Guerra e politica rivoluzionaria

La guerra della Nato nei Balcani, ovvero undici settimane di bombardamenti Nato dell'intera Federazione Jugoslava da diecimila metri di quota, ha avuto caratteristiche tali da evidenziare molto più che nel passato recente l'enorme distanza che separa la minoranza marxista da tutte le formazioni della sinistra borghese, più o meno radicale, che ancora domina la scena.

Tale distanza si verifica tanto sul terreno dell'analisi - e prima ancora del metodo e degli strumenti dell'analisi - quanto nelle implicazioni e conclusioni politiche, immediate e di prospettiva.

Questo numero di Prometeo è quasi esclusivamente dedicato all'analisi critica dei motivi e delle condizioni di questa guerra e della successiva "pace", perciò ci limitiamo qui a una sintesi riassuntiva della "base di determinazione" delle implicazioni politiche, che sono oggetto di questo articolo.

È chiaro che le ragioni vere di questa, come di ogni guerra, che impegni gli stati capitalisti, - al di là dei fumi ideologici di coperture della guerra, prodotti e largamente diffusi dalla borghesia e del suo seguito di servi e scrivani - vanno ricercate negli interessi economici, strategici e politici che quegli stati rappresentano e difendono. Di passaggio possiamo osservare che la condizione di amministratori politici dello stato borghese porta con sé, necessariamente, il prevalente impegno nella produzione del fumo piuttosto che nel disvelamento delle ragioni vere delle politiche di stato; così gli stalino-piccisti di ieri che avrebbero denunciato dall'opposizione l'ingerenza imperialistica degli Usa nelle faccende d'Europa, trasformatisi ora in "sinistri democratici" responsabili di governo, sono tra i maggiori, e più responsabili appunto, produttori di fumo.

Ma non basta evidentemente respingere le ideologiche giustificazioni umanitarie della guerra, per comprendere la guerra stessa, le sue ragioni e le sue implicazioni.

Il primo punto, per chiunque voglia dirsi marxista, da chiarire è la fase in cui il capitalismo si trova, ovvero le sue caratteristiche salienti, perché è dalle contraddizioni e problemi del capitalismo stesso che la guerra si genera.

Imperialismo

La fase presente del capitalismo è quella imperialista, apertasi agli inizi del ventesimo secolo, con le caratteristiche evidenziate da Lenin nella sua opera "L'imperialismo, fase suprema del capitalismo" ed ora sviluppatosi modificando proprio il rapporto fra capitale finanziario e investimenti produttivi. Va a nostro merito l'aver quantomeno cercato di individuare questi aspetti di "novità" e legarli agli altri fenomeni sociali e politici della formazione sociale capitalistica.

Va invece a gravissimo demerito di moltissime formazioni della variegata sinistra borghese, comprendente gruppi auto-etichettantisi di internazionalisti, il rimanere su posizioni già battute da Lenin 84 anni fa. La prima lezione del libro di Lenin è infatti che l'imperialismo non è una politica, non è la politica di questo o quello stato ma è precisamente una fase del capitalismo.

L'imperialismo è dunque l'attuale modo d'essere del modo di produzione capitalista, che conserva tutte le sue caratteristiche fondamentali, fra le quali l'anarchia della produzione, la produzione in funzione del profitto, l'assoluta prevalenza della ricerca del profitto su qualunque altra spinta o motivazione, politica, etica, o umanitaria; la compresenza di aggregazioni maggiori e minori di capitali (su base societaria, nazionale o multinazionale) e la lotta incessante fra loro, nella medesima ricerca del massimo profitto in qualunque forma esso si dia e del massimo sfruttamento del proletariato. In altri termini, è semplicemente ovvio che nell'insieme mondiale di paesi capitalistici, la comune natura capitalistica si accompagni a differenze anche vistose per quanto riguarda altri fattori, quali il grado di concentrazione del capitale, il potenziale produttivo, l'avanzamento tecnologico, in breve la dimensione/forza.

L'insieme degli stati capitalistici si caratterizza unitariamente per la sua natura fatta di sfruttamento del proletariato e repressione delle istanze rivoluzionarie di classe. Ma si divide in sotto-insiemi definiti dalle diverse reti di interessi intessute fra stati e zone geo-economiche.

