Il controllo del petrolio nell’epoca del dominio della finanza

Il prezzo del petrolio nel corso del 1998 è diminuito del 29,7 per cento rispetto al 1997 facendo registrare il ribasso più consistente dal 1986 a oggi (-51,1%) e il quinto dal 1921, ma nonostante ciò, secondo gli analisti economici il mercato è tuttora afflitto da un eccesso di offerta quantificata in circa 1,5 milioni di barili/giorno.

Forti di questi dati, i sostenitori della tesi secondo cui l’attacco Nato contro la Serbia aveva ragioni di esclusivo ordine umanitario, hanno avuto buon gioco contro coloro che invece sostenevano che a muovere aerei e cannoniere in modo così massiccio era ancora una volta il portafogli e in particolar modo quei progetti elaborati sia dal Fmi che dalla Cee e dalla Russia, per la costruzione di alcuni oleodotti che avrebbero consentito il trasporto del petrolio del Caucaso e del Mar Caspio direttamente fino ai porti del Mar del Nord e Nel Mare Adriatico saltando a piè pari il Golfo Persico. Che, insomma, questa era l’ennesima guerra dell’Occidente per avere petrolio a basso costo o, secondo alcuni, addirittura a costo zero. Certo, si fa una gran fatica a immaginare che la banda di briganti che governa il mondo e ha fatto dell’attacco sistematico alle condizioni di vita dei più deboli e dei più poveri il proprio credo e della guerra lo strumento più efficace per la conservazione del proprio domino di classe, possa essere mossa a compassione per le sorti di chicchessia; eppure è vero che una guerra non si scatena per ottenere un vantaggio che è possibile conseguire con altri mezzi sicuramente meno costosi e pericolosi e forse anche con maggiore efficacia visto che, almeno nel breve periodo, essa determina l’effetto contrario. Basta sfogliare un manuale di economia per apprendere che il prezzo di una qualunque merce oscilla in ragione direttamente proporzionale alla domanda e inversamente proporzionale all’offerta per cui non è certo bombardando, per esempio, i pozzi iracheni di petrolio (che fra l’altro avendo come quello saudita un più basso costo di estrazione può essere venduto a prezzi estremamente bassi) che si favorisce la tendenza al ribasso del suo prezzo. E poi, per esempio, come non rilevare la contraddizione di una Gran Bretagna produttrice ed esportatrice di petrolio sempre in prima fila in tutte quelle guerre che invece in teoria mirano a favorirne la stabilizzazione al ribasso del prezzo?

Con tutta evidenza, così formulata, la tesi secondo cui al centro di questa ennesima guerra vi sia l’interesse dell’Occidente per un prezzo del petrolio estremamente basso è quantomeno incongruente con i dati e la struttura dell’attuale mercato petrolifero.

Purtroppo anche in ambienti che si richiamano alla sinistra comunista internazionalista, c’è stato chi, probabilmente proprio a causa di contraddizioni così palesi, anziché affilare l’arma della critica dell’economia politica del nostro tempo, non ritenendo comunque seria e credibile la tesi della guerra umanitaria, ha avanzato l’ipotesi che a spingere la superpotenza statunitense a una guerra di basso profilo economico vi fossero, almeno in questa circostanza, ragioni esclusivamente politiche e di prestigio: la volontà cioè di dimostrare al mondo intero che non può muoversi foglia senza che la Casa Bianca lo voglia e anche chi vi ha visto solo un atto di prepotenza e quindi ha ritenuto coerente schierarsi al fianco degli aggrediti e contro gli aggressori.

In verità, se l’attacco della Nato alla Serbia sembra sfuggire alla regola che la storia ha fin qui drammaticamente confermato non è certo perché il capitalismo si è d’improvviso trasformato nel buon Samaritano della parabola evangelica ma perché la lettura del dato economico che viene correntemente fatta è quasi sempre vincolata a vecchi schemi che ignorano le grandi modificazioni che, sotto la spinta della crisi dell’attuale ciclo di accumulazione capitalistica, si sono prodotte negli ultimi trenta anni nelle forme del dominio imperialistico. Si guarda così al petrolio e a tutte le più importanti materie prime negli stessi termini con cui si guardava ad essi all’inizio del secolo. Se le cose stessero veramente in questi termini, se cioè nulla fosse cambiato rispetto ad allora e anche solo rispetto a trenta anni fa, tutte le guerre che oggi dilaniano il mondo intero sarebbero davvero inspiegabili se non ricorrendo a categorie che appartengono al mondo della pura metafisica come appunto quella umanitaria e non alle contraddizioni del sistema economico capitalistico così come storicamente è andato sviluppandosi. Dalle guerre che hanno trasformato l’Africa in un vulcano che erutta in permanenza pus e violenza quasi fosse una piaga infetta della terra o, a scelta, un mattatoio a ciclo continuo; a quelle che devastano l’estremo oriente, gli stati dell’ex Unione Sovietica, l’America Latina e ora anche l’Europa nessuna potrebbe trovare spiegazione nell’ambito della critica marxista dell’economia politica. Se, infatti, l’obbiettivo fosse limitato al basso prezzo delle materie prime, la pace dovrebbe regnare incontrastata visto che esso è già da tempo stato raggiunto. Oltre al petrolio, che ha fatto registrare un calo del 30 per cento circa,

