Nuove conferme da Porto Alegre - L'urgente necesità dell'organizzazione rivoluzionaria

Per uno di quei paradossi della storia - che in realtà sembrano tali solo se lo sguardo si ferma alla superficie delle cose - più l'evoluzione della crisi capitalista mondiale corrode gli spazi di intervento del riformismo, più quest'ultimo sembra invece crescere e conquistare consensi.

La quarta edizione del Forum Sociale di Porto Alegre ne è una prova lampante. Mai come quest'anno ha attirato visitatori e partecipanti, mai ha ricevuto così tante attenzioni da parte dei mezzi di informazione, tanto da indurre qualche perplessità tra gli organizzatori dell'evento e a spingerli ad interrogarsi sulla reale efficacia di un simile gigantismo. Certamente, l'ascesa di Lula da Silva ai vertici dello stato ha acceso nuove speranze e infuso nuove energie al "popolo riformista", ma anche, sia detto di passaggio, le prime preoccupazioni per la sua incursione nella tana del lupo "neoliberista" a Davos. Sebbene le dichiarazioni estremamente concilianti col capitalismo e un po' meno verso gli USA, siano indicative del ruolo che una certa borghesia latinoamericana potrebbe giocare negli opposti schieramenti imperialisti, non è di questo che vogliamo parlare.

È più interessante, invece, soffermarsi sulla sempre più aperta convergenza manifestatasi a Porto Alegre tra la sinistra istituzionale italiana e il mondo del riformismo "di base", dai Cobas ai Disobbedienti, che nelle istituzioni, finora, sono collocati ai margini (almeno in apparenza) o vi entrano per la porta di servizio, giusto per non perdere del tutto la maschera da antagonisti con cui - coscientemente o meno - si travestono.

Tra i vari incontri, assemblee, ecc., ce n'è stato uno che merita di essere preso in considerazione, vale a dire quello che ha visto confrontarsi i piqueteros argentini (ma di quale corrente politica?) e la CGIL di Epifani, volato sull'altra sponda dell'Atlantico per portare il verbo della "nuova" e "antagonista" CGIL. Ma che cosa avevano da dirsi i piqueteros, la cui azione politica è molto distante (se non opposta) dalla concertazione sindacale, ancora oggi rivendicata dal maggiore sindacato italiano? Questo episodio, per quanto possa apparire decisamente marginale, al contrario è indicativo di come un organismo proletario, nato e cresciuto sulla spinta di lotte anche durissime in difesa dei più elementari interessi di classe, molto difficilmente possa progredire verso la maturazione di una compiuta e coerente strategia rivoluzionaria se manca un'organizzazione rivoluzionaria che, dialetticamente, interagisca politicamente con tale organismo; o, peggio ancora (se così si può dire), se quell'organismo di lotta è animato da correnti politiche riformiste che imprigionano il movimento proletario dentro prospettive anti-comuniste, vecchie e ampiamente sbugiardate dalla storia quali le nazionalizzazioni ossia il capitalismo di stato. Se i piqueteros considerano - giustamente - i sindacati argentini un covo di burocrati al servizio del "loro" padronato, con cui, dunque, non ci può essere nessun confronto, perché mai, invece, riconoscono una legittimità operaia alla CGIL? Quando parliamo di coerente visione classista, intendiamo, va da sé, anche internazionalista, cioè quel punto di vista che si eleva al di sopra della propria categoria, della propria collocazione nazionale e inscrive i propri problemi e la propria lotta nel quadro della lotta di classe mondiale; era vero ieri, è ancor più vero e indispensabile oggi. Che cosa avrebbe da dire un ipotetico piquete italiano a Epifani se non che la difesa degli interessi proletari si può fare solo fuori e contro la tradizione storico-politica del sindacalismo e della concertazione in particolare? È solo perché non si sono fatti fino in fondo i conti con la reale natura del sindacato (inteso in senso generale) che si accettano, anche da parte di settori istintivamente radicali della classe operaia, quelle ambiguità politiche, dentro le quali sono destinate a spegnersi anche le più promettenti fiammate di rivolta proletaria.

Non meno indicativo del marasma politico presente nella città brasiliana è il fatto che i Disobbedienti - pure loro presenti a quell'incontro - per bocca dei loro "big" Casarini e Caruso, hanno lanciato più di un segnale in direzione di Epifani, in vista di eventuali iniziative comuni contro la probabile guerra in Iraq.

