Riformismo oggi

Il riformismo è la tendenza politica che sostiene la necessità di riformare il sistema di relazioni sociali, politiche ed economiche della formazione sociale capitalista, migliorandolo nel senso di renderlo più adeguato alla soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni della collettività.

Di qualunque tendenza politica è nostro dovere indagare e chiarire le sue premesse ed espressioni ideologiche, per risalire alla base di classe ovvero alla classe da cui essa tendenza è ideologicamente determinata.

La premessa del riformismo è che, per quanto fondato sullo sfruttamento di una classe da parte di un altra, il capitalismo non può (o non deve) essere abbattuto con la violenza della classe sino ad allora sfruttata e oppressa. Qui già si verifica una distinzione fra due scuole del riformismo.

La scuola idealista

Una è quella di origine dichiaratamente borghese e idealista, per la quale il sistema sociale vigente e il modo di produzione che lo sorregge sono lo stadio definitivo dello sviluppo della società umana.

Il suo schema ideologico, del tutto idealista, può essere esposto nel modo seguente (con tutti i limiti dello schema, appunto):

  • La civiltà dell'uomo inizia con l'apparire dello stato, con l'organizzazione cioè dell'uomo in un consesso regolato da leggi (orali o scritte) che consentono la convivenza - indipendentemente dalle sue forme - del forte con il più debole, del ricco con il povero, di chi vive di proprietà e di chi vive di lavoro. Non c'è dunque civiltà senza stato.
  • Gli sviluppi (o inviluppi) della civiltà sono segnati dai mutamenti nelle forme di questa convivenza: dalla primigenia democrazia ellenica o res publica romana, all'impero che abolisce il dispotismo egiziano e si impone sull'organizzazione tribale delle popolazioni nomadi mediorientali e sulle particolari formazioni germaniche del Nord; dall'Impero al feudalesimo, attraverso la fusione della civiltà classica con le tradizioni militari e sociali germaniche e la lenta ripresa di egemonia della prima sulle seconde; dal feudalesimo alla rivoluzione francese e americana che affermano finalmente i principi sovrani di libertà, fraternità e uguaglianza dei cittadini di fronte allo stato stesso. Con ciò si è realizzata l'emancipazione dell'uomo che si riappropria in quanto cittadino di uno stato che prima imponeva sulla società una legge dettata da una sola sua parte e che ora è invece... di tutti. Naturalmente, la stessa scuola idealista moderna, del riformismo e non solo, non esita ad avvalersi di alcuni degli "importanti apporti" di Marx pensatore per compensare le vistose deficienze e inanità della vecchia metafisica. Si pensi soltanto al richiamo che qualunque storico o storiografo fa da almeno mezzo secolo alle strutture materiali (economiche e sociali) delle società nei diversi periodi di cui tratta. Quantomeno, le riconosce importanti, anche se poi fa risalire gli sviluppi storici alla forza di qualche grande idea, sia di un grande uomo che di un'intera corrente, provenienti dalle dinamiche dello spirito universale. Ma spesso si avvolgono degli apporti di Marx senza neppure riconoscerlo e comunque stravolgendo la natura e funzione del suo pensiero facendone giustappunto un pensiero, al pari di quello di Platone o di Kant, mentre, ben al di là ci questo, è la filosofia che nega e seppellisce la filosofia stessa ed è, soprattutto, strumento critico e di armamento teorico di una classe che ha ancora da compiere la sua rivoluzione.
  • I successivi miglioramenti della convivenza sono possibili (e per i riformisti doverosi) solo attraverso l'esercizio di questa sovranità del cittadino.

Taluni riformisti di questa scuola non escludono la possibilità dell'esercizio della violenza. La violenza, l'impiego della forza nello scontro politico è ammesso quando forze reazionarie (agenti di regresso nella storia delle libertà) prevalgono o tendono a prevalere con la forza delle armi. Ma è ammesso pure, e più sovente praticato, quando "componenti della collettività" (guarda caso, quelle di fatto oppresse, il proletariato) tendono col proprio movimento di lotta a destabilizzare gli equilibri sociali e politici che la democrazia borghese amministra. La difesa politica del proletariato, delle componenti sociali più deboli, è ammessa sin tanto che il loro movimento non cozza con le compatibilità dello stato e, necessariamente, della sua economia. In altri termini: la rivendicazione economica da parte del lavoro è legittima e deve essere sostenuta sin che è compatibile con gli interessi di chi deve soddisfarla, ovvero del capitale; oltre quei limiti diventa sovversiva e meritevole di sanzione legale (ovvero violenta).

Quando la incompatibilità fra rivendicazione del lavoro e interessi del capitale diventa il tratto caratteristico di un epoca, come è il caso odierno di crisi del ciclo di accumulazione, questi riformisti dimenticano la legittimità della rivendicazione fin come principio generale. Le riforme le chiedono ancora, ma sempre contro il lavoro.

