L’Euro della discordia

Quando, nel dicembre del 1988, il Consiglio europeo istituì un comitato composto dai governatori delle banche centrali presieduto dall’allora commissario Delors, con l’incarico di elaborare un progetto per dar vita all’Unione monetaria europea (Uem), pochi credettero veramente che essa un giorno avrebbe visto la luce. D’altra parte anche gli stessi governatori, prevedendo per la sua realizzazione tre fasi distinte e un arco di tempo lungo più di dieci anni con la possibilità di ulteriori rinvii, si mostrarono a loro volta piuttosto scettici e in verità tanto scetticismo non era del tutto infondato. Ci si chiedeva come avrebbero potuto stati diversi per tradizioni, lingua e soprattutto economie, accordarsi per dar vita a una moneta comune senza aver prima realizzato una qualche forma di unificazione politica. Né si dimenticava che quegli stessi stati solo per dar vita a un area comune di libero scambio avevano impiegato più di quaranta anni.

Gli Stati uniti, che solo ora cominciano a dar segni di fastidio, convinti che l’Uem non sarebbe mai andata in porto, per lungo tempo hanno mantenuto un atteggiamento addirittura compiacente come se si trovassero di fronte alla riproposizione di una qualche forma più aggiornata del vecchio mercato unico che, all’epoca della sua costituzione, avevano sostenuto in funzione antisovietica. E non si strapparono le vesti neppure quando, a Madrid nel giugno ‘89, il Consiglio europeo diede il via alla prima fase dell’Uem che avrebbe condotto, tra il 1 gennaio del ’90 e il 31 dicembre ’93, alla completa liberalizzazione del movimento dei capitali nell’ambito della Comunità e, con il compito di gestire le prime forme di coordinamento delle politiche economiche, alla nascita dell’Ime (Istituto monetario europeo). Tutti i dubbi, poi, sembrarono trovare piena conferma quando, il 7 febbraio 1992, fu firmato l’accordo di Maastricht. Poiché l’accordo imponeva ai paesi aderenti, come condizione per poter entrare nell’Ume, che le loro politiche economiche e finanziarie rispettassero gli stessi criteri di stabilità adottati dalla Bundesbank per la Germania, si ritenne impossibile che essi potessero essere soddisfatti oltre che dalla Germania e dai paesi a essa limitrofi e già nell’orbita del marco, anche da quelli del cosiddetto Club Med ( Italia, Grecia, e Spagna) e dalla stessa Francia. E un’unione monetaria senza Italia, Spagna e Francia cosa sarebbe stata se non la migliore rappresentazione della metafora della montagna che partorisce il topolino? Eppure nella storia c’era un precedente di cui gli Stati Uniti e tutti gli scettici avrebbero fatto bene a tenere in debito conto. Dopo la vittoria sulla Francia napoleonica, l’Inghilterra, al riparo della sua superiorità industriale e finanziaria, si fece paladina delle dottrine libero-scambiste per assicurare alle sue merci un mercato più ampio, mettendo in serie difficoltà sia l’intera industria europea che quella americana. Dopo un primo momento di sbandamento, gli stati nordamericani risposero rifugiandosi nel protezionismo, mentre in Europa, su iniziativa della Prussia, i numerosi stati tedeschi dell’epoca, nonostante antiche e radicate diffidenze, diedero vita, nel 1833 a una unione doganale, la Zollverein, cioè a un’area di libero scambio che facilitando la circolazione delle merci tedesche, consentì di arginare l’invadenza britannica. E, in seguito, dalla Zollvrein alla successiva unificazione politica della Germania, il passo fu davvero breve.