in media le altre _commodities _hanno subito una riduzione di prezzo significativa e pari a circa il 10% nel 1998 rispetto al 1997; Il prezzo del rame, ad esempio, nel giugno del 1998 è risultato inferiore del 27% a quello rilevato un anno prima, a fronte di una riduzione del 10% dei prezzi dell’alluminio e dell’oro il cui prezzo nel corso dell’anno ha subito oscillazioni intorno ad un valore medio di 300$ l’oncia. Le regioni maggiormente colpite dalla riduzione del prezzo delle _commodities _sono il Medio Oriente e l’Africa. (1)

La ragione di più

È almeno dalla seconda metà degli anni settanta che il controllo delle materie prime, e quello del petrolio in modo particolare, non ha più come obbiettivo l’esclusiva stabilizzazione del loro prezzo verso il basso e il rifornimento senza intralci delle grandi metropoli imperialistiche. Già lo choc petrolifero dei primi anni Settanta, benché nominalmente guidato dall’Opec, cioè dai maggiori paesi produttori di petrolio, fu il prodotto di interessi ben più complessi di quello della semplice costituzione di una cartello finalizzato all’innalzamento del prezzo mediante la predeterminazione delle quantità da estrarre, assegnando a ciascun produttore una quota calcolata in rapporto direttamente proporzionale alla sua potenzialità produttiva.

Si vide subito, infatti, che l’alto prezzo non soddisfaceva soltanto le esigenze dei paesi produttori, ma favoriva anche fra i paesi importatori quelli che, disponendo di una maggiore forza finanziaria, riuscivano ad attrarre verso di sé il surplus di capitali che i paesi importatori versavano a quelli produttori offrendo tassi di interesse più elevati. Senza contare che essendo differente fra i paesi produttori il grado di dipendenza dalla importazione del petrolio, le conseguenze della improvvisa maggiorazione del prezzo sulla struttura dei costi dei maggiori paesi industrializzati variavano a loro volta di modo che paesi come gli Stati Uniti, pur subendo anche essi le conseguenze del rincaro, essendo autosufficienti o quasi, recuperavano competitività rispetto a quelli che non lo erano.

È proprio in quegli anni che i meccanismi del dominio imperialistico, così efficacemente descritti da Lenin, subirono un ulteriore affinamento, un salto di qualità che avrebbe condotto all’attuale raffinatissimo sistema in cui l’appropriazione parassitaria di plusvalore mediante la produzione di capitale fittizio ha assunto dimensioni impensate prima e il cui riscontro più immediato è dato dall’incredibile dilatazione della sfera finanziaria e della sua completa mondializzazione.

Nel n. 14 della V serie di Prometeo, abbiamo già avuto modo di descrivere il funzionamento dei sistemi di appropriazione parassitaria mediante la produzione di capitale fittizio e le ragioni che condussero all’abbandono del regime di finanza controllata e del sistema monetario internazionale imposto con gli accordi di Bretton Woods del 1944. In questa sede ci limtiamo a sottolineare il fatto che l’abbandono di questo sistema ha prodotto un regime di finanza deregolamentata e un sistema di pagamenti internazionali incentrato sulla liberalizzazione della produzione di moneta di credito e su un sistema di cambi flessibili.

La liberalizzazione della produzione della moneta di credito e la deregolamentazione dei mercati finanziari su scala mondiale hanno di fatto messo nelle mani delle aree economiche e finanziarie più forti, e in primo luogo di quella statunitense, un grimaldello con cui è possibile aprire anche la più inaccessibile cassaforte senza neppure sfiorarla con un dito. Con tale sistema chi emette una moneta accettata come mezzo di pagamento internazionale, avendo la produzione di carta moneta ben poche limitazioni e soprattutto non essendoci l’obbligo a costituire riserve auree in ragione direttamente proporzionale alla quantità di moneta emessa, viene a godere di una serie di straordinari vantaggi di cui i più evidenti sono:

  1. la possibilità di pagare le proprie importazioni con della semplice carta;
  2. di poter contare, per la determinazione della massa monetaria circolante, oltre che sulla leva dei tassi di interesse anche sulle variazioni dei tassi di cambio che si determinano sul mercato valutario indipendentemente dal reale andamento della propria bilancia commerciale.