La scuola... materialista

Gli esponenti dell'altra scuola non è raro che si richiamino al marxismo. Richiamarsi al marxismo non significa ovviamente averne assunto il metodo e averne fatto propri tutti i principi. Significa spilluzzicare qua e là, accogliendo un aspetto, filosofico piuttosto che di "analisi economica" (come essi chiamano la critica dell'economia politica), un aspetto del metodo piuttosto che un altro. Oppure, ed è il caso più classico della socialdemocrazia, accogliere gran parte dell'apparato analitico e dottrinario, dimenticando però, o rigettando, i suoi aspetti più caratterizzanti: l'essere arma di critica per la preparazione della critica delle armi (cioè la sua essenza rivoluzionaria), o i fondamenti stessi della critica dell'economia politica (un esempio sempre attuale è il tentativo di mettere in questione la lettura marxista della teoria, peraltro precedente Marx, del valore-lavoro), o le sue immediate conseguenze strategico-politiche quali la dittatura del proletariato come inevitabile corollario della lotta di classe (caso classico: il marxista Kautsky di fronte alla rivoluzione bolscevica).

Al fondo, tipico di questa componente del riformismo è il rifiuto della preparazione e dell'atto rivoluzionari da parte del proletariato e la affermazione della possibilità di modificare lo stato di cose presenti attraverso l'utilizzo dei meccanismi democratici. Distintivo rispetto all'altra scuola, è il richiamo esplicito alla classe operaia, ai lavoratori, ai poveri e agli oppressi, che a vario titolo, vengono visti e adulati come motori del cambiamento e dunque base elettorale dei riformisti medesimi (e qui gioca il mistificante richiamo al marxismo).

Anche per queste genere di riformisti vale sempre però quanto visto prima: nella crisi economica cella formazione sociale data, ciò che viene messo al primo posto non sono più gli interessi dei proletari e degli oppressi, ma quelli della conservazione. La crisi è immediatamente quella degli equilibri fra capitale e lavoro: le difficoltà vengono proprio dalla variazione di composizione organica di capitale (c + v), la cui crescita induce la caduta del saggio di profitto. I riformisti, possono giungere in casi estremi, a riconoscerne il meccanismo, nondimeno si guardano bene dal mettere in questione il modo di produzione che quegli equilibri determina e conduce alla crisi. Riaffermata formalmente invece la tesi che il cambiamento è necessario, e magari che il capitalismo andrà superato - col metodo democratico - pongono al primo posto la necessità di ristabilire le condizioni del meccanismo democratico stesso, di superare la crisi, di ... fare quindi sacrifici.

Ciò è stato palese in tutti i casi in cui i riformisti, anche di "scuola materialista" e con richiamo alla classe si sono trovati al governo, o in posizione di forza politica determinante, nel passato: governi socialdemocratici in Germania, Fronte Popolare in Francia; governi laburisti in Gran Bretagna, per fermarci all'Europa.

Oggi qualcosa è cambiato, nel senso che i riformisti di scuola materialista hanno cessato di richiamarsi alla classe, hanno rinnegato anche i richiami al classismo e al marxismo per rivolgersi al cittadino, al pari di quell'altra corrente di democratici e progressisti e usando le stesso armamentario ideologico.

Cosa li distingueva prima: la base sociale alla quale esplicitamente si richiamavano e il richiamo esplicito a qualche citazione di comodo di Marx. Ora nei processi sociali e politici che si sono determinati nell'ultimo quinquennio è venuta meno anche questa distinzione.

Prima di esaminare i processi strutturali e sovrastrutturali che hanno annullato questa distinzione e fanno ritrovare le due "scuole" sul terreno di attacco materiale diretto alla classe operaia e prima di volerci dunque a individuare le nuove forze del riformismo, ci resta da definire la natura di classe di queste tendenze politiche.

Il riformismo è solo borghese

Abbiamo visto che nei momenti critici della dinamica capitalista, quando gli equilibri economici fra capitale e lavoro si guastano e il capitale deve attaccare la classe operaia, il suo salario e la sua occupazione, o - peggio -quando la competizione economica acuita dalla crisi si sviluppa in competizione bellica, ovvero in guerra guerreggiata, i riformisti - di qualunque scuola - si ritrovano al fianco della borghesia.

La loro parola d'ordine rimane sempre la stessa, quantunque possa cambiare nella forma: la salvezza della economia nazionale, o la salvaguardia delle istituzioni democratiche o la salvezza della patria. La consegna di fondo è: a fianco della borghesia contro il proletariato o per condurlo al macello.

Bastino per tutti i casi delle due guerre mondiali: i riformisti sono stati i primi a schierarsi con le rispettive borghesie nazionali nella prima guerra mondiale e a fare altrettanto o a defilarsi nella seconda guerra mondiale, per riemergere al suo termine col compito di fiancheggiare la borghesia nel condurre il proletariato alla ricostruzione e al rilancio del ciclo di accumulazione. Le giustificazioni, o meglio le contorsioni ideologiche, a supporto di tale politica non potevano che attingere al bagaglio classico del più vieto idealismo, con tanti saluti al materialismo storico e a Carlo Marx.

