La riforma della scuola: scontro di idee o scontro di classe?

Già sul numero scorso del giornale ci siamo occupati di ciò che sta avvenendo nella scuola e il ritornarci sopra ha la sua ragione d’essere nel fatto che le manovre messe in atto dalla borghesia, tramite i governi succedutisi negli ultimi anni, sono un salto di qualità rispetto alle tradizionali politiche scolastiche, perché si inscrivono nel piano globale di smantellamento del cosiddetto stato sociale e di deregolamentazione complessiva della forza-lavoro, in favore delle esigenze del capitale delineatesi in questa fase storica. Insomma, l’obiettivo strategico è quello di rendere il mondo della scuola ancor più (e meglio) sottomesso alle necessità del padronato (pardon, dell’impresa), realizzando in tal modo la trentennale aspirazione studentesca di avvicinare la scuola al mondo del lavoro. Infatti, in sé e per sé, il finanziamento statale alle scuole private - in gran parte cattoliche - non è una novità, dato che direttamente o indirettamente, stato ed enti locali pompano ogni anno migliaia di miliardi dalle tasche dei proletari (gli unici che non possono evadere le tasse) a quelle degli istituti “educativi” privati: basti pensare agli insegnanti di religione, a nomina insindacabile del vescovo, pagati con denaro pubblico o a quella selva di interventi a favore del “diritto allo studio” messi in atto da tante amministrazioni locali nel settore dell’istruzione primaria e secondaria (materne, medie, ecc.). Ciò che sta avvenendo oggi è quindi un punto di svolta che non interessa, però, solo l’Italia, in quanto rientra in una tendenza complessiva comune a tutta l’Europa e non solo. Certo, a rendere la cosa ancor più sensazionale, specialmente agli occhi del cosiddetto popolo di sinistra, è il fatto che nemmeno al tempo dei suoi trionfi la Democrazia Cristiana aveva osato intervenire così spudoratamente in favore delle scuole private, mentre ora è proprio un governo guidato da un ex “comunista” a farlo. Come mai, cos’è successo, cos’è cambiato nel panorama politico? Sono cambiate tante cose e nello stesso tempo non è cambiato niente. I partiti sono, in fondo, gli stessi di quarant’anni fa che rispondono, come sempre, alle esigenze del quadro capitalistico, ma essendo queste mutate, ecco che anche i ruoli sono mutati. Perché stupirsi se D’Alema va incontro con sollecitudine al pianto di dolere dei vescovi: non è forse cresciuto alla scuola (è proprio il caso di dirlo) di Togliatti, che rinnovò il concordato fascista con la Chiesa? Ci si è già dimenticati del compromesso storico, cavallo di battaglia del PCI berlingueriano, la cui prima, seppur solo accennata, attuazione ossia i governi di unità nazionale, sul finire degli anni ’70 inaugurò, prima di Reagan e della Tatcher, la feroce “epopea” dell’aggressione globale alla classe operaia mondiale da parte del capitale internazionale? Così, fedeli a sé stessi, i partiti della borghesia che siedono in parlamento, benché in ritardo, rivoltano come un guanto il settore dell’istruzione, con il concorso determinante del sindacato confederale, che di quei partiti è il braccio “armato” tra i lavoratori dipendenti. Sono ormai anni che nel comparto scuola (per limitarci ad esso) ogni rinnovo contrattuale segna un netto peggioramento delle condizioni dei lavoratori docenti e non docenti. Aumenti salariali ridicoli, decisamente al di sotto del buffonesco indice di inflazione programmata, con una conseguente perdita del potere d’acquisto intorno al 25%; taglio di migliaia e migliaia di posti di lavoro - ben oltre i centomila - che vanno di pari passo all’aumento degli straordinari; introduzione del rapporto di lavoro di tipo privatistico dei precari (supplenti), rendendoli ancor più precari di quanto non lo siano già, con tanti saluti alla qualità del servizio, come, con ripugnante ipocrisia, viene chiamato il lavoro nella scuola dagli organi dirigenti. Per finire, ma non da ultimo, la fascistizzazione aperta della gestione del personale con il divieto, in pratica, di scioperare, se non per quegli scioperi burla che danneggiano esclusivamente chi vi partecipa. Così come, per effetto della crisi del capitale “mondializzato”, i vari settori nazionali della classe operaia internazionale sono messi in concorrenza tra di loro in una crescente rincorsa al ribasso per alimentare sia il profitto industriale che la quota, via via crescente, spettante al capitale finanziario, allo stesso modo, le condizioni dei lavoratori della scuola pubblica devono, secondo la borghesia, progressivamente avvicinarsi a quelle del settore privato, dove lo sfruttamento selvaggio in tutte le sue forme regna incontrastato: stipendi notevolmente più bassi e non di rado quasi inesistenti, assunzione, orario, licenziamento sottomessi alla totale discrezionalità del direttore-padrone e, nel caso degli istituti cattolici, addirittura pesante intrusione nella vita privata dei dipendenti.

Nei fatti, la riforma della scuola, invocata a gran voce sia dal riformismo che dai settori più conservatori della borghesia, si sta attuando pezzo per pezzo, anche con l’intervento di ministeri che con la scuola hanno apparentemente un rapporto solo indiretto. Il Patto per il lavoro del ’96, la legge Treu 196/1997 sull’occupazione giovanile e la cosiddetta autonomia scolastica sono strettamente intrecciate, come dimostra la recentissima decisione di abbandonare i Contratti di Formazione e Lavoro a favore dell’apprendistato e degli stages formativi (il Manifesto, 6-12-’98).

