappresentano l'obbiettivo immediato della trasformazione sociale. Il luogo immediato della trasformazione è il processo di riproduzione delle condizioni di produzione (e cioè la divisione del lavoro nella famiglia, i modelli di destinazione d'uso della terra, l'istruzione, ecc.) e il processo di produzione medesimo, sempre nella misura in cui si verifichino nuove lotte sui luoghi di lavoro capitalistici.

In altri termini dunque, eventuali lotte operaie sono concepite a sostegno delle battaglie riformistiche su famiglia, ambiente istruzione eccetera, a loro volta viste come luoghi immediati di trasformazione.

La grande truffa riformista si ripete sostanzialmente sempre nelle medesime forme: scambiare i fenomeni propri della dinamica capitalista come prodotti della lotta di classe(11); impostare tattica e strategia sugli obiettivi derivati da quella impostazione e che sono riconducibili alle condizioni di vendita e di impiego della forza lavoro, alle condizioni di riproduzione della forza lavoro, e alle condizioni di riproduzione del capitale.

E contemporaneamente, la trasformazione indotta dalle lotte viene conbsiderata un approccio sistematico al socialismo che assomiglia sempre più come il limite, in senso matematico, della funzione "lotte sociali".

L'impostazione marxista (e non ci sono versioni classica e moderne) rimane anch'essa invariata e inconciliabile con quella riformista e la riassumiamo.

Lo sviluppo di forme più sociali, delle forze produttive e/o delle condizioni di produzione, è fenomeno proprio alla dinamica capitalistica, necessario solo nel senso storico, che era cioè necessario, rispetto alle forme precapitaliste. La sua contraddittorietà rispetto ai rapporti di proprietà dei mezzi di produzione è espressione della contraddizione fondamentale del capitale, all'interno della quale il proletariato può operare, come soggetto storico, solo nel senso della sua autonoma soluzione rivoluzionaria. E questa, e solo questa, è a sua volta condizione per la riappropriazione da parte dell'uomo del controllo sulla natura, quale condizione oggettiva della sua stessa esistenza.

Ciò può e dovrà essere oggetto di trattazioni ben più estese e argomentate di questo articolo. Ma qualche esempio, a titolo indicativo, lo possiamo trattare già qui.

Consideriamo uno dei problemi più grossi dal punto di vista ambientale e considerato tale anche da ambientalisti e analisti del mondo di scuola borghese: il problema dell'energia.

L'energia - questione centrale

Per tutto il periodo che va dalla nascita dell'uomo alla grande Rivoluzione industriale, l'uomo ha usato le forme di energia per come esse si presentavano in natura, ignorando il concetto stesso di forme di energia.

Che si trattasse di forza animale, correnti d'acqua o vento, egli impiegava l'energia meccanica nelle sue diverse manifestazioni naturali. Certamente aggiogava l'energia "idraulica" canalizzando fiumi o creando cascatelle artificiali e costruendo ruote idrauliche motrici di semplici macchine, così come aggiogava gli animali appositamente allevati per la lavorazione della terra e i trasporti. Certamente otteneva energia termica e luminosa, attraverso la combustione, da impiegare per scaldare e cuocere ed energia luminosa. Ma si trattava pur sempre di trasmissione di forme energetiche: energia meccanica dal fiume alla macina mediante la ruota, o dall'animale alla terra mediante il giogo e l'aratro; energia termica dal fuoco all'acqua o al cibo, eccetera.

La borghesia nella sua prima fase rivoluzionaria realizza la grande rivoluzione: inizia a trasformare una forma di energia nell'altra. La macchina a vapore (la pentola di Papin prima ancora della macchina di Watt) è il primo manifestarsi di questa nuova, decisiva e per altri versi micidiale conquista: il calore si può trasformare in movimento, l'energia termica in meccanica. É il momento fondante di una nuova branca della scienza, della conoscenza dei fenomeni naturali, la termodinamica.

É anche il momento di avvio di una serie lunghissima di scoperte scientifiche e invenzioni tecniche nel campo dell'energia e della sua trasformazione: dai progressi della macchina a vapore al motore a scoppio, l'elettricità e l'elettromagnetismi, dunque il tram il telegrafo la radio...