Si ricorda a questo proposito la socialdemocrazia tedesca del 1914 quale ultimo caso di riformismo che tenta di giustificare il suo arruolamento sul fronte della guerra imperialista arzigogolando con proditori richiami al marxismo sui gradi di maturità capitalista dei paesi in guerra, per scegliere... il più avanzato, cioè il proprio.

Ma la natura borghese del riformismo, il suo essere partito del capitalismo, si esprime nella sua stessa teoria di fondo. Quando i riformisti chiamiamoli socialisti affermano, o meglio affermavano, la possibilità di effettuare modifiche sostanziali del capitalismo sino a trasformarlo in socialismo, riferivano sempre e comunque a una definizione falsa dei due sistemi. Il richiamo a Marx, pure in questo caso, era palesemente di comodo: una citazione estrapolata dal contesto metodologico che veniva elevata a principio generale e di base, da cui far derivare le proprie mistificazioni, che in sostanza affermavano la eternità del capitalismo stesso.

Si citava Marx ogniqualvolta e solo, quando si riferisce al capitalismo come al sistema della proprietà privata dei mezzi di produzione. Così, per esempio, la statalizzazione dei medesimi, abolendone la privata proprietà formale realizza il socialismo, da perfezionarsi eventualmente con il miglioramento dei cosiddetti servizi sociali.

Marx parla di produzione per i bisogni dell'uomo e non per il privato profitto? Benissimo, risponde il riformista socialista, vuol dire che lo Stato pianificherà la produzione, superando l'anarchia tipica del capitalismo, tenendo in vista soprattutto i bisogni della collettività. Il problema si riduce all'accumulo di forze democratiche necessario perché lo stato possa democraticamente accentrare sotto di se l'apparato produttivo (ed eventualmente distributivo). Non c'è bisogno dunque di abolire le categorie economiche più generali di merce, valore e plusvalore

In realtà Marx esprime ed elabora tutt'altre tesi: si tratta per lui proprio di abbattere il modo di produzione capitalista caratterizzato dall'operare di quelle categorie; si tratta di togliere al prodotto dell'uomo il carattere di merce portatrice di un valore di scambio per lasciargli la natura di prodotto utile all'uomo; si tratta di togliere il carattere di merce alla forza lavoro; di distruggere con ciò i meccanismi di estorsione del plusvalore per dare al lavoro dell'uomo la sua vera dignità di mezzo di soddisfazione dei suoi bisogni. Modifiche alla forma giuridica della proprietà (da privata a "sociale" nelle società per azioni, a statale) non modificano in nulla il rapporto fra capitale e lavoro, se non nelle forme in cui si presenta il capitale, essendone immutata la sostanza. Non conta che a possedere e amministrare i mezzi di produzione e la produzione sia uno o tanti capitalisti; non conta neppure che l'organizzatore collettivo dei capitalisti, lo Stato, giunga a sostituirli nella loro immediata funzione di percettori del plusvalore prodotto dal lavoro. Essi continueranno ad essere classe dominante nel travestimento di direttori aziendali o funzionari di quello stato, percettori del plusvalore sotto forma di spropositati stipendi, o addirittura di "risparmiatori" che hanno investito in banca o nel debito di stato gli indennizzi per la medesima statizzazione delle aziende, e dunque percettori del plusvalore sotto forma di interesse o rendita finanziaria. Il programma riformista è perciò programma di conservazione del capitale, il riformismo è partito del capitale, al di là del fatto che è certamente non marxista.

Abbattere il capitalismo significa invece togliere di mezzo il plusvalore, quindi in tutte le sue determinazioni, significa realizzare proprio ciò che i riformisti escludono.

È il programma marxista, il programma rivoluzionario che, come ha avvertito lo stesso Marx in più opere (e massimamente nella Ideologia tedesca) si imporrà alle masse proletarie che lo dovranno realizzare solo un attimo prima del loro "assalto al cielo". Sino ad allora è costretto a lottare per imporsi alle avanguardie che si organizzino in partito.

Nel frattempo, anche nella classe proletaria l'ideologia dominante rimane quella della classe dominante, eventualmente nella sua versione appunto riformista.

Se non prendiamo in considerazione i riformisti non-socialisti è perché essi stessi si dichiarano per la perfettibilità del capitalismo ferme restando le sue categorie e le fondamentali libertà di mercato, rigettando quindi la stessa prospettiva dei social-riformisti con i quali hanno sempre realizzato comunque, quando gli svolti storici lo imponevano, le necessarie alleanze tattiche.

Chiarito l'identico contenuto programmatico, dal punto di vista di classe, delle due "scuole di riformismi" vale la pena in uno sforzo... tassonomico esaminare anche le due componenti essenziali del riformismo chiamiamolo materialista, che diversamente originatesi han- no però finito per convergere anche sul piano organizzativo. Una è la socialdemocrazia classica, quella dei Partiti socialisti e socialdemocratici della Seconda Internazionale; l'altra componente del riformismo è quella dei partiti stalinisti a cavallo e dopo la seconda guerra mondiale. Quella stalinista è l'ideologia di una particolare esperienza borghese, che ha visto la borghesia camuffarsi sotto le spoglie di burocrazia di uno stato "socialista" (ovvero di uno stato capitalista che aveva accentrato su di sé la proprietà dei mezzi di produzione e dei canali di distribuzione).