Certo, oggi i tempi sono cambiati. Una infinità di guerre di cui due mondiali; qualche rivoluzione, come quella russa del 1917; uno sviluppo tecnologico senza precedenti nella storia dell’umanità, hanno fatto del capitalismo un qualcosa di profondamente diverso da quello di allora, ma oggi come allora a unire e dividere gli uomini, gli stati, i popoli sono i loro interessi e le loro situazioni materiali. E così come la sconfitta della Francia lasciando campo libero alla Gran Bretagna spinse i suoi concorrenti al protezionismo; la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, lasciando agli Stai Uniti una supremazia incontrastata, hanno messo i paesi europei di fronte a un’alternativa molto netta: o rassegnarsi a un ruolo da comprimari e rischiare, nonostante la loro potenza economica e finanziaria, un pericoloso declino o progettarsi come forza autonoma capace di concorrere con i rivali d’oltreoceano. Ovviamente, oggi il semplice liberoscambismo non è sufficiente a esprimere tutte le istanze dell’egemonia statunitense e la parola magica, l’"Abracadabra!" del nostro tempo che dovrebbe mettere a posto le cose del mondo è l’economia globalizzata. Con questo termine si pretende di rappresentare un mondo nel quale "cittadino-consumatore", potendo tutti e tutto concorrere sul grande mercato globale in condizioni di parità, sarà finalmente libero di poter acquistare qualunque cosa in qualunque parte della terra al prezzo più conveniente per cui anche la più sperduta landa del pianeta sarà prima o poi baciata dal benessere e dalla libertà. In realtà si tratta della libertà per il capitale finanziario di imporre a tutti e a tutto le condizioni più favorevoli al suo processo di autovalorizzazione; e così come nel secolo scorso l’ideologia libero-scambista fu l’ideologia del capitalismo concorrenziale, oggi l’ideologia della globalizzazione è l’ideologia del grande capitale monopolistico.

La globalizzazione finanziaria

Il ciclo mediante il quale il capitale si autovalorizza è rappresentato, come è noto, dalla formula D-M-D’. Essa rappresenta il processo mediante il quale un capitale monetario iniziale (D) trasformandosi in macchine, materie prime ecc. (Capitale costante) e in salari (Capitale variabile), mediante la produzione e la vendita di merci, ritorna accresciuto alla sua forma monetaria iniziale (D’). La differenza tra il capitale iniziale e quello finale, nell’analisi marxista, misura la quantità di lavoro estorto alla classe operaia e non retribuito (plusvalore). Nella formula D-M-D’, D può essere costituito sia dal capitale proprio dell’imprenditore o dell’azienda e/o da risparmio di altri soggetti preso in prestito. Questo capitale, pur provenendo da precedenti cicli D-M-D’, a differenza di quello dell’imprenditore o dell’azienda, è conservato dai suoi possessori non per essere scambiato direttamente con altri macchinari, merci e salari, ma per essere, appunto, ceduto in prestito ad altri a un determinato prezzo.

Il prezzo a cui viene ceduto il capitale monetario è l’interesse. Il ciclo di valorizzazione di questo capitale in quanto capitale produttivo d’interessi, o capitale finanziario, anche se comunque passa attraverso la produzione di merci, essendo per i suoi possessori D-D’, differisce da quello dell’imprenditore che se ne serve per produrre merci. Infatti, anche se colui che riceve in prestito un certo capitale non lo impiega direttamente nella produzione di merci e lo utilizza, per esempio, per costituire un deposito bancario a garanzia dell’emissione di assegni a di altri titoli di credito, purché il capitale venga restituito accresciuto degli interessi, la sua valorizzazione è per chi lo presta riuscita lo stesso. In questo caso, però, il movimento D-D’ è un movimento "fittizio" nel senso che il processo di valorizzazione di quel capitale non è stato realizzato mediante la produzione di merci né direttamente né indirettamente, ma mediante la compensazione dei crediti con altri crediti, ovvero mediante l’anticipazione di un valore futuro.