Entro certi limiti, grazie a ciò, la determinazione della dimensione della massa monetaria può andare in controtendenza rispetto ai livelli dei tassi di interesse e di cambio con grandi conseguenze sui processi di gestione della massa monetaria e di appropriazione della rendita finanziaria.

In questo meccanismo l’interesse per il controllo del petrolio assume una valenza se non superiore almeno pari a quella che aveva il controllo della produzione dell’oro fino a quando i pagamenti e gli scambi internazionali erano basati sul sistema del Gold Standard. Così come un tempo l’oro interessava più per le conseguenze che le variazioni del suo prezzo potevano avere sulla massa monetaria, per il suo essere cioè l’unica vera moneta riconosciuta internazionalmente, oggi il petrolio interessa, oltre che come materia prima indispensabile in quasi tutti i processi industriali, per le conseguenze che le variazioni del suo prezzo hanno sulla determinazione dei tassi di cambio, della massa monetaria e dei tassi di interesse e in ultima istanza sul processo di ripartizione della rendita.

Solo per avere un’idea della dimensione degli interessi in palio basti ricordare che il semplice fatto che il dollaro è utilizzato come mezzo di pagamento internazionale ed è la più importante valuta di riserva su scala mondiale, procura agli Usa una rendita finanziaria che già qualche anno fa alcuni analisti calcolavano pari a più di 500 miliardi di dollari all’anno e che abbiamo ragione di supporre che sia ulteriormente cresciuta negli ultimi anni visto che il deficit della bilancia commerciale statunitense ha superato i duecento miliardi di dollari. D’altra parte acquistare merci pagandole con dollari con la certezza che una buona parte di essi non farà mai più ritorno in patria per essere scambiata con merci qui prodotte è un sistema di pagamento talmente allettante che è quasi impossibile resistergli. E ciò è nulla rispetto ai vantaggi che derivano a una valuta accettata come mezzo di pagamento internazionale dal fatto che la dimensione della massa circolante può essere determinata anche in controtendenza rispetto all’andamento dei tassi di interesse e di cambio.

L’apparente paradosso del dollaro

Secondo la teoria economica borghese tradizionale, in regime di libera concorrenza, poiché si suppone che una valuta estera è richiesta in misura maggiore o minore a seconda delle quantità di merci che si vogliono acquistare nel paese che la emette, le oscillazioni del suo valore saranno direttamente proporzionali alla crescita delle esportazioni e inversamente proporzionali a quella delle importazioni. La valuta di un paese che importa più di quanto esporta dovrebbe, dunque, tendere a deprezzarsi e viceversa quella di un paese che esporta più di quanto importa. Secondo la teoria, dunque, il dollaro dovrebbe tendere a deprezzarsi, ma in realtà le sue quotazioni continuano a crescere rispetto a quasi tutte le più importanti valute in circolazione ivi compreso il neonato euro che rappresenta la più grande area economica del mondo. Per l’economia borghese ciò costituirebbe un paradosso inesplicabile, o una deviazione della pratica dalla teoria di breve periodo e perciò di scarso significato critico; ma in realtà le cose non stanno così. Lo schema, come si può constatare, ignora completamente i movimenti valutari di natura esclusivamente finanziaria determinati dai differenziali dei tassi di interesse fra le diverse aree e quelli determinati dalla domanda di valuta da utilizzare come mezzo di pagamento internazionale e ciò non certo per una cattiva formulazione della teoria, ma perché essa è stata formulata quando si riteneva che anche questi movimenti fossero strettamente connessi agli andamenti della cosiddetta economia reale per cui a nessuno era consentito lo spaccio legale di moneta falsa. Il paradosso del dollaro dimostra quindi che non è più così e che in quest’ultimo quarto di secolo sono intervenuti mutamenti radicali e affinamenti nelle forme dell’appropriazione parassitaria del plusvalore estorto su scala mondiale.