Sebbene costoro, a differenza dei piqueteros, non siano espressione di un movimento proletario, bensì di un movimento molto composito in cui si agita anche la rabbia di tanti giovani proletari, ma che si muove dichiaratamente sul terreno del riformismo piccolo-borghese, tuttavia, dicevamo, hanno sempre avuto la pretesa di agire al di fuori delle istituzioni, sindacalismo "ufficiale" compreso. Infatti, benché la critica al sindacato non partisse certo dalle nostre premesse, né tantomeno arrivasse alle nostre conclusioni, la CGIL era considerata "altro" da quanto di meglio produceva la famigerata società civile. Ma tanto preteso antagonismo ha mostrato - da subito, a dire il vero - le sue gambe cortissime: se la FIOM è membro fondatore dei Social Forum, se la manifestazione di Firenze del novembre scorso deve tantissimo alla macchina organizzativa della CGIL, ora Casarini e Caruso lanciano esplicitamente una profferta di matrimonio a quel sindacato che ha sostenuto la guerra in Serbia (arrivando a revocare gli scioperi già proclamati), che è corresponsabile delle dolorosissime legnate inferte ai lavoratori, che guida di fatto l'opposizione alla banda Berlusconi per il rilancio di "un'altra concertazione possibile" e il sostegno al fronte imperialista europeo. Anzi, Casarini arriva ad autoproclamarsi vero e pressoché unico difensore della "Costituzione e [della] Carta dei diritti dell'uomo" (il Manifesto,26-01-03). Per caso, non ha mai sentito dire, non gli è mai venuto in mente che le costituzioni sono i supremi strumenti che garantiscono, sul terreno della legge, i privilegi e gli interessi di una sola classe, quella dominante?

Non meno grave, ma del tutto scontato, è il fatto che i Disobbedienti - stando a quanto affermano i loro capi - non abbiano imparato assolutamente niente dalle tragiche giornate di Genova 2001. Infatti, quali strade indicano per rispondere alla guerra? Se alla CGIL lasciano la risposta "democratica", a se stessi riservano quella "disobbediente", vale a dire il sabotaggio (?) e, niente meno!, l'occupazione delle basi militari (solo quelle americane? E perché non anche quelle italiane?). Ora, i casi sono due, sebbene non è detto che debbano necessariamente escludersi a vicenda. O si tratta di una trovata propagandistica, un mega spot pubblicitario, atto a far salire le proprie azioni personali nel campo della politica da politicanti (eh sì, la gioventù finisce e bisogna pur pensare a cosa fare da grandi...); oppure siamo di fronte a una gravissima e irresponsabile fanfaronata, che può essere pagata molto, ma molto cara da chi ha l'ingenuità di credere a simili assurdità. Non è bastato il tentativo, tragico e pagliaccesco insieme, di invadere un niente assoluto come la famigerata Zona Rossa di Genova, per avere l'ennesima dimostrazione che lo stato borghese picchia e picchia duro quando la contestazione supera certi limiti? Credono davvero che sia possibile penetrare in una struttura militare senza scatenare la durissima e del tutto ovvia reazione dei militari medesimi e delle forze di polizia? A che serve mandare allo sbaraglio migliaia di persone: a piangere poi sullo scarso rispetto della vita umana o della Costituzione da parte delle forze dell'ordine borghese?

Il guaio è che questo modo di agire è patrimonio anche di alcuni settori che condividono con i Disobbedienti le stesse radici, l'Autonomia Operaia, ma che vorrebbero rimanere ancorati a una visione classista della società. Benché quest'area sia molto frastagliata e, per certi versi, disomogenea, nell'insieme non trova una via d'uscita alle profondissime contraddizioni in cui versa, perché - finora - non ha saputo o voluto rivedere criticamente i propri presupposti teorico-politici. Orfana degli intellettuali di grido - tutti o quasi passati (passati?) su posizioni apertamente socialdemocratiche o liberiste - che un tempo "davano la linea", i sopravvissuti (e, purtroppo a rimorchio, i giovani presenti nell'area) non sanno fare altro che ripetere stancamente vecchie, vecchissime analisi e indicazioni politiche che non hanno retto - non una! - alla prova dei fatti. Privi di prospettive politiche (rivoluzionarie) di ampio respiro, si accaniscono inutilmente nella pratica - o, meglio, nel tentativo - di un programma sempre più minimo; incapaci di leggere la realtà se non attraverso le lenti deformanti della propria sgangherata ideologia, sono convinti che poche e isolate "giornate campali" promosse da un'opinione pubblica di estrema sinistra (le manifestazioni, le velleitarie azioni eclatanti) possano inceppare gli ingranaggi spietati del capitale. Cosa, per altro, del tutto conseguente, se per una parte non piccola di ciò che resta dell'Autonomia (nonché per i Disobbedienti), non esiste più da un pezzo la centralità della classe operaia o, detto in altri termini, l'estorsione del plusvalore, lo sfruttamento del lavoro salariato non è più la linfa vitale che alimenta questa società; con queste premesse, è ovvio che l'attività politica tra la classe operaia, tra i lavoratori ha lo stesso peso (se non inferiore) di un lavoro volto semplicemente a sensibilizzare una parte della famigerata opinione pubblica.

Dagli uni e dagli altri è vano attendersi alcunché, ma sono le giovani energie, ora solamente ribelli, che devono fare il salto di qualità e trasformarsi in militanti rivoluzionari, se non vogliono rimanere carne da macello di cinici politicanti "antagonisti" o di impotenti nostalgici di un passato che non tornerà più. Il partito rivoluzionario ha bisogno di loro, non meno di quanto esse abbiano bisogno del partito rivoluzionario.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.