La crisi del Brasile

Si allarga il fronte della crisi internazionale del capitale

La crisi internazionale del capitale, che sconvolge da quasi tre decenni i meccanismi di accumulazione capitalistici, ha fatto un'altra vittima illustre. Lo scorso 13 gennaio il Brasile, colpito dall'ennesimo attacco speculativo, ha dovuto abbandonare al proprio destino la moneta nazionale, il real, lasciandola fluttuare rispetto al dollaro e aprendo la strada ad una fuga in massa di capitali verso l'estero, in mercati ritenuti più sicuri dai grandi investitori internazionali. In pochissimi giorni le borse di San Paolo e di Rio hanno visto crollare i propri indici azionari mentre il real ha perso nei confronti della moneta statunitense quasi il trenta per cento del proprio valore. A scatenare la furia dei mercati internazionali e far precipitare gli eventi sono state le decisioni del governatore dello stato del Minas Gerais, Itamar Franco, di sospendere per novanta giorni il pagamento dei 15 miliardi di dollari di debiti accumulati in questi anni di sfrenata politica liberista dal suo stato. Come in un grande effetto-domino le dichiarazioni del governatore hanno scatenato una vera e propria fuga di capitali all'estero che ha portato il Brasile sull'orlo della bancarotta.

La crisi brasiliana non rappresenta il classico fulmine a ciel sereno, ma conferma in pieno le preoccupazioni espresse dagli stessi economisti borghesi durante la crisi finanziaria russa della scorsa estate che indicavano proprio nel Brasile il paese dove con maggior probabilità si sarebbe manifestata la prossima crisi finanziaria. Infatti, per prevenire il manifestarsi della crisi o quanto meno attenuare l'impatto, il Fondo Monetario Internazionale nello scorso autunno aveva elaborato un piano di finanziamento al governo brasiliano di ben 40 miliardi di dollari.

Le ingenti risorse messe in campo non sono state sufficienti a scongiurare l'annunciato crollo dell'economia brasiliana; sono svaniti sotto i colpi dell'attuale crisi economica i sogni di grandezza del capitalismo brasiliano e della politica liberista che ha rappresentato per tutti gli anni novanta l'unico credo della classe dominante. Fra i paesi più attenti nel rispettare i modelli di "sviluppo" imposti dal Fondo Monetario Internazionale, il Brasile nei primi anni novanta inaugura una nuova stagione di politica economica. L'allora ministro dell'economia Cardoso, l'attuale presidente della repubblica, elaborò un programma economico liberista con il quale si stabiliva che la nuova moneta, il real, dovesse non solo avere un rapporto paritario rispetto alla moneta statunitense (un real si scambiava con un dollaro) ma tale rapporto era praticamente fisso. Il piano real, così come venne chiamato allora dal suo ideatore, ha rappresentato la versione brasiliana della politica neo-liberista che il grande capitale finanziario internazionale ha imposto su scala mondiale ad un proletariato purtroppo incapace di opporre se non in rarissime occasioni una seria opposizione di classe. Decisi tagli alla spesa pubblica, privatizzazione delle imprese statali, apertura dell'economia verso i mercati internazionali, deregolamentazione generale e soprattutto lotta all'inflazione sono stati gli strumenti con i quali il governo brasiliano ha pedissequamente applicato le indicazioni provenienti dalle grandi istituzioni finanziarie internazionali.

Il cardine intorno al quale è ruotata la politica economica del Brasile in questo decennio è stato una lotta sfrenata all'inflazione, ritenuta la causa più importante del mancato sviluppo economico del paese. Gli strumenti per abbassare il tasso d'inflazione sono stati essenzialmente due: ancoraggio della moneta nazionale al dollaro e elevati tassi d'interessi. Ancorarsi alla moneta americana ha garantito al real di godere di una certa stabilità, mentre la politica degli elevati tassi d'interessi è servita ad attirare nel paese i capitali esteri necessari a finanziare il sistema produttivo. Nel breve periodo tale politica ha dato l'illusione che il Brasile potesse fare quel salto di qualità economico sempre sperato ma mai raggiunto, ma alla lunga ha determinato l'accentuarsi delle proprie contraddizioni. Infatti essersi legati al dollaro non solo ha tolto alla banca centrale ed al governo brasiliano la necessaria autonomia nell'applicare politiche economiche anticicliche, ma alla lunga lo stesso legame alla moneta statunitense si è tradotto in un cappio letale.