È evidente infatti che è solo supponendo una domanda di dollari non direttamente collegata all’import/export statunitense e/o di origine esclusivamente finanziaria che è possibile una tendenza alla crescita della loro quotazione anche in presenza di un così massiccio deficit della bilancia commerciale. Ed è falsa anche la tesi, corrente in questi giorni, che vorrebbe una tale discrepanza essere solo apparente in quanto le elevate quotazioni del dollaro rifletterebbero la più elevata produttività della economia statunitense rispetto a tutte le altre e a quella europea in particolare. Nell’ultimo quarto di secolo, il raffronto fra il Pnl per ore lavorate degli Stati Uniti con quello de gli altri paesi del G7 evidenzia, invece, un costante recupero di produttività di questi ultimi tanto che,

se nel 1973 la produttività oraria delle altre nazioni del G7 era circa due terzi di quella americana, nel 1995 Francia e Germania avevano già raggiunto e superato seppure di poco i livelli americani. (2)

In realtà, il dollaro vale di più di quanto dovrebbe se la determinazione del suo valore dipendesse esclusivamente da fattori esclusivamente economici perché svolge un ruolo molto più complesso del ruolo di pura moneta di scambio e il petrolio è il fulcro su cui poggia il potere che da questa complessità gli deriva.

Massa monetaria e ciclo economico

In generale, le banche centrali per controllare la massa monetaria in funzione anticiclica in ultima istanza dispongono di un unico strumento: il tasso di sconto.

Se l’economia ristagna il tasso di sconto viene ridotto; il sistema, costando meno il denaro, tende ad assorbirne di più, la massa monetaria tende ad accrescersi e con essa anche la domanda aggregata; viceversa quando l’economia è - come dicono gli economisti borghesi surriscaldata e l’inflazione tende a crescere. Ovviamente, ogni variazione del tasso di sconto determina la modifica di tutti i parametri macroeconomici e spesso anche di quelli non desiderati. Se, per esempio, si alza il tasso di sconto, data l’attuale struttura del mercato finanziario internazionale, è molto probabile che ciò si traduca in un incremento dell’afflusso di capitali dall’estero e in un rialzo del tasso di cambio. Per alcuni settori dell’economia ciò è sicuramente un vantaggio, ma non lo è per chi ha contratto debiti verso l’estero, per gli esportatori che vedrebbero le loro merci perdere competitività ecc. Altresì e specularmente nel caso opposto. Se invece si potesse, per esempio, anziché incrementare solo il tasso di sconto far crescere e/o solo o in parte il tasso di cambio, gli effetti indesiderati sarebbero molto più contenuti e scaricati non solo sull’economia nazionale, ma anche su tutte le altre economie che con essa entrano in relazione. E ciò vale, non solo per l’esempio fatto, ma in tutti i casi in cui è necessario correggere un qualunque parametro macroeconomico. Ovviamente la casistica è talmente ampia che è praticamente impossibile descriverla tutta; qui ci interessa rilevare che tutte le variazioni dei parametri macroeconomici così ottenute si risolvono in definitiva in un trasferimento di valore, anzi di plusvalore, dalle economie che non possono operare sulla leva del cambio senza correzioni corrispondenti del tasso di sconto a quelle che invece dispongono di questo vantaggio. In un mercato come l’attuale in cui il capitale finanziario è libero di spostarsi da un capo all’altro del mondo ogni giorno e in qualsiasi ora si comprende facilmente che questo vantaggio è equivalente, sul piano militare, al possesso o meno della bomba atomica. Come per la bomba atomica l’uso illimitato è vivamente sconsigliato perché non c’è garanzia che un eccesso di radiazioni non colpisca anche chi la lancia, così l’uso della leva del cambio come strumento di appropriazione parassitaria non può essere spinto oltre certi limiti perché il collasso del più debole porterebbe danno anche a chi lo provoca; ma il vantaggio resta enorme e comunque tale da determinare la gerarchia del potere mondiale.

