L'America Latina dopo l'attacco al World Trade Center

L'America Latina s'inabissa nella peggior crisi della sua storia, ma non è stato il crollo del WTC che l'ha scatenata: questo l'ha solo evidenziata con il fragore di un milione di tonnellate di acciaio e cemento. L'esplosivo argomento terrorista ha sorpreso il mondo immerso nel torpore ubriaco di opulenza e l'ha richiamato alla coscienza del momento che sta vivendo. Come abbiamo scritto in altri articoli, l'andamento della borsa di Wall Street era perturbato già dal marzo 2000, registrando continue cadute. La svalorizzazione ascende ora a vari miliardi di dollari: solo nell'ultima settimana di settembre il Dow Jones è sceso del 14.6%, il Nasdaq del 16.05%, il che significa, per gli investitori, la perdita di 1.2 miliardi di dollari, la peggiore caduta degli ultimi anni. In ottobre, gli USA sono entrati nell'undicesimo mese di caduta della produzione industriale, registrando quello che il Financial Times ha chiamato "l'abbassamento più prolungato delle ultime due decadi". Nell'ultimo mese si sono persi 400 mila posti di lavoro, il PIL è calato dello 0.4% e il tasso di disoccupazione è arrivato al 5%., la più alta degli ultimi cinque anni. L'America Latina non sfugge a questa tendenza. I calcoli più ottimistici riguardo la produzione di ricchezza nella regione - provenienti dai centri di analisi economica - prevedono per l'America Latina un aumento, al massimo, dell'1%. Nella fase attuale, mentre le economie dei paesi centrali (USA, UE, Giappone) vanno verso la recessione, la catastrofica evoluzione economica dei paesi della periferia inasprisce e fomenta allo stesso tempo la debacle del centro.

Da tempo, la crisi dell'America Latina veniva sintomatizzandosi in una situazione di indebitamento dei paesi e di interi settori industriali attraverso l'interruzione dei pagamenti, perdite e citazioni da parte dei creditori. La sua causa profonda, tanto dell'economia nord americana che di quella dell'America centromeridionale - praticamente è impossibile considerale separatamente - risiede nella sovraccumulazione del capitale. In tutto il mondo i settori più colpiti sono proprio quelli che registrarono una crescita accelerata negli ultimi dieci anni e che, si presumeva, fossero destinati a servire da forza motrice di tutta l'accumulazione capitalistica. A ciò si unisce l'inasprimento dei disequilibri finanziari internazionali, dell'interruzione dei pagamenti tanto di importanti gruppi industriali e finanziari (1), quanto dei principali esponenti dei mercati emergenti latino-americani, così come delle svalutazioni monetarie. Inoltre, è stato sufficientemente provato che la situazione non obbedisce alla politica monetaria. L'Argentina, per es., che ha adottato il cambio fisso, registra una forte interruzione di pagamenti e ha un indice "rischio-paese" che il 2 novembre arrivava a 2.400 punti; il Brasile, con un cambio fluttuante, rasenta la stessa situazione, con un "rischio paese" di 1.177 punti. Il crollo di queste due economie trascinerebbe con sé i principali creditori e investitori: la Spagna, Hong Kong, il Giappone e la Francia.

Se il disastro finanziario, caratterizzato dal crollo delle borse mondiali, la caduta dell'investimento diretto e del credito legata al calo degli utili e alla cessazione dei pagamenti, sono solo la punta dell'iceberg, la base della crisi attuale è invece la grande capacità produttiva inutilizzata negli anni precedenti. In generale, la situazione corrente mostra che il collasso delle imprese si trasmette alle banche che effettuarono grandi prestiti per finanziare le loro acquisizioni. La soluzione a tutto questo non sta nelle politiche macroeconomiche del governo. Oggi la condizione di una ripresa capitalista risiede nella possibilità di eliminare le imprese in eccesso dal punto di vista del mercato. A sua volta, l'apparizione di nuovi focolai porta dentro di sé l'esacerbazione delle guerre commerciali e delle guerre per impadronirsi di nuove quote di mercato, con il conseguente annuncio di nuove alleanze e fusioni nei settori saturi. In questo processo, la svalorizzazione e la distruzione massiccia di capitali sono due fenomeni interconnessi.