La socialdemocrazia classica è invece il riflesso del potere dell'ideologia borghese sul pensare e l'agire politico delle organizzazioni di classe operaia, tale da trascinare pensare e agire politico di partiti e sindacati sul suo stesso terreno di conservazione, fino alla più aperta controrivoluzione in caso di sollevamenti proletari (si ricordi a titolo di esempio la Germania 1918-19, 1923).

Ma al di là delle diverse origini le due esperienze coincidono sul terreno programmatico.

Già prima del secondo conflitto mondiale, la politica nazionale dei partiti stalinisti fu di carattere fondamentalmente socialdemocratico, là dove fu possibile esprimere vera politica (la "ars governandi") Significativi in questo senso sono i casi del Pcf in Francia con il suo Fronte popolare, e del Pce in Spagna con il Fronte repubblicano). Perché la politica del PCI prima della guerra mondiale non si espresse sul terreno immediatamente socialdemocratico, bensì su quello schiettamente stalinista? Perché la prospettiva era ancora "aperta" e Mosca e Togliatti pensavano/speravano che la sostituzione del fascismo potesse avvenire nella forma cara al Cremlino e all'Internazionale (statizzazione dell'economia sotto l'egida del Pci e immissione dell'Italia nel blocco sovietico, detto socialista).

Con la guerra si realizza il patto d'azione fra stalinisti e i socialdemocratici dello Psi. L'armata russa si ferma alle soglie della Yugoslavia e non giunge in Italia. Il patto di Yalta sancisce l'appartenenza dell'Italia al blocco occidentale (Usa). Il PCI continua ad agire come partito stalinista, agente della politica estera sovietica (vale a dire del blocco avverso a quello americano), ma si propone sulla scena politica nazionale come partito appunto nazionale (che ha fatto la resistenza prima e la ricostruzione poi ecc. ecc.) nella più vetusta logica socialdemocratica: la conquista del potere attraverso la lunga marcia nella istituzioni. Siamo dunque già ai contenuti socialdemocratici della politica nazionale. resta solo il riferimento alla vecchia cara Russia.

Verifica finale: crolla l'impero e che cosa fa l'apparato del Pci (fatto di incalliti stalinisti)? Diventa scopertamente socialdemocratico, aderendo anche alla Internazionale Socialista.

Restano diverse le origini (e duramente attaccato a queste, Cossutta rifiuta di andare fino in fondo nel percorso ideologico di quella esperienza e fa il pastrocchio di Rifondazione), ma i contenuti programmatici dei partiti che furono stalinisti e dei partiti socialdemocratici classici sono quasi del tutto sovrapponibili.

Fine (provvisoria?) del vecchio riformismo

Le mutazioni anche profonde verificatesi nel modo di presentarsi dello schieramento politico riformista alle quali abbiamo accennato meritano di essere esaminate più attentamente.

La praticabilità politica del riformismo, a qualunque delle scuole di cui abbiamo detto esso appartenga, è condizionata dalla possibilità di realizzare mediazioni fra capitale e lavoro che, mentre favoriscono limitatamente il lavoro, non mettono in forse la continuità del capitale.

Nel momento, o nelle fasi storiche, in cui questa possibilità viene meno, quando cioè la mediazione si rende impossibile per l'azzeramento delle elasticità del sistema (ovvero per il restringersi a zero delle compatibilità capitaliste), il riformismo tende naturalmente a svuotarsi di ogni contenuto reale: il salario non può aumentare, le disparità sociali non possono diminuire. In breve o le forze riformiste sono al potere e giocano la loro posizione per chiamare ai sacrifici in attesa di tempi migliori e manovrando le leve del controllo statale dell'economia, oppure, non essendo al potere, chiamano comunque ai sacrifici indicando nelle loro ricette di politica economica la via per uscire dalla crisi stessa e poter così riprendere la lotta per l'equità sociale. L'esperienza dell'appoggio del Pci al governo di solidarietà nazionale che avviava con decisione lo smantellamento della scala mobile è forse l'ultima prova del riformismo classico in Italia, dopo la quale il Pci, cambiato anche il nome, stenta parecchio a farsi distinguere dagli altri partiti che si affollano sulla scena.

D'altra parte le prospettive di una ripresa dalla crisi del ciclo di accumulazione, tale da consentire un nuovo allentamento dei cordoni della borsa da parte del capitale e più in generale una amministrazione serena e lungimirante della economia e della società da parte degli stati sono inesistenti.

Al di fuori della apertura di un nuovo ciclo di accumulazione non esiste più alcuna possibilità che il riformismo classico possa tornare a manifestarsi nelle politiche statuali di qualunque paese. È fortemente probabile dunque che le forze del riformismo classico, fortemente radicate nelle formazioni sociali di appartenenza, perdano in rapida progressione tutte le classiche connotazioni programmatiche per dissolversi nel magmatico insieme delle forze politiche che caratterizza la scena dei paesi più avanzati e che interessa percentuali fortemente decrescenti di elettori.

