Il Governo D’Alema per stare in Europa

Atto secondo ma non ultimo di una politica anti operaia

I dietrologi avrebbero materia abbondante per scatenare la loro fervida fantasia sulla caduta di Prodi e sulla nascita del governo D’Alema. Nella realtà il cambio della guardia rientra perfettamente nella logica capitalistica delle vicende italiane senza scomodare i tecnici di quello che ci sta dietro. Tutto è nella evidenza delle cose. Il grande capitale finanziario e imprenditoriale aveva affidato al governo Prodi il compito di traghettare l’economia italiana verso le sponde dell’Euro a colpi di sacrifici per i lavoratori. Meno stato sociale, riforma delle pensioni, della sanità e dell’educazione. Riforma del rapporto tra capitale e forza lavoro in modo che la seconda fosse messa a disposizione del primo a costi sempre più bassi e a condizioni normative pressoché inesistenti con l’aggiunta dell’introduzione della flessibilità in entrata e in uscita. Il tutto in nome di un necessario aumento della competitività che ponesse l’azienda Italia nelle condizioni di sfruttamento ottimali per reggere la concorrenza internazionale. Non solo, il governo Prodi doveva anche garantire quella pace sociale, ovvero l’acquiescenza del mondo del lavoro, che in quella fase nessun governo di destra dichiarata avrebbe potuto garantire. L’allineamento palese dei sindacati e quello critico di Rifondazione hanno fatto il resto. Lo stato sociale ha iniziato a crollare sin dai primi colpi inferti dal nuovo governo, la riforma delle pensioni è giunta a compimento lasciando aperta la strada a nuovi ritocchi, i contratti di cui aveva bisogno il capitale il capitale sono diventati operativi: dal lavoro interinale ai contratti d’area, dal salario d’ingresso ai contratti di formazione. Il monte salari si è ridotto del 30%-40% e la disoccupazione è aumentata. Di converso, come era nei programmi, il governo di centro sinistra è riuscito a fungere da argine ad una eventuale risposta di classe. Le piazze sono rimaste deserte, il rullo compressore della politica dei sacrifici ha fatto le sue vittime senza che se ne sentissero le urla.

A questo punto, grazie anche alla tempestiva bizza di Rifondazione, immediatamente tamponata dall’altra tempestiva iniziativa dell’Udr di Cossiga, nella stanza dei bottoni dei poteri forti si è deciso di decretare la morte del governo Prodi per favorire la nascita di quello D’Alema. Non certo perché il governo Prodi non avesse fatto il suo dovere, ma in linea con il principio inderogabile che, raggiunta l’Europa con i sacrifici dei lavoratori, in Europa bisogna rimanerci con altri sacrifici, e un altro governo, che fosse apparentemente più a sinistra, avrebbe avuto più possibilità di successo che non quello precedente, logorato dal lavoro sporco effettuato. Un governo presieduto da D’Alema più e meglio avrebbe fatto in favore della continuità di una politica anti operaia. Detto fatto, e il governo D’Alema non ha perso tempo. Nella sua strategia generale, comprensiva del rilancio economico, della stabilità sociale su temi importanti quali le riforme istituzionali e la giustizia, l’ambiente e la politica estera, c’è uno spazio riservato al lavoro e alla occupazione. Nel suo discorso programmatico di Catania si sono poste le condizioni per ridefinire il rapporto tra capitale e forza lavoro in termini peggiorativi per i lavoratori, partendo dal sud, ovvero da quell’area socio economica falcidiata dalla disoccupazione, quale laboratorio di sperimentazione delle nuove tecniche di intensificazione dello sfruttamento da esportare successivamente su tutto il territorio nazionale. Al centro del programma la realizzazione di un nuovo patto per il lavoro che nelle intenzioni dovrebbe essere realizzato entro Natale. Nuovo perché dovrebbe sostituire quello precedente del governo Prodi peggiorandolo per ciò che riguarda l’attacco alla forza lavoro, ma pur sempre patto tra le parti, ovvero accettazione passiva e responsabile da parte del proletariato dei nuovi e più intensi contenuti dell’attacco. L’esempio pratico è nel sillogismo capitalistico: per creare posti di lavoro occorrono gli investimenti. Perché gli investimenti si producano occorre contenere il costo del lavoro. Ne consegue che i nuovi posti di lavoro sono possibili solo a saggi di sfruttamento aumentati. Sillogismi e politiche per l’occupazione a parte, l’unico asse portante su cui deve muoversi il capitalismo nel meridione è la remuneratività degli investimenti che può essere garantita solo attraverso uno sforzo dello stato per garantire agli imprenditori le infrastrutture necessarie, un basso costo del danaro, sgravi fiscali e un costo della mano d’opera basso se non bassissimo. Noi, dice D’Alema faremo il possibile per garantire tutto questo, voi imprenditori crescete, investite e arricchitevi. Ecco il senso e lo scopo del nuovo governo. Non solo, se dovessero presentarsi degli ostacoli di ordine normativo o sociale, non ultima una ripresa delle lotte da parte della classe operaia, noi li toglieremo di mezzo. E in sorta di monito a quella parte del patto per il lavoro che è destinataria del messaggio, in termini di grande chiarezza in modo che non ci siano dubbi di sorta, il presidente del consiglio ex stalinista, ex picista, neo amministratore delegato degli interessi del capitalismo italiano, neo affamatore di famiglie operaie e aspirante becchino della lotta di classe, ha ribadito che la contrattazione dei salari, qualora dovesse esprimersi sotto forma di richieste di aumenti economici, dovrà essere sempre più vicina al momento della produzione. Come dire che di rivendicazioni salariali non se ne parla e che i salari devono in ogni caso essere agganciati al saggio del profitto e non alle esigenze, anche se ridotte ai minimi termini per una società industriale che si colloca nei primi sei - sette posti dei paesi più ricchi al mondo, della classe operaia. Ecco a che cosa doveva servire il passaggio dal governo Prodi a quello D’Alema. Per la continuità dell’attacco alla classe operaia, per il mantenimento della pace sociale, perché il capitalismo possa continuare a vivere nonostante le sue esasperate contraddizioni e perché i lavoratori siano ulteriormente sfruttati nonostante le già precarie condizioni dei livelli salariali e occupazionali.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.