Palestina: Un conflitto infinito in balia dell'imperialismo

Oltre duemila ottocento morti e decine di migliaia di feriti, in maggioranza palestinesi, è sino a questo momento il macabro bilancio della seconda Intifada. Questo tragico episodio dell'interminabile conflitto israeliano-palestinese ha preso le mosse il 29 settembre 2000, in una situazione già carica di tensione, quando l'attuale primo ministro israeliano Sharon, in quel momento capo dell'opposizione di destra, decide non incidentalmente ma con deliberata provocazione di calcare il suolo della Spianata delle moschee a Gerusalemme, luogo sacro per i musulmani.

La scintilla prende immediatamente fuoco e la rivolta è repressa nel sangue, Israele coglie l'occasione per affossare gli accordi di Oslo del 1993 e per rilanciare una decisa offensiva di rioccupazione parziale dei territori ceduti all'Autorità nazionale palestinese (Anp). Il pretesto è reso operativo a seguito di vari attentati terroristici, prevalentemente contro civili israeliani, rivendicati dai gruppi palestinesi più radicali contrari ai compromessi stipulati da Arafat, perché ritenuti liquidatori e disonorevoli rispetto all'antico progetto di distruzione dello storico nemico.

In una situazione complicata come questa dove gli odi sono così profondamente radicati, l'imperialismo americano in primo luogo, continua a operare affinché i precarissimi equilibri in tutta l'area mediorientale non saltino in aria, e con essi gli interessi vitali della malata economia statunitense. Gli Usa devono stare attenti a non mettere troppo in difficoltà i governi dei vari paesi arabi, all'interno dei quali l'antiamericanismo delle loro masse diseredate è molto forte. Allo stesso tempo Washington ha la necessità di confidare sull'unico alleato sicuro di cui non può fare a meno. Tanto che pur criticando la palese brutalità d'Israele e le imbarazzanti azioni che violano il diritto internazionale e tutte le risoluzioni delle Nazioni unite, gli Stati uniti sono costretti di volta in volta a mettere delle pezze giustificative e a tenere buono il loro vassallo.

Tale atteggiamento è rafforzato dal disegno complessivo americano di controllo e gestione del petrolio e della rendita che ne deriva a livello planetario. I piani prevedono una presenza sempre più attiva in Medio oriente e la chiusura definitiva dei conti con l'Iraq di Saddam, attraverso la forza delle armi o costringendo il dittatore all'auto esilio.

È in questo contesto che a loro volta gli israeliani portano sino in fondo gli attacchi contro i palestinesi. Spadroneggiando dietro la copertura del loro grande padrone, pratica oggi ulteriormente rafforzata dal nuovo successo elettorale della destra di Sharon. Gli americani possono anche tirare le orecchie ai loro alleati, ma non possono assolutamente adottare maniere pesanti, almeno per il momento.

Conformemente a quanto hanno fatto capire negli incontri di Camp David nel luglio del 2000 e di Teba nel gennaio 2001, i territori occupati e le colonie non saranno ceduti quando in futuro si dovrà negoziare concretamente la nascita di uno Stato palestinese. Il governo israeliano ne approfitta per continuare la sistematica politica di colonizzazione, perfino con la costruzione di un "muro di sicurezza" dalla Cisgiordania a Gerusalemme, di distruzione di edifici e di paralisi dell'economia palestinese, mentre Arafat è emarginato in una specie di prigionia nel suo quartiere generale di Ramallah.

Già al tempo della prima Intifada, dal 1987 al 1993, un primo muro era stato costruito attorno a Gaza, Israele attualmente controlla il 20% di quel territorio. Proseguendo sempre con l'intento di rioccupare quanto più possibile i territori palestinesi, soprattutto i terreni fertili e ricchi d'acqua, il muro che parte dal nord della Cisgiordania si estenderà sino a Gerusalemme est, per proseguire probabilmente ancora più a sud fino a Hebron. In sostanza si tratta di una barriera-fortilizio che attraversando tutta la Cisgiordania terrà sotto controllo le risorse rapinate e l'ostilità della popolazione.