Sapendo o meno cosa sono e come si possono realizzare le trasformazioni di energia, ciascuno di noi vive un quotidiano fatto di migliaia di queste trasformazioni, fra migliaia di congegni e marchingengni che realizzano queste trasformazioni: dall'interruttore della luce al frullatore, dal frigorifero alla metropolitana, dall'accendino al televisore, dalla lavatrice al personal computer.

Dopo l'invenzione della macchina a vapore e prima della diffusione del motore a scoppio, l'altra grande conquista della società borghese fu l'elettricità. Le sue tappe sono significative:

  • la batteria chimica di Volta (trasformazione della forza di legame chimico in energia elettrica) - 1800;
  • scoperta dell'eletromagnetismo (Oersted 1820)
  • legge del circuito elettrico (Ohm, 1827);
  • scoperta dell'induzione elettromagnetica (Faraday 1831);
  • illuminazione elettrica di Place de la Concorde a Parigi, con lampade ad arco (1844)
  • generatore elettromagnetico autoeccitato (vari 1866-1867);
  • primo generatore commerciale di corrente continua, dinamo ad anello (Gramme, 1870);
  • produzione della lampada a filamento efficiente da parte di Edison 1879.
  • alternatori e trasformatori per la produzione di corrente alternata ad alta tensione (anni '880)
  • prima centrale elettrica pubblica di Godalming, in Inghilterra da parte dei fratelli Siemens nel 1881 in corrente continua
  • prima centrale elettrica in corrente alternata (Londra 1887-1889). (12)

All'inizio dell'Ottocento l'elettricità era una curiosità scientifica, un balocco di laboratorio.

Landes

La sua enorme importanza, assunta subito dopo, è dovuta alle sue caratteristiche: flessibilità e trasferibilità. È la forma di energia più facilmente trasferibile anche a lunghissime distanze ed è facilmente riconvertibile in qualunque altra forma (meccanica, termica, luminosa). In breve, è quella che meglio si presta alla produzione massiva in poche centrali appositamente concepite per la fornitura o vendita di energia su un ampio mercato. La invenzione della lampada a filamento, caratterizzata da un consumo più basso della lampada ad arco e funzionante con la più efficiente corrente alternata, costituì il trampolino di lancio per le centrali: la domanda di energia iniziava a estendersi dai centri di produzione al pubblico dei cittadini.

Consumo e produzione di energia in forma elettrica iniziavano una crescita spettacolare, cui corrispondeva naturalmente un crescita dei consumi di combustibili fossili, fonti primarie di energia: carbone e petrolio.

La produzione mondiale di fonti commerciali di energia si stima sia aumentata dall'equivalente di 1674 milioni di megawatt ore nel 1870 a 10840 milioni nel 1913. (13)

Ma questa corsa ai consumi di fonti energetiche venne presto accelerata dalla introduzione del motore a scoppio quale motore primario dei trasporti individuali.

È evidente: se ogni famiglia deve avere un'auto, oltre che tutti i trabiccoli elettrici che quotidianamente usiamo e il riscaldamento che ancor più è necessario, i consumi di energia sono oggi e nei paesi metropolitani incomparabilmente maggiori di quelli di solo 150 anni fa o di quelli dei più diseredati paesi periferici.

Il consumo di fonti di energia primarie annuo di un italiano è di diversi multipli maggiore del consumo in dieci anni di una intera famiglia del Mali o di una famiglia italiana dei primi Ottocento.

Il problema è che le fonti primarie di energia privilegiate dal capitale sono i combustibili fossili. E bruciare combustibili comporta nella peggiore delle ipotesi:

  • inquinamento dell'atmosfera con particelle solide e tossiche in sospensione;
  • inquinamento per soluzione nell'atmosfera stessa di gas non propriamente utili alla vita quali anidride solforosa e solforica, idrocarburi ciclici e composti benzenici e altre simili delizie;
  • aumento del contenuto in atmosfera di gas ad effetto serra.

Nella migliore delle ipotesi, quella che prevede una combustione perfettamente completa dei combustibili e dei loro primi sottoprodotti di combustione, avremo solo l'aumento del contenuto di umidità e anidride carbonica che è quanto dire un pericoloso avvicinamento al temuto fenomeno dell'effetto serra sul pianeta.