Fino a quando la compensazione dei crediti con altri crediti ha fortuna, nel senso che con quel capitale, per quanto fittizio, si riesce ad acquistare merci per un valore ad esso corrispondente, la contraddizione che è implicita nel processo di valorizzazione del denaro per mezzo della produzione di altre forme di denaro e senza quella di merci rimane latente. Specularmente, anche per il debitore, se gli riesce di valorizzare il capitale ricevuto in prestito (per esempio prestandolo a sua volta a un tasso maggiore di quello da lui pagato o mediante una speculazione finanziaria riuscita) in misura maggiore di quanto deve restituire, il ciclo D-D’ risulterà riuscito.

Da tutto ciò, il pensiero economico e politico dominante ha tratto la conclusione che basta lasciare il denaro libero di muoversi a suo piacimento perché esso generi ricchezza, anche se in realtà è solo dal punto di vista del singolo capitale che il ciclo D-D’ è un processo di valorizzazione compiuto. Dal punto di vista sociale la valorizzazione del denaro per mezzo del denaro è una assurdità e ha limiti oltre i quali il suo ulteriore accrescimento è impossibile. Il capitale monetario, in quanto tale, produce interessi sia se utilizzato per la produzione di merci sia se utilizzato come punto di partenza per la produzione di altro capitale monetario, ma mentre nel primo caso, nello stesso tempo che maturano gli interessi, attiva anche il processo di produzione del plusvalore con cui l’interesse insieme al profitto e alla rendita si sostanzia; nel secondo no, per cui è evidente che in assenza del ciclo D-M-D’, la sua valorizzazione sarebbe solo virtuale.

Nel corso del tempo, proprio per evitare che una parte troppo grande del capitale monetario totale fuggisse la produzione mettendo a rischio il ciclo D-M-D’ sono state escogitate varie forme di controllo della produzione di capitale fittizio,ovvero di denaro per mezzo del denaro. In alcuni periodi essa è stata vincolata alla costituzione, in proporzioni prestabilite, di riserve in metalli preziosi in modo che il suo valore avesse comunque riscontro nel valore di una merce (moneta-merce in oro e/o argento); in altri, come è stato per il periodo che va dai primi anni ’30 ai primi anni ‘70, si è optato per un regime regolamentato in cui la creazione della moneta di credito era affidata al monopolio dello stato e, solo per alcune forme, al sistema bancario. Ma nonostante ciò nella fasi di contrazione del ciclo di accumulazione, quando il saggio medio del profitto è basso, i sistemi di controllo di volta in volta escogitati sono stati travolti e la tendenza all’accrescimento della produzione di capitale fittizio ha preso il sopravvento. Oggi, per esempio, negli Stati Uniti la produzione della moneta di credito è affidata al monopolio dello stato per quanto riguarda l’emissione dei biglietti inconvertibili (dollari) e al mercato per tutte le altre forme (certificati di credito, depositi, opzioni valutarie ecc.). Ciò, a causa della gravissima crisi in cui versa il sistema capitalistico su scala planetaria, ha favorito l’espansione della produzione di capitale fittizio fino al punto che il capitale finanziario funge ormai

... come punto di partenza di un movimento speculativo in cui non esiste più neanche la parvenza di una reale produzione di merci. Il commercio con i meri titoli di proprietà di azioni [opzioni ndr] e immobili produce così dei fittizi aumenti di valore che, anche formalmente, non ha più niente a che vedere con i guadagni reali provenienti dal consumo aziendale del lavoro astratto. (2)

Ed è in questo fenomeno che si esprime l’affinamento a cui sono pervenute le forme dell’appropriazione parassitaria del plusvalore di cui si avvantaggiano i capitali più forti.

Poiché, come abbiamo già visto, la crescita spropositata della frazione del capitale finanziario totale che cerca la sua valorizzazione mediante il processo D-D’, comporta la riduzione relativa del capitale finanziario destinato alla trasformazione in capitale industriale, dagli Stati Uniti ovvero dalla prima potenza finanziaria del mondo è partita la campagna per la deregolamentazione finanziaria e per la globalizzazione del mercato affinché il capitale fittizio in crescita potesse interconnettersi con tutti i segmenti del ciclo D-M-D’ e avere a sua disposizione un più ampio campo di raccolta del plusvalore globalmente prodotto (globalizzazione finanziaria).