Il riformismo perde elettori

Quest'ultimo è un altro elemento che deve essere preso in considerazione nel prospettare il ruolo del riformismo classico, fra le altre correnti del pensiero politico borghese, nelle formazioni sociali del capitalismo decadente.

Senza voler ipotecare la storia futura del capitale (che peraltro ci auguriamo breve), è fortemente probabile che la tendenza, già operante da almeno due decenni in Europa, alla diminuzione della percentuale di votanti sulla popolazione, continui. D'altra parte negli Usa siamo già a percentuali oscillanti fra il 30 e il 40%.

Ciò significa che i partiti che tramite il voto si contendono il diritto a governare trovano sempre meno ragioni di fare appello a questa o a quella componente della società civile quale propria base elettorale. E la componente, o meglio la classe che fino a non molto tempo fa rappresentava il serbatoio di voti e la forza politica del riformismo classico è proprio quella che progressivamente si allontana dalla cosiddetta vita politica, è quella che sempre meno vota.

Come ogni tendenza che interessa le formazioni sociali capitalistiche, non è uniformemente lineare: si verifica dunque che qui o là, in un certo momento o in un altro, la partecipazione al voto sia vistosamente più elevata della media, con la massiccia partecipazione dei proletari. Diversi livelli di accumulazione e diverse storie della accumulazione e del consolidarsi della formazione sociale borghese comportano anche diverse forme di determinazione della vita politica. Ma come l'esistenza di paesi poveri a bassissimo livello di accumulazione e di concentrazione del capitale non contraddicono la generale tendenza del capitale complessivo alla concentrazione, così forme di massiva e attiva partecipazione alla vita politica non escludono la tendenza al progressivo distacco della società civile dalla politica degli stati e dei governi.

In Italia la tendenza si manifesta con un certo ritardo, anche rispetto ad altri paesi europei, Gran Bretagna in testa; ma le componenti più reazionarie della borghesia si stanno dando da fare per accelerarla (che altro senso avrebbero le valanghe di referendum che i pannelliani cercano di rovesciare sull'elettorato?) mentre le altre, indipendentemente dalla cosciente volontà - che spesso richiede una intelligenza che esse non hanno - nulla fanno per frenarla.

Ebbene, in questo quadro di progressivo distacco della popolazione delle metropoli capitaliste dalle scene della politica, le forze del riformismo classico perdono le ragioni della propria caratterizzazione come rappresentanti/mediatori dell'interesse proletario nelle istituzioni dello stato borghese.

Il lettore metta insieme questo dato e quel che abbiamo visto sopra circa l'oggettivo restringersi fino ad annullarsi degli spazi di mediazione nella crisi del ciclo, ed avrà la spiegazione sufficiente, se non completa, della fine del riformismo classico.

È così spianata la strada alla massiccia penetrazione nella componente proletaria della società civile del programma rivoluzionario? No, purtroppo. La strada è ancora un viottolo tutto in salita al culmine della quale c'è il collasso della società civile stessa, nella crisi economica, sociale e istituzionale del capitalismo, dove il programma rivoluzionario può (e insistiamo sul può) iniziare a penetrare più in profondità nel corpo di classe operaia.

Se il riformismo classico è finito il suo zoccolo duro resiste e sposta il suo campo di azione dalla scena politica tradizionale - quella che occupa lo spazio fra società civile e istituzioni statuali - alla società civile stessa, alla sua base, per così dire.

Sono i collettivi tematici, la gran parte dei centri sociali, le associazioni per questo e per quello; una pletora di forme organizzative, insomma, che percorrono o cercano di percorrere la società civile con l'obbiettivo di premere e in qualche misura condizionare le grandi scelte politiche di chi le prende.

Società civile

Si rende ora necessario definire anche se per sommi capi cosa sia la società civile.

È semplicemente l'insieme della cittadinanza della società borghese distinta dagli apparati politici e amministrativi che la dirigono. Il capitale produce ciò che la sua società civile consuma.

Fanno dunque parte della società civile tanto i lavoratori, quanto i bottegai, tanto gli imprenditori quanto i liberi professionisti. Sono individui della società civile anche gli impiegati e funzionari degli apparati politici e amministrativi quando vivono e operano al di fuori degli apparti stessi, spogliatisi dunque del ruolo istituzionale che rivestono nello svolgimento del loro lavoro: al di fuori del lavoro sono cittadini, al pari degli altri, al pari degli altri, quanto a diritto formale, comprano e consumano merci e in base a ciò fruiscono dei servizi e dei diritti democratici che la formazione sociale borghese conferisce loro.

Così definita la società civile è sempre esistita nelle formazioni sociali del capitale, ma solo in queste. È esistita cioè da quando esiste il cittadino libero - libero dai vincoli di subordinazione personale o dai rapporti tribali e di clan o dai vincoli che lo legano al villaggio, alla terra del villaggio e alle norme della comunità di produzione - e uguale di fronte allo stato.