Ora, ciò che maggiormente caratterizza l'attuale fase imperialista è la enorme crescita della sfera finanziaria e della rendita a essa associata rispetto alle altre forme in cui appare il plusvalore estorto alla classe operaia mondiale. Un altro essenziale fattore di disuguaglianza fra gli stati capitalisti oggi è dunque la graduatoria nella appropriazione della rendita, graduatoria che vede gli Usa di gran lunga in testa grazie al controllo mondiale di un fondamentale strumento di appropriazione/rapina della rendita finanziaria: il petrolio.

Ed è appunto il controllo sul petrolio, o meglio sulle sue canalizzazioni e scambi, che sta alla base, insieme a pochi altri elementi, della ragione dell’intervento angloamericano, tanto nell’Iraq quanto nel Kosovo.

Non capire questo, non cogliere cioè gli aspetti salienti della fase capitalista in cui si vive, significa rimanere estranei alla pratica della critica dell'economia politica, fondamento teorico essenziale di qualunque politica rivoluzionaria. Significa quindi inevitabilmente attestarsi su posizioni imbelli - perché legate a fasi superate e dunque sganciate dalla realtà - ancorché formalmente corrette, nella migliore delle ipotesi, o finire a schierarsi, consciamente o meno, sui fronti dell'imperialismo, nella peggiore delle ipotesi, che è maggiormente verificata nel calderone della sinistra borghese.

È così che vediamo le più disparate correnti di sinistra borghese accomunate da un assunto, tanto vetero-terzinternazionalista quanto reazionario, secondo cui imperialisti sono gli Usa e i paesi occidentali loro alleati, e antimperialisti sono...tutti gli altri, nel momento in cui per una ragione o per l’altra, in un modo o nell’altro si contrappongono ai primi. È evidente, che ne viene, in questi momenti di contrapposizione, l’automatico schierarsi coi presunti antimperialisti: siano essi l’Iraq, la Serbia, l’Hamas o le Tigri Tamil. Ed è tanto interessante quanto triste osservare le contorsioni ideologico-politiche alle quali molte di queste formazioni della radicalità piccolo borghese si costringono per tener fede a quell’assunto, nonostante il patente oscurantismo e reazionarismo anti-proletario dei supposti antimperialisti.

È un modo come altri per schierarsi sui fronti della guerra, essendo convinti e cercando di convincere di essere sulla linea di sviluppo della strategia proletaria. Non manca infatti chi interpreta l’appoggio incondizionato allo scontro delle borghesie più deboli contro le più forti come una "leva" per una "vera lotta comunista". Poiché non fa fine parlare di scontri fra borghesie, occorre trasfigurare quella più debole in un "popolo oppresso", che è quello che fanno praticamente tutti quei sinistri: da una parte l’imperialismo, dall’altra i popoli oppressi.

Leninismo?

Certamente, è stato anche Lenin a sostenere che la lotta dei popoli coloniali poteva inscriversi in una strategia rivoluzionaria, ma nel momento in cui si saldava alla battaglia dell’Internazionale Comunista contro il capitalismo mondiale a partire dal caposaldo dello Stato Operaio in Russia.

Ma si è mai dato il caso di una tale saldatura? No. Invece quel che fu prestissimo verificato fu la impossibilità di quella saldatura, quantomeno quella fra movimenti nazionali "anti-imperialisti" e movimento di classe del proletariato internazionale.

Continuando a considerare il popolo come tale, su terreno quindi interclassista, si lasciava inevitabilmente la direzione del processo alle sue classi dirigenti, a giovani borghesie tanto attive contro l’imperialismo quanto spietate contro i loro comunisti. La vicenda dei rapporti fra Mosca e la Turchia, fra il Partito comunista Russo e il governo di Kemal Ataturk, sono molto significative: la "amicizia e neutralità" fra gli stati ufficializzata con il Trattato di Parigi del dicembre 1925, si realizzava mentre il Partito comunista di Turchia era costretto alla clandestinità e diciotto dirigenti comunisti venivano condannati a un totale di 177 anni di carcere. (1)

Simile, anche la vicenda persiana dove l’impegno dei comunisti nella "intensificazione della lotta degli elementi nazionali e democratici" (leggi Riza Khan) (2) portò alla ascesa al trono dello scià Reza, ma non portò nessun vantaggio alla causa proletaria, né tantomeno al Partito comunista, e non ostacolò per niente le mene imperialistiche della Gran Bretagna nel Vicino oriente.