L’autonomia scolastica mira a rendere ogni istituto simile a un’azienda e il preside una specie di amministratore delegato che, con gli enti locali e le associazioni padronali - o anche con singoli imprenditori - concorre a mettere in piedi il “sistema formativo integrato” per la formazione professionale. Traducendo, i presidi, il cui potere è aumentato e aumenterà ancora, potranno in primo luogo aprire le porte a finanziamenti esterni (è facile capire da dove arriveranno questi eventuali finanziamenti e a quali condizioni) e mettere le strutture scolastiche, di proprietà pubblica, a disposizione delle esigenze del capitale locale per sostenerne lo sviluppo. In questo quadro si collocano gli stages e la legge Treu. Ricordiamo che per stage si intende quel periodo di quaranta giorni che uno studente trascorre nell’azienda per “conoscere” da vicino il famigerato mondo del lavoro. Oggi, quella degli stages è una realtà diversificata, perché se è vero che in certi casi lo studente si può trovare semplicemente parcheggiato in un ufficio pubblico, è altrettanto vero che in moltissimi altri casi lo stage è nient’altro che super sfruttamento riconosciuto e benedetto dalle istituzioni, visto che i ragazzi fanno un lavoro vero pagati, se vengono pagati, con ottocentomila lire circa. È qui che entra in scena il pacchetto Treu, in quanto la legge sull’apprendistato, estesa a tutti i settori lavorativi e fino a 24 anni (26 al Sud), prevede esplicitamente che l’apprendista segua delle ore di formazione professionale pagate non dal padrone ma dallo stato. È di questi giorni la proposta di Bassolino di stanziare 400 miliardi a questo fine e sovvenzionare quelle imprese che istituiscono degli stages per giovani laureati (il Manifesto, 3-12-’98). Tutto questo rientra, come si diceva, nella logica del Patto per il lavoro e dei successivi patti territoriali e contratti d’area, i quali si basano esplicitamente sull’attiva collaborazione a ogni livello di stato,, padroni e sindacati “per lo sviluppo”. Proseguendo nella traduzione: più soldi al padronato, abbattimento di ogni seppur minimo ostacolo allo sfruttamento del proletariato, specialmente se giovane.

Tralasciamo qui volutamente un aspetto, diciamo accessorio, rispetto alla strategia apertamente teorizzata della borghesia, ma tutt’altro che secondario ossia il prevedibile “magna-magna” collettivo a cui si dedicheranno preti, sindacalisti, confindustriali, amministratori pubblici che gestiranno i soldi destinati alla formazione e all’istruzione in generale. Il tutto, naturalmente, a spese del proletariato complessivo e, in specifico, dei lavoratori della scuola, i quali, mentre nei rinnovi contrattuali ricevono, se ricevono, poco più che elemosine, vedono allo stesso tempo stanziare somme nient’affatto disprezzabili per l’acquisto di materiale tecnico che o viene sottoutilizzato o costringe ad aumentare i carichi di lavoro a causa della carenza di personale.

Certamente, allo stato attuale delle cose, ciò che si è detto finora in merito a scuola e formazione, si riferisce più a una tendenza in atto che ad una realtà già ben delineata, ma gli interventi legislativi di cui si è parlato, gli accordi sul sistema scolastico integrato sottoscritti da alcune regioni come l’Emilia Romagna e l’intesa tra Ministero della Pubblica Istruzione e Confindustria firmata il 16-3-’98, vanno senza ombra di dubbio in questa direzione.

Alla luce di tutto questo, la protesta che sta attraversando la scuola e, come dicevamo nel numero scorso, enormemente inadeguata, in mancanza di un preciso riferimento di classe e rivoluzionario. I lavoratori sono, nel complesso, assenti, mentre gli studenti si dibattono vanamente in un qualunquismo protestatario quanto mai generico, vittime di un analfabetismo pressoché totale, tanto che, nella maggior parte dei casi, rivendicano come un pregio il loro maggior limite ossia quello di essere apolitici, cioè, diciamo noi, l’incapacità assoluta di capire cosa sta accadendo sulla loro pelle (se proletari!) e perché. Nel migliore (si fa per dire) dei casi, il ribellismo studentesco si mette, ovviamente, al traino delle illusioni riformiste di pura marca socialdemocratica che guidano l’azione della sinistra “antagonista” dentro e fuori il baraccone parlamentare, la quale trova del tutto naturale aderire al manifesto laico per la scuola lanciato da alcuni intellettuali borghesi. Se la cosa non fosse seria, ci verrebbe da ridere nel vedere sfilare i Cobas (tanto per fare un esempio), nemici della precarizzazione del lavoro, a braccetto con chi indica nella flessibilità e nella precarizzazione della forza-lavoro la strada maestra per creare occupazione e ridare slancio ai profitti.

Noi e i giovani compagni dei Gruppi di Lotta Proletaria, che, essendo in maggioranza studenti, operano soprattutto nella scuola, crediamo invece che le guerre di religione siano davvero finite e che la lotta all’oscurantismo religioso, benché doverosa, sia solo un aspetto e per di più secondario della generale lotta contro il capitale, che, nella sua guerra permanente alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, alla fin fine riunifica e raccoglie tutte le sue fazioni, di destra e di sinistra, illuminate e oscurantiste, a dispetto di chi crede che per i borghesi possano esistere valori comuni al di sopra delle classi.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.