La questione palestinese per essere un dramma che dura da tantissimo tempo, per le particolari brutalità subite dalla popolazione sopraffatta e spodestata dal proprio territorio dallo Stato israeliano, armato e manovrato dall'imperialismo inglese prima e americano poi, e per le indicibili sofferenze che ancora oggi patisce, giustamente indigna i proletari più coscienti del mondo intero.

Però bisogna fare attenzione e non cadere nella trappola dell'ideologia borghese che vorrebbe presentare il "popolo" palestinese come un tutt'uno indifferenziato, esattamente come si tenta di far credere soprattutto nei paesi avanzati, dove si vuole far passare l'idea che le classi sociali sono cosa d'altri tempi e tanto meno che esista una questione sociale. Paradossalmente questo avviene mentre il capitalismo è nella sua parabola discendente e gli effetti devastanti sul proletariato mondiale più evidenti che in passato.

Agli attacchi della borghesia il proletariato non è in grado di opporre una propria alternativa, perché il vecchio riformismo figlio dello stalinismo e del defunto socialismo reale, è risorto sotto mentite spoglie in un'infinità di varianti democraticistiche, più o meno radicali, in cui le parole comunismo e anticapitalismo sono considerate bestemmie. Per i rivoluzionari fare circolare nuovamente l'abc del comunismo, spiegare cos'è stato il falso socialismo del blocco orientale, la natura delle sue ultime propaggini come la Cina e Cuba, e la nefasta influenza che esso ha esercitato sul proletariato, sono compiti imprescindibili nell'attuale fase storica.

È altrettanto ingannevole e controrivoluzionario, chi pur richiamandosi al marxismo, riproponga per la Palestina o per contesti simili, le guerre di liberazione nazionali. La borghesia finanziaria palestinese, che è la fazione dominante, ha per obiettivo un qualsiasi compromesso che le faccia ottenere un pezzo di terra e il riconoscimento di stato indipendente, per potere operare liberamente e in tranquillità. Cioè speculare nelle borse e nelle società internazionali, non certamente investire in loco. I lavoratori palestinesi, invece, sono sparsi in tutto il Medio oriente, super sfruttati dalle borghesie di questi paesi.

Pensare che in un eventuale Stato palestinese sia possibile ripercorrere le classiche tappe di sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, a partire dalla formazione di un mercato interno, poi di un proletariato che soppianterà la propria borghesia, vuol dire non avere capito niente. Significa riproporre uno schema ottocentesco superato, quando compito del giovane capitalismo era sbarazzarsi definitivamente dell'impalcatura feudale e nobiliare.

Il marxismo ci insegna a valutare dialetticamente la dinamica delle fasi storiche. Riproporre oggi lo stesso modello significa non considerare il dominio totale delle centrali imperialistiche e la dittatura economica che esercitano sul mercato mondiale. Sottovalutare la fase involutiva del ciclo economico, evidenziata da una permanente conflittualità militare e politica, vuol dire astrarre dalla realtà e considerare aperti spazi che invece sono chiusi, il crollo di paesi di media industrializzazione sta a dimostrarlo.

I diseredati palestinesi sono per la propria borghesia solo carne da macello da immolare ai loro interessi. La pretaglia che convince i giovani agli attentati suicidi in cambio del paradiso, e le altre fazioni che ugualmente mandano allo sbaraglio la popolazione, vanno combattute e non certamente appoggiate. Se una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi si troverà, non saranno certamente i loro governi a stabilirne tempi e modalità, ma sarà il risultato dei complessi equilibri interimperialistici, in particolare tra Usa ed Europa.

Non esistono fasi intermedie, oggi l'unica prospettiva per la quale valga la pena lottare è l'abbattimento del capitalismo e di qualunque borghesia senza eccezioni.

cg

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.