Dollari e petrolio

Abbiamo detto poc’anzi che il petrolio svolge oggi un ruolo simile a quello dell’oro quando vigeva il sistema del Gold Standard, in realtà esso ha caratteristiche che l’oro non ha mai avuto. L’oro veniva apprezzato per la sua inalterabilità nel corso del tempo, per la sua malleabilità che ne faceva un ottimo metallo da conio e per la sua scarsità che lo rendeva prezioso; ma di esso a non poterne fare a meno, in ultima istanza, erano solo le banche centrali tenute ad accumularlo nei propri forzieri. Anche le variazioni del suo prezzo si riflettevano sul valore delle monete, ma anche se alcuni economisti di scuola monetarista attribuiscono proprio al trasferimento automatico del sue variazioni di valore a quello delle moneta la grande depressione degli anni Trenta, in realtà l’impatto di queste variazioni non aveva alcuna conseguenza sulla struttura dei costi di produzione e poteva essere agevolmente ammortizzato; e comunque esse si trasmettevano su una frazione limitata della massa monetaria mondiale cosicché la speculazione su queste variazioni di valore è stata sempre di poca importanza. A differenza dell’oro, il petrolio è invece una materia prima veramente universale. Dall’Alaska alla Patagonia, da Capo Nord all’estremo sud dell’Africa non c’è essere umano che in misura più o meno grande non se ne serva. Ogni variazione del suo prezzo va ad incidere immediatamente sulla struttura dei costi produttivi sia dei paesi più industrializzati che dei più poveri, sia sulle produzioni su vasta scala che su quelle artigianali, sia su quelle agricole che su quelle industriali; per non parlare poi del settore dei servizi che se ne serve come fonte energetica praticamente insostituibile dati i rapporti di produzione attualmente vigenti. Ogni variazione del suo prezzo ha riflessi dunque su tutta l’economia del pianeta e modifica il valore dell’intera massa monetaria mondiale considerata nel suo complesso e all’interno di essa i rapporti di cambio di ogni valuta rispetto a tutte le altre in relazione inversamente proporzionale alla forza di ogni valuta dato che le più deboli hanno minori possibilità di assorbire il rincaro con ulteriori incrementi di produttività degli apparti produttivi di riferimento. Ma il petrolio si compra e si vende in dollari ed è quindi il dollaro la valuta più sensibile alle variazioni del suo prezzo. Se il dollaro avesse sul mercato valutario internazionale un peso equivalente alle altre valute, in linea teorica e in alcune particolari fasi del ciclo economico il fatto di essere il più diffuso mezzo di pagamento internazionale potrebbe costituire un forte svantaggio poiché il prezzo del petrolio, determinando con il suo variare, variazioni automatiche del suo valore, come accadeva con il Gold Standard, potrebbe sottrarre alla Banca centrale statunitense gran parte della sua capacità di manovra della massa monetaria in funzione anticiclica. Poiché a ogni aumento del prezzo del petrolio corrisponde una maggiore domanda di dollari ecco che salirebbe il prezzo del petrolio e salirebbe il valore del dollaro e viceversa e semmai proprio quando invece l’economia statunitense avrebbe bisogno di movimenti inversi. In definitiva, il privilegio di cui gode il dollaro per essere il più diffuso mezzo di pagamento internazionale sarebbe del tutto teorico se a questo ruolo non corrispondesse la capacità di controllare da parte degli Stati Uniti il processo di formazione del prezzo del petrolio.

Controllando il prezzo del petrolio gli Stati Uniti possono dunque modificare entro certi limiti i rapporti di cambio del dollaro con tutte le altre valute limitando l’intervento sui tassi d’interesse e in qualche modo anche indipendentemente dallo stato della loro economia reale e con ciò trasferire sull’intera economia mondiale i costi degli aggiustamenti macroeconomici.

Il controllo del prezzo del petrolio ha assunto dunque un’importanza enorme perché potendo influenzare il processo di formazione del prezzo si possono influenzare i parametri di tutta l’economia mondiale e orientarli a proprio favore cosa estremamente importante in un’epoca in cui il capitale finanziario è libero di muoversi giorno e notte ininterrottamente per tutti i giorni dell’anno da una parte all’altra del globo. È nel dominio della finanza la chiave della lotta per il controllo del mercato del petroli.

Inflazione negli Usa e crescita del prezzo del petrolio

Lo scorso aprile negli Stati Uniti, inattesa ma non imprevista, ha fatto di nuovo capolino l’inflazione facendo registrare un incremento mensile dello 0,7 per cento. Ma oltre all’inflazione già da tempo i maggiori indicatori economici segnalano che l’economia Usa sta marciando in una direzione pericolosissima visto che un eventuale consistente rallentamento dell’economia statunitense andrebbe a collocarsi in un trend economico internazionale che è già orientato verso la stagnazione. Benché molti analisti prevedano per il 1999 un quadro economico in via di stabilizzazione, dalla rivista economia Surplus apprendiamo che:

Le proiezioni più autorevoli per quanto riguarda la crescita economica del mondo nel 1999 concordano intorno ad un tasso di crescita assai basso, intorno al 1,25%... Occorre ritornare almeno al 1982 per trovare tassi di crescita così depressi...

La previsione si basa dando però per scontata una certa ripresa dell’area asiatica e...

sull’assunzione che non si verifichino altre crisi e che l’Occidente accetti il peso sui propri conti con l’estero di questa ripresa asiatica. (3)

Visto il contesto generale c’è addirittura chi paventa il rischio di una depressione come quella degli anni trenta. Probabilmente la prospettiva di una catastrofe di queste dimensioni è esagerata, ma il timore non è del tutto infondato. Da almeno due anni, sulla borsa di Wall Street si sono riversati enormi quantità di capitali in fuga dalle aree coinvolte nella crisi finanziaria dello scorso anno. Ciò ha consolidato la tendenza al rialzo del listino che durava già da anni attraendo capitali anche dall’Europa e ha dato luogo alla più gigantesca bolla speculativa dell’era della finanza globalizzata. Questo poderoso afflusso di capitali, fra l’altro, ha consentito al dollaro di mantenere quotazioni elevate anche in presenza di una riduzione generalizzata dei prezzi di tutte le materie prime e del petrolio causato sia dalla riduzione della domanda conseguente alla crisi asiatica, sia dall’eccesso di offerta determinato dalla necessità di alcuni paesi produttori, fra i quali la Russia, di aumentare le proprie entrate per far fronte ai costi del servizio sul debito estero.