In realtà, già dal 1923, la convergenza strategica cercata si palesò essere quella fra movimenti nazionalisti e politica estera dello stato sovietico, impegnato nella rottura dell’accerchiamento e nella sua affermazione sull’arena mondiale e non più sulla pratica di una strategia internazionale rivoluzionaria.

Già riconoscere questo, in linea con le tesi marxiste sul processo controrivoluzionario in Russia e nell’Internazionale, dovrebbe bastare a respingere qualunque ipotesi di sostegno alle pretese politiche "anti-imperialiste" di stati e movimenti nazionalistici, muoventisi nel network di interessi e scontri di interessi che caratterizza il capitale internazionale. Non c’è più neppure lo "stato guida" di un tempo, il "potente catalizzatore" che, nelle fantasie di alcuni, avrebbe costituito comunque un fattore di mobilitazione allo scontro. Ma se già quella politica di "saldatura" e "convergenza" si dimostrò fallimentare - sul piano di classe, beninteso - quasi ottant’anni fa, riproporre oggi quelle medesime tesi sta solo a dimostrare il proprio essere irrimediabilmente vecchi.

Assume invece gli aspetti del falso ideologico, il riferire le posizioni a sostegno di "popoli oppressi" o a "popoli aggrediti" in quella salsa a pretese tradizioni della sinistra comunista.

Ma tant’è. I rapporti di forza fra le classi sono tali, e talmente in basso è oggi l’attività oggettiva e soggettiva di classe operaia che tutto è consentito e chiunque si ritiene in diritto di dire qualunque cosa che chiama vendetta, senza che la vendetta possa per ora arrivare.

Abbiamo così individuato due elementi chiave: una drammatica carenza di strumenti e metodi di analisi dell’imperialismo, prima ancora che delle sue fasi, e un rituale richiamo a tesi della Terza Internazionale già deboli ai suoi esordi e presto piegate alla politica imperiale sovietica. Sono gli elementi che caratterizzano, nelle prese di posizione di fronte alla guerra del Kosovo, un ampio spettro di organizzazioni politiche che va dalle due anime di sinistra di Rifondazione ai trotzkisti, dall’arcipelago dell’Autonomia ad alcune forze che proditoriamente si definiscono internazionaliste.

Pro serbi e pro kosovari

Vale la pena soffermarsi sulla buffa, se non fosse tragica, contrapposizione interna alle componenti di Rifondazione e fra alcune di queste e i trotzkisti esterni.

Qui sono ancora due vecchie posizioni presenti nella Terza Internazionale a confrontarsi e scontrarsi. È segno - va detto chiaramente - che qualcosa non andava, non era cioè abbastanza chiaro e coerente neppure nei primi congressi dell’Internazionale.

Le due "idee forti", che forti non erano e che ora lacerano la sinistra borghese, erano quella già menzionata dell’appoggio agli "elementi nazionali e democratici antimperialisti" e quella, peraltro allora strettamente connessa, del "diritto dei popoli all’autodecisione".

Ed ecco la scena attuale: la Nato (che è "l’imperialismo") aggredisce la Serbia. Ne viene che la Serbia assume un ruolo in qualche modo antimperialista, da appoggiare incondizionatamente (come dicono i più truci, che non sono né trotzkisti né di Rifonda).

D’altra parte la Serbia conduce da tempo una politica oppressiva nei confronti del Kosovo, che ha determinato un movimento autonomistico, eventualmente secessionista e unionista con l’Albania; questo movimento rivendica esattamente l’autodeterminazione del popolo kosovaro. Ne viene che esso va appoggiato contro le politiche oppressive, minimperialistiche del regime serbo. La contrapposizione che si era palesata prima dell’intervento Nato fra filo serbi e filo kosovari è stata in qualche modo soffocata al momento dell’attacco Nato: diciamo soffocata perché nessuno dei contendenti si è più spinto oltre la generica condanna del megaimperialismo (quello euro-statunitense) e della sua certa brutalità. Purtuttavia la contrapposizione politica è rimasta ed ora i termini dei futuri accordi fra i briganti in tregua non mancheranno di mettere in imbarazzo i sostenitori dell’uno e dell’altro fronte nei Balcani.