Contemporaneamente ciò ha favorito anche la disseminazione del ciclo di produzione delle merci su un’area sempre più vasta cosicché per la produzione di una stessa quantità di merci si è resa disponibile un’offerta di forza-lavoro sempre maggiore che, assieme all’incremento della produttività del lavoro ottenuto con l’introduzione della microelettronica nei processi produttivi, ha reso possibile una spettacolare riduzione del salario al di sotto del suo valore sia nella periferia che nella metropoli capitalistica (globalizzazione industriale). In tal modo, la contraddizione fra produzione reale e fittizia di valore non è stata superata, come dimostra il fatto che sia il debito mondiale che la quantità delle transazioni monetarie non legate al movimento effettivo di merci sono in costante ed esponenziale aumento; ma è stata dilatata nello spazio e nel tempo favorendo il recupero, da parte del grande capitale finanziario, di quelle quote di plusvalore necessarie alla compensazione della caduta del saggio medio del profitto. Alla lunga la divaricazione fra la produzione reale di valore e quella simulata mediante la crescita del capitale fittizio, è destinata ad esplodere e a generare crisi sempre più acute, ma nel medio e breve periodo, ed entro certi limiti, quest’ultima costituisce, per le frazioni dominanti del capitale mondiale, un formidabile meccanismo di appropriazione parassitaria di plusvalore.

L’ideologia dominante, forte dei successi dei forti, lascia intendere che è la globalizzazione che premia i più efficienti e che la replica quotidiana della moltiplicazione miracolosa dei pani e dei pesci è alla portata di tutti; in realtà la produzione di capitale fittizio per aver successo necessita di molto di più della libera circolazione dei capitali e di una tipografia ove stampare certificati di credito. Come abbiamo già visto, la sua produzione pur essendo produzione simulata di valore, non può prescindere dall’esistenza di D. E poiché D, per dirla con Marx, non è altro che " lavoro morto", il mezzo con il quale il valore generato dallo sfruttamento della forza-lavoro viene trasferito nel tempo, il capitale fittizio, in quanto derivato da D, sta dunque a D come D sta al lavoro astratto in esso incorporato, per cui in ultima istanza esso è un derivato dei precedenti successi del ciclo D-M-D’. Le probabilità che la valorizzazione di un capitale, mediante la produzione di valori fittizi, abbia successo sono pressoché pari a zero se alle sue spalle non vi è una lunga serie di cicli D-M-D’ e una notevole potenza economica e finanziaria. Non è un caso, quindi, che gli Stati Uniti siano stati i promotori della globalizzazione e che oggi ne siano i più fieri paladini.

Il privilegio del Dollaro

Grazie alla loro potenza industriale, gli Stati Uniti hanno comandato almeno due cicli di accumulazione e la loro superiorità ha fatto si che il dollaro divenisse non solo una forte moneta nazionale, ma, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, anche una moneta internazionalmente accettata. Con essa si pagano, per esempio, le transazioni del petrolio e di quasi tutte le materie prime; in dollari vengono emessi i prestiti internazionali e in dollari sono costituite gran parte delle riserve monetarie di tutte le banche centrali. Per la Fed che li emette ciò costituisce un enorme vantaggio.

Normalmente la quantità di biglietti convertibili che ogni banca centrale mette in circolazione, per evitare la creazione di quantità eccessive di valori fittizi e l’inflazione, è determinata dal valore e dalla quantità delle merci prodotte dal sistema economico, dalla moneta di credito creata dalle banche e dal debito sia pubblico che privato che di volta in volta si ritiene riassorbibile dalle potenzialità produttive del sistema in modo che la crescita di D risulti in equilibrio con il ciclo D-M-D’ tenendo in conto anche il suo sviluppo futuro (debito).