La sovrapproduzione si esprime in tutti i campi come intensificazione della concorrenza, alla quale si è parzialmente risposto per mezzo di interventi protezionistici settoriali, in primo luogo dai pontefici del libero scambio: gli USA. Dimenticando il suo vangelo, il governo degli Stati Uniti, negli ultimi mesi, ha chiuso le sue frontiere alle esportazioni latinoamericane: Argentina, Colombia, Venezuela e Brasile sono state le prime vittime. Già prima dell'attacco al WTC, il Congresso degli Stati Uniti aveva approvato l'aumento dei sussidi ai produttori agricoli locali (vale a dire, per l'anno 2000, 22.5 miliardi di dollari). Altrettanto hanno fatto i diversi governi della regione nei confronti delle "amate nazioni sorelle". Il Venezuela ha adottato restrizioni nell'interscambio frontaliero con la Colombia e alle importazioni di beni industriali e agricoli. Per molti, la repentina svolta verso il protezionismo, sebbene sia giudicato ancora troppo timido, ha spiegazione nel fatto che i paesi che persistono nel libero scambio presentano un'accentuazione della desertificazione commerciale e industriale cominciata vent'anni fa con la celebre "apertura economica". Compresa in quest'ultima, una della maggiori forze propulsive della desertificazione ha preso corpo con la privatizzazione generalizzata (4) degli anni ottanta e novanta. Dopo le privatizzazioni, le rimesse estere delle imprese situate in America latina, passarono da 2.945 milioni di dollari negli anni 1990/91, a 30.030 milioni di dollari nel 1997/98. Senza meccanismi protettivi, pochissime delle industrie che rimangono nella regione potranno salvarsi dalla "globalizzazione". La conseguenza è che molte imprese il cui mercato è ambito dalle transnazionali - in particolare quelle dei servizi, le aerolinee, le acciaierie e quelle agricole - affrontano la tremenda sfida di essere assorbite o sparire. In generale, l'obiettivo dell'apertura è consistito nell'attaccare la causa della crisi - la produzione eccedentaria mondiale e la conseguente caduta dei prezzi - imponendo alle imprese locali, in primo luogo, la riduzione della loro capacità produttiva al fine di adeguarsi ai livelli di produzione che permettono l'aumento dei prezzi. Immediatamente, imprese intere di materie prime, agricole e dei servizi sono scomparse, vista l'impossibilità di sopportare questa imposizione.

Uno degli effetti immediati del crollo degli Stati Uniti è la notevole riduzione del flusso di capitali per l'America Latina. Dei più di 60 miliardi di dollari che occorrono per coprire l'aumentato deficit della spesa corrente, le economie latinoamericane riceveranno meno di 40 miliardi di dollari. In breve tempo questo significherà un colpo mortale per una regione in cui l'investimento si è ridotto drammaticamente per quasi un lustro. L'Argentina, per es., ha registrato un calo del 30% annuo negli ultimi quattro anni e in Brasile l'investimento diretto è in questo momento uguale a zero. A causa della loro svalorizzazione, le economie di questi paesi sono rimaste senza prospettive di investimenti e di prestiti nuovi. Il disinvestimento che colpisce questi due paesi è da imputare, naturalmente, alla caduta sistematica del saggio del profitto. La chiusura di molte importazioni da parte degli USA, la contrazione dei mercati e la notevole diminuzione delle entrate in divise estere sono state inevitabilmente accompagnate dalla svalutazione della maggior parte delle monete latinoamericane. Anche Cuba, con un'economia regolata dallo stato, ha visto il valore del peso abbassarsi del 26% dall'inizio dell'anno, davanti alla diminuzione dei prezzi internazionali del nichel, dello zucchero e al calo del turismo. Mai come ora è stata amplificata la fragilità di queste economie catalogate nella categoria dei "mercati emergenti".

Per quanto riguarda gli effetti della contrazione del flusso finanziario, il quadro più tragico lo offrono le situazioni del Brasile, dell'Argentina e del Cile. Nel primo paese la svalutazione ha raggiunto un 46% dall'inizio dell'anno; nel terzo oltre il 26%. Da dove usciranno i 50 miliardi di dollari di cui ha bisogno il Brasile per coprire i suoi conti internazionali negli ultimi mesi del 2001 considerando che ha un deficit fiscale di 40 miliardi di dollari? Lo sprofondamento di questa economia si deve dare per certo, considerando che nessuna delle misure messe in atto dal governo - vendita di dollari da parte del Banco Central, massicce collocazioni di titoli del debito "dollarizzati", ha potuto contenere la svalutazione. Niente, tranne effimeri palliativi, può essere adottato di fronte alle scadenze del debito che il prossimo anno arriveranno a 74 miliardi di dollari. La recente operazione di "salvataggio" operata dal FMI per 15 miliardi è stata appena un palliativo. Dopo la debacle dell'Argentina, il Brasile presenta i segni più devastanti: in primo luogo, il 75% del suo debito pubblico è dollarizato (nei paesi che hanno un astronomico debito interno "dollarizzato", il pagamento degli interessi ha un rimbalzo di miliardi per ogni punto in più di svalutazione); in secondo luogo, il rapporto tra PIL-debito estero è del 72%, vale a dire, rovinoso; in terzo luogo, i suoi passivi privati (a breve e lungo termine) ascendono a 335 miliardi di dollari.

Insomma: la situazione latinoamericana, nel suo insieme, sta preparando al mondo la sua prossima grande esplosione finanziaria. Gli episodi più virulenti devono ancora verificarrsi.

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(1) Il Financial Times scrive che da un totale di 95 compagnie che si dichiararono insolventi nel 2000, lasciando insolvenze per 22.6 miliardi di dollari, si è passati a 141 compagnie, però solo nei primi sei mesi del 2001, per un ammontare complessivo del debito di 56 miliardi di dollari (Financial Times, 20/7/01). L'83% di queste imprese insolventi appartengono agli Stati Uniti (FT, 16/). Le passività degli stati chiamati "emergenti" e ancora più impressionante. L'indice globale del "rischio-paese" è cresciuto, in un solo mese (giugno-luglio) di 200 punti, raggiungendo i 900 punti, vale a dire a un passo dell'indice che segna una situazione di interruzione dei pagamenti.

(2) In generale, la privatizzazione non ha apportato nessun beneficio netto ai paesi che l'hanno introdotta. dato che in gran parte ha interessato il settore dei servizi, la sua operazione non implicava una domanda importante di beni industriali locali; al contrario, esigeva soprattutto la importazione di beni esteri.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.