Non è la nostra società civile quella dei Comuni medievali, dove la funzione produttiva o amministrativa (di comando politico, militare o giudiziario) collocava l'individuo e la sua famiglia in una classe ben definita cui corrispondevano norme comportamentali, e condizioni di vita universalmente riconosciute e riconoscibili.

Né è società civile quella delle comunità di villaggio indiane prima e durante la colonizzazione inglese: quella è comunità appunto, superiore dal punto di vista della socialità umana, quantunque arretrata sul metro dell'economia e della produttività. È stato compito dei colonizzatori inglesi prima e più ancora del liberale, non-colonialista capitale internazionale poi distruggere quelle comunità per sostituirvi in India una "società civile" ancora in divenire, percorsa com'è da tante sopravvivenze del vecchio sistema di caste e fatta di una enorme, disperata massa di marginali a fianco di un altra massa di tanto liberi quanto poveri proletari, e poi dai ricchi borghesi, dai loro lacchè e da una robusta piccola borghesia impiegatizia. La società civile delle metropoli appare o meglio appariva certamente più omogenea di quella indiana; ma quanto e per quanto ancora? Quaranta milioni di poveri negli Stati Uniti d'America, nove milioni in Italia, parlano di un processo di impoverimento e di marginalizzazione di fasce originariamente di classe operaia (e in molti casi americani, piccolo-borghese) che fa perdere loro l'appartenenza stessa alla società civile. Perdere la casa, i diritti di assistenza medica e previdenziale e i mezzi di consumo getta queste fasce ai margini, se non del tutto fuori, della comunità del capitale e della sua società civile.

Resurrezione e gloria del riformismo?

Ma è qui, nella società civile che si vogliono dispiegare le forze del nuovo riformismo. Vecchi paradigmi del riformismo classico e nuovi, si fa per dire, modelli di pensiero accomunano tendenze apparentemente distinte, ma comunemente cooperanti nel sostegno alla società civile stessa, ovvero alla conservazione del capitale e della sua comunità.

Elenchiamo: gli ecologisti (che siano eco-comunisti alla O'Connor o meno) (1); gli "autonomi" (2); i "nuovissimi sinistri". Certamente non citiamo altre correnti (o insiemi) che possono al momento sfuggire, ma il lettore saprà, individuandole, collocarle al loro giusto posto in rapporto a quanto diremo.

Gli ecologisti

Gli ecologisti muovono dalla tesi portante che l'attuale "modello di sviluppo" rappresenta un pericolo mortale per l'umanità che richiede interventi correttivi immediati, pena l'irreversibilità della rottura degli equilibri tra uomo e ambiente. La tesi è valida per la prima metà, laddove si sostituisca a modello di sviluppo (locuzione generica, ma non da tutti adottata) il più significativo concetto di modo di produzione: il modo di produzione capitalista rappresenta un pericolo mortale per l'umanità.

Ma la seconda metà è del tutto e propriamente utopistica. Ha un senso solo se si rifiuta la correzione di cui sopra, se cioè si pensa che il modello di sviluppo sia in qualche modo correggibile. Ma un modo di produzione non si corregge, se la classe dominante che lo esprime vive proprio di ciò che dovrebbe essere corretto. Gli interventi correttivi capaci di invertire i processi di deterioramento ambientale dovrebbero essere parecchi di cui elenchiamo per brevità i maggiori, ma più importanti:

  • cambiare il modo di produrre e distribuire energia - solo modo di frenare la produzione di gas-serra);
  • la redistribuzione a scala globale delle produzioni agricole e zootecniche - solo modo di frenare e invertire i processi di desertificazione del Sahel come della Cina e di certe zone degli stessi Usa;
  • la riorganizzazione del sistema globale dei trasporti, che ponga termine all'esclusività (peraltro crescente) del trasporto individuale per ogni circostanza - quale unica soluzione all'altra maggiore fonte di inquinamento.

Al di fuori di queste soluzioni non c'è alcuna speranza di frenare e invertire il deteriorarsi del rapporto fra l'uomo (la sua produzione) e l'ambiente; c'è solo qualche palliativo che può consolare l'anima pura, quanto ignorante, dei verdi, e che tanto più verrà concesso quanto meno intacca la continuità dell'accumulazione capitalista.

Al fondo resta l'ideologia borghese di sempre secondo la quale la coscienza degli uomini - indifferenziati dal punto di vista di classe (quindi anche dei borghesi) - è sufficiente a cambiare il corso del mondo.

Gli autonomi

Sotto questa dizione raggruppiamo tanto i gruppi e le tendenze che si richiamano esplicitamente alle tesi e all'esperienza dell'Autonomia italiana, quanto quelli che attingono a piene mani c quelle tesi, senza peraltro identificarsi o richiamarsi alle organizzazioni che sostanziano l'esperienza italiana o tedesca.