Invece, poiché una parte dei dollari e dei titoli espressi in dollari è utilizzata da operatori stranieri per transazioni che non hanno alcuna attinenza con il ciclo D-M-D’ che si svolge negli Usa, ciò consente alla Fed di emettere una quantità di moneta maggiore di quella che potrebbe emettere e di finanziare anche un debito maggiore di quello che sarebbe possibile se si tenesse conto solo delle effettive potenzialità del sistema. Gli Usa si trovano dunque nella invidiabile posizione di poter produrre valori fittizi in misura maggiore di chiunque altro con la certezza che prima o poi qualcuno in qualche angolo del mondo provvederà a produrre per loro quel che loro hanno prodotto solo sulla carta.

Il paradosso per cui il crescente deficit della bilancia commerciale statunitense si accompagna con alte quotazioni del dollaro, si spiega proprio con il fatto che le importazioni vengono pagate con dollari o titoli espressi in dollari che rimanendo nel circuito finanziario mondiale non vengono mai utilizzati per acquistare merci statunitensi: è come se oltre a quello del ciclo D-M-D’ che si svolge negli Stati Uniti, nel dollaro si cristallizzasse anche una parte del plusvalore estorto in quasi tutto il resto del mondo.

Fino a tutti gli anni sessanta, a causa degli elevati saggi medi del profitto industriale e dei limiti posti sia al movimento dei capitali sui mercati internazionali sia alla creazione di capitale fittizio da parte delle banche e delle varie istituzioni finanziarie, l’egemonia del dollaro ha avuto come contropartita la crescita della base produttiva e quindi del ciclo D-M-D’ su scala mondiale. La stessa ricostruzione postbellica europea e giapponese si è avvalsa non poco del capitale finanziario statunitense; oggi che i saggi medi del profitto industriale sono bassi, invece, questa egemonia assume caratteri nefasti concretizzandosi in una sorta di tangente universale che ognuno è chiamato a versare ogni qual volta fa uso della moneta statunitense.

Di più, nella misura in cui cresce la rendita finanziaria, si accentua la tendenza a sostituire la produzione industriale con quella di capitale fittizio e così vengono sottratti capitali al ciclo D-M-D’ che invece, proprio per fronteggiare la crescita dell’appropriazione parassitaria di plusvalore, avrebbe bisogno di espandersi a ritmi ancora più intensi che in passato. Il fenomeno ha assunto dimensioni così significative che è ormai rilevato anche statisticamente. È stato calcolato che la rendita finanziaria che gli Usa traggono dalla egemonia del dollaro ammonta a qualcosa come 500 miliardi di dollari l’anno cioè a una somma pari a quasi tutto il deficit di bilancio dello stato italiano.

Di contro, però, l’incremento medio annuo degli immobilizzi di capitale per ora/uomo che negli Usa, fino al tutto il 1973, non era mai stato inferiore al 2,8 per cento, è passato, tra il 1973 e il 1989, al 2,4 e all’1,4 per cento nel 1994. (3) Taluni autori sostengono che la causa di ciò va ricercata nella riduzione dei salari che si è avuta nello stesso periodo e che avrebbe reso meno conveniente la sostituzione della manodopera con le macchine e non nella smisurata crescita delle attività parassitaria; ma in realtà, diversamente dai dati ufficiali, la disoccupazione negli Stati Uniti non è inferiore, per esempio, a quella europea e

... nel 1995 la sottoccupazione - che rappresenta una misura più ampia della mancanza di successo occupazionale sul mercato del lavoro, ed è un parametro raramente usato dai mass media - ammontava al 10,1 per cento. Questo dato statistico ... si riferisce ai lavoratori a part-time che non sono riusciti a trovare impieghi a tempo pieno e ai "lavoratori scoraggiati" che cercavano un posto di lavoro ma, delusi, erano usciti dalla forza-lavoro attiva e non figuravano neanche più nelle liste di disoccupazione. (4)