Ora, come visto, anche la borghesia, nelle sue espressioni più avvertite ha colto la gravità del problema e già da vent'anni lo ha in studio per trovarvi delle soluzioni o quantomeno per ritardarne le drammatiche conseguenze.

Consumare meno?

In uno studio commissionato dalla Fondazione Ford nel 1974 (14), subito dopo la guerra del Kippur e la conseguente crisi energetica, teleguidata per altro dagli americani stessi, si disegnavano tre diversi scenari di crescita dei consumi energetici. Il più ottimista prevedeva comunque per gli Usa un aumento fra il 1970 e il 1987 del 20%. Ma nello State of the World 1988 del World Watch Institute si legge:

Dalla pubblicazione del rapporto [della Fondazione Ford - 1974 ndr] l'economia statunitense ha avuto una espansione superiore al 35%, ma i consumi di energia hanno fatto registrare un netto calo. (15)

L'eminentissimo consesso di ambientalisti che è il Worl Watch Institute rilevava sei anni fa che il precedente progetto americano aveva sbagliato previsioni perché aveva sottovalutato le possibilità del risparmio di energia. Ma al contempo Il Wwi denunciava che:

Le piogge acide stanno spargendo distruzione e morte nelle foreste dell'Europa centrale, mentre l'incremento dei tassi di anidride carbonica nell'atmosfera potrebbe essere portatore di catastrofiche modificazioni climatiche.

Toccherebbe a noi dunque rimproverare il Wwi di sopravvalutazione del fenomeno risparmio.

È vero che esso è possibile ed è vero quanto con fine senso del businness i "guardiani del mondo" rilevano e che cioè il risparmio energetico e il perseguimento dell'efficienza energetica può rivelarsi un affare anche in termini di apertura di nuove produzioni e di nuove occupazioni. Ma resta il fatto che per quanto si risparmi, il processo di accumulazione capitalista implica comunque e sempre un aumento dei consumi. Il fatto che gli Usa abbiano diminuito nettamente i consumi testimonia solo degli sprechi precedenti. Ma anche se esaminiamo gli andamenti dei più parsimoniosi paesi europei ci ritroviamo con questi dati:

Anno Consumi
1971 828,766
1973 927.074
1975 861,770
1977 913,076
1979 986,129
1981 912,406
1983 887,044
1985 948,959
1987 977,833
1988 983,946
Consumi in milioni di tep (tonnellata di petrolio equivalente, pari a 4404,5 kWh) - Elaborazione nostra di dati Eurostat relativi a 10 stati

Da questi dati, evidenziati dal grafico, risulta evidente un calo dei consumi nel 1975 e poi ancora nel 1983. Indubbiamente, come per gli Usa la diminuzione relativa dei consumi energetici fu dovuta ai primi effetti di una più rigorosa politica di risparmio e al conseguente taglio degli sprechi che non valse però a invertire la tendenza. I cali furono infatti subito "compensati" da sostanziali risalite, con un bilancio fra il 1971 e il 1988 di netto aumento.

L'alternativa

Il problema si presenta dunque sotto il duplice aspetto di un aumento del consumo di combustibili fossili con le conseguenze sopra descritte e - da non dimenticare - col rischio di un esaurimento delle scorte con le drammatiche conseguenze sul piano politico, diplomatico e... bellico su cui già hanno detto abbastanza gli istituti ed enti borghesi citati.

Assodato ormai quasi universalmente che il nucleare come finora concepito non è un alternativa, vien da chiedersi se non ci siano davvero vie di uscita.

La nostra risposta è questa: no, all'interno del modo di produzione capitalista; si quando la produzione fosse orientata sui bisogni dell'uomo.

Vediamone il perché.

Esistono certamente oggi le conoscenze scientifiche che consentirebbero alternative tecnologiche al massiccio impiego di energia, ma il capitale non le può e non le vuole considerare. Consideriamo per esempio gli aspetti già presi in considerazione dagli ambientalisti riformisti: le fonti rinnovabili, quali l'energia solare o geotermica o delle maree.