Sono di varia estrazione, ma ciascuno, nella autonomia della propria organizzazione o "scuola", sostiene la tesi di fondo secondo cui la classe produttrice del plusvalore, la classe operaia "classica", ha perso irreversibilmente la sua carica rivoluzionaria. C'è chi, a questo proposito, sostiene che la produzione del plusvalore si è ormai generalizzata a tutti i soggetti che lavorano, indipendentemente dalla loro collocazione in grandi unità produttive, e diffusi dunque sul territorio e nella società (civile). E c'è chi invece sostiene che l'antagonismo - magari anche in forza di quanto dicono gli altri - non è più espresso dai produttori del plusvalore, ma dai membri di quella società civile che soffrono dei "guasti della legge del profitto". Di fondo, tutti, nel mentre negano l'esistenza di una classe definita, la classe operaia, quale unica antagonista storica del sistema capitalista, negano anche il programma di cui essa è storicamente portatrice: l'emancipazione del proletariato dalle catene del lavoro salariato. Il loro "antagonismo" è tutto da giocare entro il sistema e dentro il sistema si esaurisce.

Dove finisce tutto ciò? Nel vecchio calderone dell'ideologia borghese. È la società civile -dove si perdono i connotati di classe - che, ancora, più o meno lentamente, sotto la spinta di accelerazioni indotte dalla lotta armata o meno, matura le ragioni dell'antagonismo allo stato di cose esistenti e lo cambia.

I nuovissimi sinistri

Per quanto riguarda la situazione italiana, parliamo di "nuovissimi sinistri" perché gran parte della "nuova sinistra" nata a cavallo degli anni Sessanta e Settanta si è ormai tutta infilata nel mega-pasticcio di Rifondazione, nel quale spera e tenta di ritagliarsi un comodo futuro parlamentare. Ma negli altri paesi vale ancora il termine di nuova sinistra, i cui esponenti animano gruppi e correnti di varia caratura organizzativa, ma sempre di notevole attivismo.

Caratterizza questo insieme la sua discendenza, nella piena accezione del termine, dalla versione stalino-zdhanoviana del marxismo: diverse caratteristiche somatiche fra i discendenti, diverse posizioni specifiche, ma l'imprinting è quello. Un paradigma centrale attraversa tutte le formazioni di nuova sinistra, ma anche molti dei seguaci delle altre suddette scuole del riformismo. Ed è la tesi ultrareazionaria, anti-marxista quanto nessun'altra, secondo cui la seconda guerra mondiale fu la guerra fra fascismo e antifascismo. (Nota bene: fu di fatto, non venne presentata come).

È il trionfo dell'ideologia borghese, che - come abbiamo accennato sopra - ha inglobato alcune categorie, alcuni aspetti metodologici del pensiero marxista per digerirli a modo suo per cioè piegarli ai suoi fini reazionari. La tesi come sopra espressa significa in sostanza questo: le collettività umane hanno sempre fatto le guerre in base a interessi materiali (necessità concrete) che, fin dai tempi della guerra di Troia, assumevano le ideologie giustificative più adeguate ovvero più rispondenti alle forme ideologiche dominanti nel periodo e nella specifica formazione sociale; ma questo vale fino alla prima guerra mondiale compresa; dalla seconda guerra mondiale in avanti non è più così: le guerre si fanno non sotto la coperta ideologiche degli ideali, ma per gli ideali stessi, per le idee.

L'ideologia borghese impera

Anche qui ritroviamo l'imprinting stalinista, giacché fu proprio il movimento "comunista" pro-sovietico a far passare - quantomeno nel proletariato - l'enorme menzogna secondo cui la guerra e la conseguente alleanza con Stati Uniti e Inghilterra era la titanica lotta delle democrazia e del progresso contro le forze buie e reazionarie del nazifascismo.

Connesso a questo paradigma che attraversa tutta la seconda metà di questo secolo sta l'altro sotteso alle posizioni cosiddette internazionaliste di tutta l'area di nuova e nuovissima sinistra, ma anche dell'autonomismo e di gran parte dei verdi radicali: l'imperialismo è... un gruppo di stati (l'Occidente o II Nord). Esisterebbero poi gli stati capitalisti, si, ma non imperialisti (fra quali, per non pochi sinistri, l'Italia, o quelli scandinavi o...). Infine ci sarebbero gli stati o nazioni oppresse. Quando una di queste (siano il Chiapas o il Nicaragua o l'Iraq ) si trova a confliggere con l'Occidente (gli Usa, solitamente), essi, stati o nazioni, svolgerebbero un ruolo anti-imperialista. Di qui la necessità di sostenere quella nazione nella sua lotta e nel suo cosiddetto diritto di autodeterminazione.

La definizione originale e sempre valida dell'imperialismo data da Lenin è così respinta e sostituita da quella esattamente opposta. Per Lenin l'imperialismo non è una politica, ma una fase del capitalismo caratterizzata da una serie di categorie e di fenomeni che hanno certo richiesto un aggiornamento d'analisi, ma che continuano a farne appunto una fase della vita del modo di produzione capitalista a scala globale.