Dollaro alle stelle ed elevati guadagni di borsa hanno favorito una forte crescita della domanda interna statunitense e quel boom di consumi che ha fatto gridare al miracolo su cui in questi ultimi tempi tanti economisti e opinionisti si sono esercitati per giungere alla conclusione che solo imitando il modello americano si sarebbero potuti risolvere i problemi dell’economia europea. È stato tanto poderoso il movimento che è sembrato davvero che bastasse stampare dollari perché si moltiplicasse la ricchezza disponibile facendo dimenticare che anche nel migliore dei mondi possibile, c’è un limite a tutto.

Per sostenere questo meccanismo infernale e per fronteggiare la crisi finanziaria che ha investito in successione prima l’Asia, poi la Russia e infine il Brasile e tutta l’America Latina, prima la Banca centrale giapponese e poi la Fed hanno pompato moneta a tutta birra. Solo negli Usa, dall’aprile del 1997 al gennaio del 1999, la creazione di moneta è cresciuta di oltre mille miliardi di dollari (4) senza che vi fosse una corrispondente crescita né dell’economia statunitense, né di quella giapponese, né di quella mondiale. Che ciò dovesse generare inflazione era pressoché inevitabile. Solo l’ipocrisia, la disonestà intellettuale e la miopia dell’economista borghese abituato, a guardare all’inflazione solo come al prodotto della crescita dei salari, potevano escluderlo; ma in realtà non c’è solo l’inflazione da "costo del lavoro"; come sottolinea il managing director di Moody’s ma esiste anche:

un’inflazione da valori eccessivi degli asset. Questi possono essere le case, ma anche le azioni. E qui mi pare che siamo arrivati , anche se sono tre anni che diciamo che Wall Street è sovraquotata. (5)

Un’inflazione da eccessivo rialzo speculativo è una brutta bestia che se abbandonata a se stessa può davvero travolgere l’intera economia mondiale, a cominciare proprio da quella statunitense che ne è il motore principale. Ma come controllarla e contenerla prima che esploda? È chiaro che per togliere ossigeno alla speculazione finanziaria di cui quella borsistica è solo la punta dell’iceberg, bisogna riassorbire la massa monetaria prodotta in eccesso che alimenta la crescita incontrollata della domanda interna statunitense come dimostra il fatto che essa cresce a un tasso del 3% più di quello della produttività nonostante che i salari reali continuino a scendere e quelli nominali siano sostanzialmente fermi da tempo immemorabile (ad aprile la paga oraria ha fatto registrare un aumento di soli tre centesimi). Per farlo bisognerebbe alzare il tasso di sconto di almeno due o tre punti che sembrano pochi, ma in realtà sono tantissimi soprattutto in considerazione del fatto che su scala mondiale i tassi di interesse reali continuano a rimanere mediamente più elevati della crescita media del Prodotto lordo mondiale e negli Stati Uniti superano già, seppure di poco, quelli europei. Un rialzo di tre punti anziché favorire il riassorbimento soffice della liquidità in eccesso potrebbe dar vita a una spirale in cui al crollo di Wall Street potrebbe seguire quello della domanda interna e a questo un’ulteriore crisi delle ex Tigri e dell’intera area asiatica che proprio sulla crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti hanno puntato per risollevarsi dalla spaventosa crisi finanziaria che li ha travolti lo scorso anno. Uno scenario da far tremare i polsi anche al navigato Greenspan che infatti da oltre un anno e finché è rimasto in carica non ha fatto altro che lanciare avvertimenti sulla necessità di porre un freno alla crescita di Wall Street nel timore che si potessero ripetere gli infausti eventi del 1929. Uno scenario che probabilmente sarebbe già stato realtà se gli Usa non avessero disposto del controllo totale del mercato del petrolio e del processo di formazione del suo prezzo e quindi anche di gran parte dei flussi finanziari mondiali.