Sempre soggetti al fardello delle suddette tesi terzinternazionaliste, ci sono poi gli outsider (quali Operai Contro) che, pur sostenendo la necessità dell’unità internazionale del proletariato contro il capitale, generatore unico di guerre e di miseria, sviliscono poi il tutto con la difesa della autodeterminazione kosovara, chiamando addirittura gli operai di Serbia a difenderla contro Milosevic. La tesi sottostante è che lo sviluppo dell’iniziativa di lotta operaia in Serbia dovrebbe o potrebbe avvenire in contemporanea con l’alleanza del proletariato stesso con la borghesia kosovara. Rabbrividente. Perché è la borghesia, senza alcun dubbio, alla base e alla direzione dell’indipendentismo kosovaro. E il fatto che sia fatta per metà di una ex burocrazia stracciona aspirante a gestire e a spartirsi le briciole degli investimenti promessi dagli aggressori Nato, e per l’altra metà di trafficanti malavitosi di droga, armi e carne umana, invece che da impomatati capitani di industria e tagliatori di cedole è solo peggiorativo del quadro.

La debolezza delle tesi della Terza Internazionale sulla "autodeterminazione dei popoli" era giustificata, nel 1920, dalla "constatazione" che:

La congiuntura politica mondiale attuale mette all’ordine del giorno la dittatura del proletariato; e tutti gli avvenimenti della politica mondiale si concentrano inevitabilmente attorno a un centro di gravità: la lotta della borghesia internazionale contro la Repubblica dei Soviet che deve raggruppare attorno ad essa da una parte il movimento soviettista dei lavoratori avanzati di tutti i paesi, dall’altra parte tutti i movimenti di emancipazione nazionale delle colonie e delle nazionalità oppresse che un’esperienza amara ha convinto che non c’è salvezza, per loro, al di fuori di una alleanza con il proletariato rivoluzionario e con il potere sovietico vittorioso sull’imperialismo mondiale. (3)

Ecco il nodo - sul quale si svolse tutto il dibattito anche polemico fra Lenin e altri comunisti come l’indiano Roy e il persiano Sultanzadeh: il "diritto all’autodeterminazione" va difeso contro i paesi colonialisti e imperialisti in quanto soggetto alla attrazione di quel centro di gravità: il potere proletario all’ordine del giorno.

Ebbene, nulla di tutto ciò esiste oggi - e da gran tempo: né una dittatura proletaria in atto e in azione, né un vasto movimento proletario comunista, né quella (erroneamente supposta) convinzione dei movimenti nazionalisti che sarebbe per loro necessario allearsi al proletariato rivoluzionario mondiale.

A chi poi volesse elevare il diritto alla autodeterminazione come principio assoluto, etico che i comunisti dovrebbero far proprio, rispondiamo che i comunisti non solo non difendono i diritti di una frazione della borghesia contro altre frazioni, ma si battono a morte contro tutta la borghesia e tutti i suoi "diritti" di sfruttare, affamare e mandare al macello le masse proletarie.

Realismo o idiotismo politico?

Fra gli argomenti "sostanziali" a sostegno delle tesi pro-nazionalismo, in maschera internazionalista, c’è quello del "realismo", della necessità cioè di partire dai dati reali della situazione in cui ci si muove, per muovere verso.... (vedremo dove)

Ora è fuori discussione che tanto in Serbia quanto nel Kosovo (quanto in molte altre zone e paesi) il nazionalismo è il pensiero e il terreno politico prevalente, che permea di sé anche la soggettività - se di soggettività di classe si può parlare - del proletariato. Andare adesso a parlare di unità proletaria fra i lavoratori della nazionalità oppressa e della nazionalità che opprime, "ignorando" il dato di fatto del rapporto di oppressione sarebbe colpevole indifferentismo e comunque intellettualismo imbelle. A sostenere questo argomento troviamo sia i pro-serbi sia i pro-kosovari: tutto sta a determinare quali sono le nazionalità o entità che opprimono e quelle oppresse.

Ma perché l’argomento sia valido, occorre dimostrare che l’appiattimento sull’esistente abbia (almeno qualche volta) contribuito alla modifica dello stesso e delle sue dinamiche.

È vero invece che ogniqualvolta i comunisti si sono trovati alla testa di movimenti oggettivamente di classe e che lasciavano un segno almeno in termini di rafforzamento politico, ciò è sempre coinciso con una forte azione politica, di agitazione, di propaganda, di organizzazione, contro l’esistente: dalla Rivoluzione Russa al Biennio Rosso in Italia, dai tentativi rivoluzionari tedeschi, alla vicenda resistenziale.

Dobbiamo ricordare che il Partito Comunista Internazionalista è nato in piena guerra mondiale, sull’onda degli scioperi torinesi e milanesi del 1943, contro tutti i fronti dell’imperialismo e contro il partigianesimo che su uno dei fronti si trovava schierato.