D’altra parte la stessa crisi che ora devasta il mondo asiatico e in particolar modo il Giappone e le famosi Tigri ha scoperchiato una pentola dalla quale è emerso che il tanto decantato sviluppo di queste ultime altro non era che un’accozzaglia indistinta di sfruttamento feroce della forza-lavoro unito a una spaventosa crescita del capitale fittizio. Grazie a tutto ciò sia le satrapie locali che quelle della grande finanza internazionale hanno potuto ingrassare oltre ogni possibile immaginazione lasciandosi alle spalle una landa di terra talmente devastata dalle loro scorrerie che si calcola che occorreranno non meno di venti anni di fame e di miseria prima che possa essere saldato almeno il debito pubblico che esse hanno prodotto. Il fatto è che più un’economia è debole più è forte la sua dipendenza dal dollaro e tanto maggiore è il pedaggio che deve pagare per potere usufruire dei suoi indispensabili servigi.

L’Euro contro il Dollaro

Gli undici paesi che hanno dato il via all’Uem comprendono un’area che ha più abitanti degli Stati Uniti e del Giappone messi insieme e il loro peso economico e commerciale è pari se non superiore a quello degli Usa. Anche il commercio degli undici verso il resto del mondo è pari per ampiezza a quello statunitense ed è doppio rispetto a quello del Giappone; presi essi però singolarmente sono dei nani. La massa monetaria di ciascuno di essi rispetto alla valanga di dollari che circolano sul mercato mondiale, è meno della classica goccia nel mare. A dispetto della loro forza complessiva, singolarmente sono totalmente impotenti a contrastare le ricorrenti crisi finanziarie che ormai con sistematica puntualità si abbattono sull’economia mondiale a causa dell’immenso buco nero aperto dal predominio delle attività parassitarie .

Basti pensare alla crisi del 1992 per capire la differenza fra la loro potenziale forza complessiva e la loro debolezza individuale. Allora, alla grande finanza internazionale, e a quella d’oltreoceano in particolare, bastò meno di una settimana per mandare in frantumi lo Sme. Misero in movimento una valanga di dollari talmente grande che nonostante l’intervento massiccio delle diverse banche centrali, nel volgere di pochi giorni il primo tentativo di dar vita a una moneta comune europea si dissolse come un sogno all’alba e loro portarono a casa profitti per migliaia e migliaia di miliardi. Il governo italiano, per esempio, per compensare le perdite subite dalla Banca d’Italia ed evitare ulteriori attacchi dovette mettere in cantiere una manovra di tagli alla spesa e al debito pubblico di circa 80 mila miliardi di lire.

Anche in passato il prezzo pagato a questa loro debolezza era stato altissimo, ma aveva avuto delle contropartite economiche e politico-militari che lo rendevano accettabile, senza considerare che in passato un salasso come quello della crisi del ’92 non sarebbe stato neppure possibile. Infatti anche allora vi era appropriazione parassitaria di plusvalore, ma poiché sia il movimento del capitale finanziario che i rapporti di cambio fra le diverse valute erano vincolati, in base agli accordi di Bretton Wood, alla espansione della produzione di merci e non a quella del capitale fittizio, la crescita della rendita finanziaria veniva ampiamente compensata con quella del plusvalore prodotto. Ma la crisi del profitto industriale e i vantaggi supplementari che la globalizzazione finanziaria hanno dato al dollaro, hanno reso quel prezzo insostenibile tanto più che l’orso sovietico ha perso gli artigli.