Dallo scorso gennaio, fra un bombardamento e l’altro sull’Iraq e le minacce dell’Arabia Saudita (fedele alleato degli Stati uniti) agli altri paesi produttori di immettere sul mercato grossi quantitativi di petrolio a cinque dollari il barile affinché riducessero la loro produzione, il prezzo del petrolio è ripreso a salire facendo registrare fino a prima dello scoppio della guerra contro la Serbia una crescita piuttosto modesta; ma tale da assicurare, insieme a leggeri ritocchi del tasso di sconto, quotazioni del dollaro sufficientemente alte da impedire l’avvitamento della domanda interna e l’esplosione dell’inflazione che infatti fino ad aprile ha fatto registrare un incremento medio mensile pari allo 0,1% corrispondente a un incremento annuo del 2,3 per cento. In pratica facendo lievitare il tasso di cambio, ricorrendo solo in parte al rialzo del tasso di sconto, la Federal Reserve ha fin qui scaricato su chi ha pagato di più il petrolio parte dell’inflazione americana. Contrariamente alle apparenze, dunque, gli Usa da un rialzo del prezzo del petrolio hanno tutto da guadagnare almeno fino a quando si porrà loro il problema di riassorbire senza infliggere forti scossoni a Wall Street e senza ricorrere a politiche monetarie molto restrittive, l’eccesso di liquidità che hanno dovuto immettere sul mercato per fronteggiare le conseguenze delle crisi finanziaria internazionale dello scorso anno. Basti pensare che Il Fondo Monetario Internazionale ha dovuto prestare solo al Brasile più di sessanta miliardi di dollari per evitare che il venir meno alle sue esposizioni debitorie verso banche e Istituzioni finanziarie estere, soprattutto statunitensi, desse il via a una pericolosissima serie di fallimenti a catena. Ma il dato fatto registrare dall’inflazione nel mese di aprile, che se confermato su base annua la porterebbe a oltre il quattro per cento contro l’1,6% del 1998, sembra testimoniare che occorre qualcosa di più e di più incisivo ed è quindi facilmente prevedibile che il prezzo del petrolio assumerà nei prossimi scenari economici una valenza ancora maggiore di quella pur già importantissima di oggi.

Per chi controlla una valuta, che è anche il più diffuso mezzo di pagamento internazionale, le opzioni che offre il controllo di una materia prima strategica come il petrolio non si esauriscono quindi solo nella possibilità di disporne con certezza e a basso prezzo, ma di disporne per poter favorire di volta in volta la formazione di quel prezzo che in relazione al trend economico mondiale e nazionale, consenta la massimizzazione della rendita finanziaria.

Subito dopo il primo choc petrolifero, per esempio, quando per attrarre la valanga di petrodollari confluiti nelle casse dei paesi Opec da destinare al finanziamento del debito pubblico statunitense, la Fed portò i tassi di interesse alle stelle (il dollaro raggiunse all’epoca quotazioni contro la lira anche superiori alle 2000 lire), la politica petrolifera statunitense puntò al ribasso graduale del prezzo del petrolio sia non opponendo ostacoli di sorta alla ricerca di nuovi giacimenti sia come logica conseguenza dello stesso improvviso rialzo dei tassi che costrinse i paesi produttori che si erano in precedenza indebitati in dollari ad aumentare la produzione per poter far fronte al crescente costo di servizio del debito estero. E fu proprio da questo mutamento della strategia della politica petrolifera statunitense che ricevette un forte impulso quella ristrutturazione che ha letteralmente trasformato il mercato del petrolio omologandolo sempre più al mercato finanziario.

Le modificazioni del mercato del petrolio

Lo choc petrolifero dei primi anni Settanta, spinse i maggiori paesi industrializzati e le maggiori compagnie petrolifere a intensificare la ricerca di nuovi giacimenti e a migliorare i processi estrattivi di quelli che avevano un costo di estrazione molto elevato. La Gran Bretagna, in particolare, a partire dal 1973 accelerò l’esplorazione dei fondali del Mar del Nord tanto che già nel 1975 i primi pozzi entrarono in produzione e nel 1983, a programma completato, la produzione era pari a quella della Libia, Algeria e Nigeria messe assieme. A dare una mano in questo senso si aggiunse poi la crisi economica dell’ex Unione Sovietica che già nei primi anni Ottanta si vide costretta ad aumentare le esportazioni di oro e di petrolio per procurarsi la valuta estera necessaria a fronteggiare il crescente deficit della sua bilancia commerciale.