Anche allora l’Italia si trovò aggredita e invasa dall’ex alleato tedesco; anche allora il "comandamento dell’ora" era la liberazione nazionale dall’invasore e oppressore tedesco, in alleanza dunque con i cosiddetti liberatori angloamericani.

"Partire dai dati reali della situazione" nel senso suggerito dagli attuali esponenti del sinistrismo piccolo-borghese, avrebbe implicato (come di fatto ha implicato per un gran numero di opposizioni del re, dai trotzkisti a gran parte degli anarchici) il far propria la rivendicazione nazionalista, entrare così a pieno titolo nel movimento resistenziale, con buona pace di ogni rivendicazione di classe e con l’auto-confinamento alla impossibilità di agire quando il CLN si fece governo e continuò a bastonare la classe operaia, chiamandola ai sacrifici per la ricostruzione capitalista.

Dove erano finite le finte opposizioni al PCI, quando il governo col PCI scatenava la polizia contro i disoccupati e mentre i nazionalisti tutti (dai popolari al PCI) chiedevano lacrime e sangue per i padroni nostrani?

Spariti: sul terreno del nazionalismo, l’unico adottato dalle opposizioni, c’erano forze ben più potenti e capaci.

Gli internazionalisti rimasero allora l’unica opposizione di classe esistente e poterono così salvare - quantomeno - il patrimonio teorico e politico del movimento internazionalista in Italia.

Venendo alla Serbia, o al Kosovo, il processo si ripete, seppure in luoghi e situazione diverse.

Appoggiare oggi l’esistente e a questo adeguarsi, nel senso dell’appiattimento, significa portare acqua al mulino dei nazionalisti forti (l’UCK in Kosovo e Milosevic o Seselj, in Serbia), contribuire a legare il proletariato al carro della conservazione capitalista e ad affossare ogni possibilità di ripresa di classe, che semmai dovesse avvenire avverrà fuori e contro la coalizione della borghesia e degli utili idioti della piccola borghesia radicale.

Quel che è peggio, il cosiddetto realismo, la gran smania di schierarsi scegliendo fra i fronti realmente oggi contrapposti, porta con sé inevitabilmente lo schierarsi sui fronti della guerra in preparazione, perché è fuori di ogni dubbio che, al di là di altre grandi idee riferentisi a presunti grandi principi etico-politici, ogni guerra mobilita i popoli sul terreno nazionalista.

Ma la borghesia troverà sempre gli utili idioti che aiuteranno a chiamare la classe operaia alle armi per la sua guerra, imbellettando gli appelli con elucubrazioni ipocrite sul comunismo futuro.

Se sigle e organizzazioni conquistano qui una certa visibilità, là sarebbero del tutto coperte, sul terreno da loro scelto, o portate al proletariato come esempio di lealtà nazionalista, e così soggette al ricatto politico e fisico dei nazionalisti forti. La lotta di classe? Domani vedremo, intanto...

Le vie della reazione, più di quelle del Signore, sono infinite.

Le vie (difficili) della rivoluzione

Non si può essere qua internazionalisti e là nazionalisti; non si può essere qui contro l’intervento Nato e là a favore dell’aggredito regime serbo (o Iracheno, o ....). L’indicazione rivoluzionaria e internazionalista, del disfattismo rivoluzionario, della lotta contro la propria borghesia e contro la borghesia mondiale, valeva ovunque nel 1917 e a maggior ragione vale oggi, nella fase della internazionalizzazione vera del capitale, della riaggregazione dei fronti imperialisti per vaste aree geo-economiche, delle competizioni internazionali sul petrolio e sulla rendita.

Il proletariato serbo - poniamo - è schierato oggi sul terreno del nazionalismo? È compito dell’avanguardia comunista richiamarlo fuori da quel terreno, sul suo terreno autonomo di classe, lottando a fondo sul piano teorico, politico e organizzativo contro il nazionalismo stesso. Non è concepibile, se non nella elucubrazioni intellettualistiche più ardite nei cieli della fantasia, lottare contro il nazionalismo ponendosi sul suo terreno: si vince solo a condizione di essere più nazionalisti... dei nazionalisti, più realisti del re.

Fuori e contro ogni nazionalismo dunque.