Le contraddizione del piano real sono emerse immediatamente; infatti nonostante il notevole afflusso di capitali stranieri nel paese l'economia brasiliana non ha fatto registrare i ritmi di crescita degli anni precedenti. Negli anni novanta la crescita economica del paese è stata sempre al di sotto del 2%, dimostrando in pieno la natura essenzialmente speculativa dei capitali esteri, attratti esclusivamente dagli alti tassi d'interesse e pronti a cambiare rotta quando altri paesi offrivano remunerazioni più alte. La politica monetaria restrittiva ha determinato inoltre un netto peggioramento della bilancia commerciale e dei pagamenti del paese e soprattutto l'esplodere del debito estero che nel 1998 ha sfiorato la cifra record di ben 190 miliardi di dollari. Proprio il debito estero è all'origine dell'esplodere dell'ultima crisi finanziaria. In questi ultimi mesi il rallentamento dell'economia brasiliana, colpita dall'onda lunga della crisi delle tigri asiatiche, ha determinato una situazione tale per cui i debiti contratti dal Brasile non fossero ritenuti dai grandi investitori internazionali perfettamente solvibili come in passato. La moratoria di 90 giorni da parte del governatore del Minas Gerais è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, dando la conferma che il Brasile non fosse più in grado di onorare i debiti contratti e come tanti uccelli spaventati i capitali hanno frettolosamente abbandonato il paese.

Intorno alla crescita esponenziale del debito estero si è giocata anche la partita delle privatizzazione dell'economia brasiliana con la quale sono state sottratte al paese strutture produttive di enorme valore economico costruite nell'arco di decenni. Infatti proprio grazie all'indebitamento estero, il governo brasiliano per far fronte ai debiti in scadenza è stato costretto a svendere ai creditori internazionali, spesso e volentieri delle multinazionali, insediamenti produttivi altamente competitivi sui mercati mondiali.

Il precipitare della situazione finanziaria avviene in un quadro economico e sociale drammatico. Crescita immediata dell'inflazione subito dopo la svalutazione della moneta rispetto al dollaro, fuga in massa di capitali all'estero, debito pubblico che supera abbondantemente la cifra di 250 miliardi di dollari, un rapporto deficit prodotto interno lordo del 8,4%, un tasso di disoccupazione che sfiora il 10% e una previsione di crescita economica del Pil del meno 1,5% sono solo alcuni dati che testimoniano della gravità economica in cui versa il Brasile. Con lo scoppio della bolla speculativa il Fondo Monetario Internazionale ha congelato parte degli aiuti promessi subordinandoli ad ulteriori tagli della spesa sociale. Ma una tale richiesta non può che determinare una contrazione della domanda interna ed una crescita esponenziale della disoccupazione (la Ford ha annunciato per i prossimi mesi massicci licenziamenti negli stabilimenti brasiliani).

L'esplosione della crisi finanziaria in Brasile rappresenta solo una tappa della crisi mondiale del capitale e come tale è destinata ad alimentare le modificazioni in atto nell'ambito del capitalismo internazionale. Negli stessi giorni in cui i capitali abbandonavano il Brasile, il presidente argentino Menem per scongiurare l'espandersi della crisi nel proprio paese, annunciava di voler sostituire la moneta argentina con il dollaro. Propria la crisi brasiliana può detereminare un'accelerazione nel processo di dollarizzazione del continente latino americano e dare così una risposta significativa alla nascita dell'euro e alle velleità imperialistiche della borghesia europea. Ma su questo torneremo nei prossimi numeri del giornale.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.