Alla fine di questo processo, all’incirca nel 1983, la produzione Opec si era ridotta al 40 per cento del totale. Le compagnie petrolifere, a loro volta, colpite dal calo dei prezzi, modificarono la loro strategia mettendo al centro dei loro interessi non più l’estrazione, ma la raffinazione e la distribuzione del prodotto. Dal 1983, con il passaggio alla contrattazione a termine, reso possibile dalla deregolamentazione e dalla crescente mondializzazione del mercato finanziario internazionale e dalla incapacità dei paesi Opec di imporre un regime di prezzi controllati, il mercato del petrolio è andato assomigliando sempre di più a un mercato borsistico in cui i profitti più consistenti non derivano tanto dalla effettiva compravendita dei titoli quanto dalla speculazione sulle oscillazioni dei loro prezzi. Sono stati anni in cui le grandi multinazionali del petrolio, dotate di enormi mezzi finanziari, hanno realizzato profitti da capogiro con incrementi annui superiori anche al 100%.

L’interesse delle grandi compagnie, saldato con le necessità della Federal Reserve e con la tendenza alla finanziarizzazione dell’economia determinata dalla crisi del saggio medio del profitto industriale manifestatasi con forza nei prima anni Settanta, hanno ingigantito ulteriormente gli interessi già grandissimi che ruotavano attorno al petrolio facendo del suo mercato il perno attorno a cui ruotano ormai tutti i più importanti parametri dell’economia moderna.

A questo punto il controllo puro e semplice di un campo petrolifero o anche della gran parte di essi ha perduto gran parte del suo interesse. Maggiore efficacia ha assunto invece il controllo delle vie che il petrolio è obbligato a seguire per giungere sul mercato.

Le vie del petrolio e la lotta per il loro controllo

Non deve stupire, dunque, che già Carter, nel 1980, considerasse strategica l’Area del Golfo Persico e minacciasse l’uso massiccio della forza contro chiunque avesse provato ad assumerne il controllo.

Da allora, tutte le guerre combattute per il petrolio, a cominciare da quella Iraq/Iran, quella contro l’Iraq e per finire a quella odierna dei Balcani, hanno avuto come posta in gioco proprio il controllo delle vie del petrolio e come attori sempre gli Stati Uniti interessati a che esse non deviassero di molto dall’area persica o che percorressero strade poste comunque sotto il controllo di un qualche loro fedele alleato e chi, di volta in volta, ha tentato di disegnare percorsi a queste alternativi è stato combattuto.

La guerra contro la Serbia ha avuto però una motivazione ancora più forte perché essa è scoppiata all’indomani di un evento che a sua volta potrebbe determinare un nuovo rivolgimento del mercato petrolifero. La nascita dell’Euro, infatti, non solo dà la spinta alla ricerca e alla costruzione di percorsi alternativi a quelli oggi controllati dagli Stati Uniti; ma anche alla possibilità che essi diano vita a nuovo mercato, un mercato in petroeuro che rimetterebbe in discussione tutti gli attuali equilibri imperialistici e l’intero sistema di alleanze su cui poggia oggi l’egemonia incontrastata, ma traballante, degli Stati Uniti.

Basta dare un occhiata alla cartina geografica e ai progetti elaborati da qualche anno a questa parte dagli Stati Uniti e dalla Cee per capire che si lotta, da una parte per la concentrazione delle rotte da assegnare al petrolio proveniente dall’area caucasica all’interno di un’area compresa fra la Turchia e l’Afghanistan con al centro il Golfo Persico escludendo il sistema degli oleodotti russi; dall’altra per la diversificazione di queste rotte mediante la costruzione di un sistema integrato di trasporti, il famoso piano Traceca (Transport Corridor Europe-Caucas-Asia) elaborato da Bruxelles sin dal 1993. Il progetto che prevede la costruzione di porti, ferrovie, strade e canali fluviali da integrare con un sistema di oleodotti e gasdotti nell’ambito di un unico network denominato Inogate è ben visto anche dalla Russia perché a differenza di quelli statunitense non la esclude.

Si tratta di uno scontro fortemente caratterizzato da profondi contrasti economici e finanziari mai nella storia del capitalismo moderno così vasti e generalizzati e dunque uno scontro tutto sullo terreno del conflitto interimperialistico e sulla pelle del proletariato internazionale che comunque vada a finire sarà chiamato con l’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro a pagare il peso crescente della rendita finanziaria e con la propria pelle le innumerevoli guerre che in nome di falsi nazionalismi o di falsi umanitarismi ancora si combatteranno.

Giorgio Paolucci

(1) I prezzi delle materie prime - Surplus n. 1 - 1999.

(2) La ormai raggiunta produttività Usa - Ibid.

(3) Oh ancor fragile mondo! - Ibid.

(4) Dato Fed - Tratto da Usa, i prezzi a rischio - E. Occorsi - La Repubblica, Affari e Finanza del 31 maggio 1999.

(5) Ibid.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.