È inutile - scrive l’economista Marcello De Cecco - far finta di non comprendere che l’Europa di Maastricht, pur con tutte le sue contraddizioni ed esitazioni, è stata pensata dai suoi ideatori e realizzatori come un’alternativa alla globalizzazione selvaggia che si predica e si pratica da oltreAtlantico... Quando la moneta di transazione e di riserva internazionale è una sola chi la emette sa di godere di un privilegio esorbitante. Essa non si confronta veramente con nessuna altra. Non è difficile che l’emittente perda il senso della misura e riesca a far pagare le proprie spese al mondo intero. (5)

Ma l’Euro non nasce solo per impedire che gli Stati Uniti non perdano "il senso della misura". Questa visione esclusivamente difensiva, cela, seppure sia evidente che alla lunga il dominio incontrastato del dollaro implica una crescente subordinazione agli interessi statunitensi, che ormai la crisi del profitto ha reso vitale anche per l’Europa l’incremento della rendita finanziaria.

È difficile, infatti, pensare, almeno nel breve e/o medio periodo, a una Europa che fa la fine delle Tigri asiatiche. Basti pensare alla differenza di peso che ha il commercio internazionale nelle due aree per rendersi conto del diverso grado di dipendenza dal dollaro che hanno le due economie. Nell’economia dei paesi del Sud-est asiatico, e in parte anche in quella del Giappone, le esportazioni verso gli Stati Uniti hanno un peso esorbitante tanto che provengono quasi tutte da quest’area le merci che fanno registrare alla bilancia commerciale americana un deficit di oltre un miliardo di dollari e dal Giappone proviene anche la gran parte dei dollari dei sottoscrittori dei buoni del tesoro che la Fed emette per finanziare il debito pubblico statunitense.

In realtà a spingere i maggiori paesi europei verso la moneta unica non è stata solo la necessità di arginare il dominio del dollaro, ma anche quella di costituirsi a loro volta come un grande centro di potere finanziario in grado di intercettare quelle quote di rendita necessarie a compensare la caduta del saggio medio del profitto. L’aspirazione non è, insomma, di porre fine alla pirateria, ma di sostituire Capitan Uncino.

Riusciranno - si chiede infatti lo stesso De Cecco - [gli stati europei] a comprare beni e servizi all’estero pagando con le monete invece che con altre merci? (6)

Probabilmente per dare una risposta al quesito occorrerà ancora del tempo. Alla nuova moneta, perché possa assumere effettivamente il ruolo di moneta di transazione e di riserva internazionale, occorrono infatti una serie di requisiti che allo stato delle cose sono ancora tutti da costruire. Alle sue spalle non c’è ancora un sistema del credito e delle imprese sufficientemente integrato da poter costituire l’ossatura di una economia veramente continentale e di conseguenza non ci sono neppure una politica economica e una politica estera comune, né un apparato militare che alla bisogna sia in grado di intervenire in difesa dei suoi interessi e, infine, ancor più le manca uno stato sufficientemente centralizzato.

Il suo concorrente, il dollaro (ma anche lo yen, pur essendo espressione di una potenza economica inferiore), ha alle spalle tutto ciò, oltre a un prolungato primato economico, da secoli. Questo vuol dire che per un certo periodo di tempo più o meno lungo tra il dollaro, lo yen e l’Euro non ci sarà ancora una vera concorrenza e non è difficile prevedere che se l’integrazione europea dovesse arrestarsi, il dollaro, anche se agli orecchi più sensibili non sfuggono alcuni suoi scricchiolii, continuerà a essere la moneta di transazione e di riserva internazionale preferita per eccellenza. Nell’attesa, l’Euro fungerà più soprattutto da diga contro le turbolenze del mercato finanziario internazionale che da alternativa del dollaro ma già ciò modificherà profondamente gli equilibri interimperialistici. Saranno poi gli esiti dei processi di integrazione europei, che essendo a loro volta processi decisivi per la definizione delle gerarchie di comando all’interno del vecchio continente, non sono per nulla scontati, a decidere il futuro del mondo.