Per i riformisti di oggi e di sempre invece si scopre che al fondo l'imperialismo è una politica e più precisamente la politica di alcuni stati (i più forti).

Altra caratteristica comune, non a caso anch'essa correlata al grande paradigma di cui sopra, è la tesi secondo cui la democrazia è il valore universale da difendere e implementare. Si tratta delle democrazia borghese, naturalmente, giacché nessuna specificazione distintiva viene fatta fra democrazia borghese e democrazia proletaria (che noi opportunamente chiamiamo comunismo). Alla difesa delle democrazia i nuovi sinistri fanno soggiacere qualunque strategia e tattica per il proletariato; essa viene sempre prima della rivoluzione socialista perennemente rimandata a un futuro sempre più improbabile.

La galassia della sinistra e del nuovo riformismo è grande e densa. Può così capitale che in alcuni svolti cruciali, quando cioè si verificano fenomeni in cui le suddette tesi di fondo si confrontano e scontrano, la sinistra si divida in più fronti. È stato così con la guerra delle Malvinas come è stato così per la guerra del Golfo. Nelle Malvinas/Falkland la necessità di battere l'imperialismo di fronte alla realtà di una Argentina antidemocratica, quantunque contingentemente anti-britannica ovvero antimperialista ha diviso i sinistri fra pro Gran Bretagna e pro-Argentina. Con la guerra del Golfo l'opposizione all'attacco imperialista all'Iraq doveva fare i conti con la natura antidemocratica e reazionaria di Saddam; e ancora i sinistri si sono divisi fra pro-Onu e pro-Saddam.

E continueranno a dividersi e a animare la scena politica del riformismo di polemiche tutte interne all'ideologia borghese di sinistra.

Gli spazi reali del nuovo riformismo

Queste nuove forme del riformismo sono quindi nuove solo nel senso della forma organizzativa che assumono e degli ambiti in cui agiscono. I contenuti ideologici sono tutt'altro che nuovi: in un modo o nell'altro continuano le vecchie ideologie del radicalismo borghese di sinistra.

Il problema che si pone al proletariato rivoluzionario è allora il seguente: quale è lo spazio aperto in seno alla classe operaia per le forze del neo-riformismo?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo tornare a tracciare a grandi linee il quadro della composizione di classe proletaria e del suo collocarsi nell'ambito della formazione sociale in cui ci troviamo. (3)

Per quanto riguarda il primo aspetto - per l'argomentazione del quale rimandiamo a quanto già scritto su questa rivista - la ricomposizione di classe e il suo riconoscersi come tale avverrà in forme e su terreni diversi da quelli tradizionali e, in sostanza, su base più territoriale che non di unità produttive o comunque lavorative. Questo comporta, relativamente al secondo aspetto, che mentre da una parte si rende più difficile il riconoscersi appunto come classe, distinta e antagonista rispetto al capitale, di conseguenza trovano un terreno più favorevole proprio le ideologie e le forze che si fondano e si ispirano all'interclassismo della "società civile".

Da una parte resta vero quanto osservavamo nello scritto precedente citato - e cioè che la riaggregazione sul terreno di classe si dà immediatamente a un livello che ha superato il riformismo e il "contrattualismo". Dall'altra parte abbiamo che le forme di aggregazione territoriale nell'ambito della società civile possono benissimo darsi sul suo stesso terreno, sulla base cioè dell'interclassismo e del neo-riformismo.

Molti dei centri sociali che punteggiano il territorio urbano italiano sono esempi di questa tendenza che non esitiamo a definire pericolosa dal punto di vista delle prospettive rivoluzionarie.

È poi significativo, e deve essere tenuto presente nella definizione e nell'esercizio dell'intervento rivoluzionario dei militanti internazionalisti, che nei suddetti centri sociali e in analoghe esperienze di organizzazioni territoriali della "gente", le diverse tendenze o scuole del neo-riformismo tratteggiate sopra sono compresenti e spesso intrecciate in modo inestricabile.

Di qui proviene la necessità dei due livelli dell'analisi: l'uno delle tendenze generali, auto-delimitate sul terreno teorico e talvolta organizzativo; l'altro delle formazioni, organismi ed esperienze episodiche che si danno nella contingenza di tempo e di luogo. Se qui abbiamo abbozzato il lavoro sul primo livello, sta ai militanti che svolgono il lavoro di interventi e di organizzazione sul territorio, sviluppare l'analisi sul secondo, individuando l'avversario riformista nelle specifiche forme che assume.

Mauro jr Stefanini

(1) Vedi Uomo, ambiente e capitale, in Prometeo n7, V serie, giugno 1994.

(2) Sull'antagonismo dell'autonomia italiana vedi Gli "antagonisti sociali" contro il comunismo, e viceversa, opuscolo delle Edizioni prometeo a cura dei GLP e dei Circoli Prometeo.

(3) Vedi Dopo la ristrutturazione la nuova composizione di classe - Verso la ripresa delle lotte proletarie in Prometeo 6 V serie, dicembre 1993.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.