La tesi ufficiale in merito all'energia solare è che essa non può essere convenientemente sfruttata per la produzione massiva di energia quale quella delle attuali centrali di potenza di qualche Gigawatt.

É vero, perché l'energia è una merce e, come tendenzialmente ogni merce in regime capitalista, viene prodotta in quantità di scala per essere convenientemente venduta. Lo stesso poi vale per le altre forme citate di energia primaria.

Non verrà mai in mente a nessuno che soggiace al feticcio della merce l'idea di produrre energia là dove serve e nelle quantità che servono tanto alla vita civile quanto alla produzione.

Ebbene ciò è esattamente quello che si propone il programma comunista, già dalle fasi di transizione.

La disponibilità di energia rientra fra le condizioni oggettive non solo della produzione ma ormai anche della vita della collettività

Si tratta innanzitutto di togliere il carattere di merce alla energia, la cui disponibilità perché il vero controllo da parte dell'uomo di tali condizioni oggettive è direttamente ostacolato dalla mercificazione delle medesime.

Ciò comporta immediatamente la possibilità di "dismettere" - per quanto progressivamente - la produzione massiva di energia nelle mega-centrali, per passare alla produzione locale con i mezzi più appropriati, scelti fra le disponibilità a scala globale. Questo significa a sua volta avviare l'impiego di tutte le possibili applicazioni tecnologiche delle già ampie conoscenze scientifiche per:

  • sviluppare i sistemi di produzione di energia elettrica e termica per gli usi civili e per le attivirà produttive;
  • la ristrutturazione radicale e complessiva del sistema di trasporti individuali e collettivi;
  • il riequilibrio di tutti i fattori ambientali e antropici coinvolti nella produzione e nel consumo di energia.

O i prodotti smettono di essere merce o la produzione di merci distruggerà le condizioni di esistenza della umanità. Il che equivale a dire: o vince la rivoluzione proletaria, oppure la barbarie capitalista distruggerà l'umanità.

Mauro jr. Stefanini

(1) A sintesi delle diverse pubblicazioni dell'Onu sull'argomento a partire dagli anni '70, segnaliamo gli Atti della Conferenza di Rio del 1992. Per quanto riguarda il Club di Roma è significativo il suo primo rapporto I limiti dello sviluppo, e i successivi rapporti, tutti pubblicati in Italia dalla Est Mondadori. Del World Watch Institute, fondazione americana finanziata da enti delle Nazioni Unite e da vari ministeri statunitensi, sono noti i Rapporti sullo stato del nostro pianeta, a partire dal 1984.

(2) K. Marx - Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (Gründrisse), La Nuova Italia, 1970, volume II, pag. 96.

(3) Ibidem, pag. 99.

(4) Hannes Alfvén Due mondi speculari, Il Saggiatore 1971, pag. 11.

(5) Vedi a questo proposito il capitolo dodicesimo del primo libro de Il Capitale.

(6) K. Marx - Lineamenti..., cit. pag. 11.

(7) Ibidem pag. 114.

(8) K. Marx Il Capitale, I Libro V Sezione capitolo 14, Editori Riuniti, pag. 229.

(9) Vedi a questo proposito "Modi di produzione e formazioni sociali" in Prometeo IV serie n. 12.

(10) James O'Connor L'ecomarxismo, Datanews, Roma 1989, pag. 17.

(11) Osserviamo qui di sfuggita che O'Connor è esplicito anche su questo nella sua altra opera "di aggiornamento" del marxismo: Marx addio?, Datanews, Roma 1986. "... La teoria qui proposta appartiene alla famiglia delle teorie della crisi basate sulla lotta di classe" (pag.55).

(12) Cfr. David Landes Prometeo liberato, Einaudi Paperbacks 1978 alle pag. 368 e segg. (Trattasi della edizione separata del capitolo "Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell'Europa occidentale" del VI volume della Storia economica di Cambridge.

(13) Ibidem pag. 381.

(14) A time to choose - America's energy future, pubblicato in Italia nel 1975 a cura del Club di Roma dalla Mondadori-EST sotto il titolo Progetto per una politica dell'energia.

(15) Lester Brown e altri, State of the World 1988, Isedi 1988, pag. 58.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.