I nuovi scenari

Questa incertezza e il fatto che comunque prima che gli equilibri mondiali possano risultare sconvolti dalla nascita della nuova moneta occorrerà ancora un certo periodo di tempo, autorizzano gli economisti e gli intellettuali borghesi, soprattutto quelli europei, a disegnare idilliaci scenari in cui le tre monete, dollaro, ien ed euro, conviveranno pacificamente e con la concorrenza fra loro contribuiranno al completamento di quella economia globalizzata in cui efficienza e libertà la faranno da padrone a tutto vantaggio del "cittadino-consumatore". Delineano cioè una sorta di bi o tripolarismo virtuoso che andrebbe a colmare il vuoto creatosi con il crollo dell’ex impero sovietico. Ma le ragioni autentiche che hanno determinato la nascita della nuova moneta lasciano invece intravvedere l’ineluttabilità di nuovi e più generalizzati conflitti.

L’euro non nasce per raccogliere i frutti di una nuova fase di espansione del ciclo di accumulazione del capitale, ma per intercettare con la produzione di denaro per mezzo di denaro (D-D’) quote crescenti del plusvalore estorto su scala mondiale allo scopo di compensare la caduta del saggio medio del profitto industriale. Ma poiché, come abbiamo visto, nel momento stesso in cui questo tipo di appropriazione diviene dominante, si accentua anche la tendenza alla fuga del capitale finanziario dai processi produttivi, ne discende una crescente divaricazione fra la produzione di valori fittizi e quella di merci che fa si che mentre cresce la necessità di incrementare la prima, si restringono le possibilità di incrementare la seconda. Da un lato si vorrebbe accrescere il numero di coloro " che comprano beni e servizi all’estero pagando con la moneta invece che con altre merci" e dall’altro, così facendo, si negano i mezzi per incrementare proprio la produzione di quelle merci. Non si va dunque verso l’accrescimento della torta da spartire, ma verso il suo ridimensionamento.

L’epoca della "convivenza pacifica" fra più predoni si è chiusa per sempre perché sono venute meno le condizioni che consentivano loro di spartirsi un lauto bottino. Già nell’immediato futuro lo scontro darà luogo all’intensificarsi delle turbolenze sul mercato finanziario, da un lato, e, dall’altro, spingerà i rivali a stringere rapporti sempre più fitti e intensi con le aree economiche contigue allo scopo di dare alle rispettive economie la più ampia autonomia possibile perché sarà determinante poter contare su aree che abbondano di materie prime e di manodopera a basso costo.

Ma per questa stessa ragione è facile prevedere che le tensioni sono destinate a intensificarsi in tutte le aree strategiche ai fini del dominio imperialistico del mondo. In special modo si faranno più acute quelle nelle aree ex sovietiche e nella stessa Russia perché è evidente che il loro totale o parziale congiungimento all’area dell’Euro darebbe al blocco europeo, che ha già messo, soprattutto tramite la Germania, salde radici nei paesi baltici e nell’Europa dell’est, l’asso che potrebbe risultare vincente. Né meno coinvolto sarà l’Oriente soprattutto ora che l’effigie del vecchio George Washington impressa sull’altra faccia di molte monete locali è volata via lasciando sul terreno delle monete dimezzate che valgono quanto la carta straccia.

Alla grande spinta alla concentrazione e alla centralizzazione dei capitali farà inevitabilmente riscontro quella alla costituzione di aree mega-continentali fortemente centralizzate in cui lo spazio per posizioni neutrali si farà sempre più stretto. Insomma, sia che l’Euro diventi adulto o che si perda per strada, tutto potrà accadere tranne che il ritorno a qualche nuova Yalta.

Giorgio Paolucci

(1) Cfr. Prometeo 14, Il dominio della finanza.

(2) R. Kurz - La fine della politica e l’apoteosi del denaro Manifestolibri - 1997.

(3) Fonte: Il tradimento dell’economia, William Wolman e Anne Colamosca, Ponte Alle Grazie, 1997, pag. 112, tabella 4-1.

(4) Ib. pag.85-86.

(5) La Repubblica, Affari e Finanza, 4/5/1998.

(6) Ib. 27/3/98.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.