Non avremo successo immediato contro il regime e contro la guerra imperialista? Certo, non ci siamo mai illusi né ci illudiamo. Ma impianteremo una presenza classista e rivoluzionaria che continuerà a lavorare in quel senso, per costruire quella forza politica, radicata nella classe, che contribuisca a creare gli svolti positivi e in quegli svolti possa dirigere il proletariato all’assalto. In assenza di ciò, non solo il presente sarà nazionalista, ma anche il futuro del proletariato, con il rinvio ai tempi del mai di ogni prospettiva di emancipazione.

Non si può predicare qui l’unità del proletariato serbo e kosovaro e là schierarsi con i rispettivi regimi capitalistico-borghesi. (A meno che si voglia negare la natura capitalistico borghese di quei regimi, nel qual caso si precipita nel più vieto arcaismo stalinista, e amen.) Né si può predicare quell’unità anticapitalista qui e là invece chiamare gli operai serbi a difendere le velleità auto-deterministiche della stracciona e malavitosa borghesia kosovara. Chi stabilisce che il popolo kosovaro, proletariato compreso, è per l’indipendenza o la riunione con l’Albania? Una bella votazione referendaria? Con quella logica, andiamo tutti a casa, perché qui con le votazioni il proletariato contribuisce a mandare al governo i D’Alema o i Berlusconi.

Noi marxisti e internazionalisti non diamo gran peso a ciò che il proletariato è forzato oggi a votare, vittima com’è della ideologia borghese. Il nostro compito è batterci contro la presa dell’ideologia borghese sul proletariato per preparare le condizioni politiche della svolta rivoluzionaria. Qui come negli Usa, o in America Latina o in Serbia o in Iraq.

Sappiamo che la svolta rivoluzionaria non avviene solo perché noi la vogliamo, ma per lo sviluppo di dinamiche oggettive che stanno fuori di noi; ma sappiamo che se la svolta arriva e la direzione rivoluzionaria è assente o non sufficiente nella classe la sconfitta è certa e si torna indietro. E sappiamo che questa direzione deve essere internazionale e centralizzata, per essere efficace nella battaglia contro l’imperialismo, quello vero.

Anche in Iraq, anche in Serbia e Kosovo, dunque, di fronte agli attacchi di un gruppo di banditi contro i banditi locali, ci battiamo contro ogni forma di alleanza o di tregua fra il proletariato e la borghesia, per impiantare e rafforzare il punto di riferimento di classe e rivoluzionario, per farne la sezione del partito internazionale.

Non mancheranno nell’immediato futuro situazioni analoghe e vedremo ancora la sinistra borghese e piccolo-borghese rincorrere i regimi meno peggio, quelli "antimperialisti" e chiamare il proletariato di qui a sorreggere quelli. Per finire con lo schierarsi sui fronti dello scontro vero, che si prepara attraverso queste prime tragiche manovre, fra le centrali dell’imperialismo.

Per quanto ci riguarda continueremo sulla linea internazionalista, ben sapendo quel che ci aspetta. Non sarà facile e sempre... permesso, chiamare gli operai alla difesa dei loro interessi autonomi di classe di fronte a un regime borghese in guerra. D’altra parte anche nelle metropoli dell’imperialismo, democratiche e liberali, lo stato di guerra dichiarato non consente altre voci che quelle nazionaliste, più o meno differentemente modulate, indipendentemente che sia il nazionalismo piccino di un paese o quello della futuribile Europa Unita.

D’altra parte stanno venendo parecchi nodi storici, teorici e politici al pettine del movimento operaio. E sparute avanguardie, ancora, ma stavolta a scala internazionale si apprestano a scioglierli, per ridar corsa in avanti al proletariato rivoluzionario.

Viceversa molte organizzazioni pretese rivoluzionarie, vengono allo scoperto per quello che sono: organizzazioni radicali borghesi, pronte, come è loro proprio, a schierarsi col nostro nemico di classe. Oppure sette salmodianti, ma incapaci di usare il metodo e gli strumenti del marxismo, destinate a essere spazzate via dal vento della storia che va facendosi turbinoso.

Mauro Stefanini

(1) Cedi Edward H. Carr, Il socialismo in un solo paese - II La politica estera 1924-26, Einaudi, pagg. 604-608.

(2) Ibidem pagg 608-613.

(3) Thesis et additions sur les questions nationale et coloniale, These 5. Da _Quatre premiers congres mondiaux de l'Internationale Communiste (1919-23), Biblioteque communiste-Librairie du Travail, 1934, ristampato in fac simile da Le Breche-Selio 1984.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.