In Medioriente riappare l'ennesimo piano di pace - Presentata la Road Map

Il 30 Aprile, ufficialmente, è stata presentata la Road Map, l'ennesimo piano di pace in M.O. I punti sono quelli di sempre:

  1. cessazione del terrorismo e severo controllo da parte del nuovo governo di Abu Mazen;
  2. ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati;
  3. smantellamento degli ultimi insediamenti;
  4. composizione delle questioni aperte quali il destino dei vecchi insediamenti e della città di Gerusalemme;
  5. creazione dello stato palestinese entro il 2005.

Voluto dagli Usa e controfirmato da Ue, Russia e Onu. Tutto secondo copione ma con due variabili, una quella della guerra in Iraq e delle devastanti conseguenze in tutta l'area, l'altra relativa ai rapporti di ricatto/alleanza tra gli Usa e lo stato di Israele.

Una delle peculiarità dell'imperialismo americano in questa fase del dopo Urss è che, fatta una guerra per risolvere i propri problemi di natura economica, finanziaria e strategica, crea le condizioni per altre guerre, getta le basi per quel disordine internazionale che si voleva evitare. Non che questa fosse una conseguenza inevitabile e calcolata, tutt'altro, ciò che doveva essere raggiunta era la pax, la sua pax, a salvaguardia dei suoi interessi e con i suoi contenuti, ma nonostante la determinazione e la forza esibita le cose stanno andando in senso opposto. Su scala internazionale l'ennesimo intervento militare, arrogante, illegittimo secondo le stesse normative internazionali che si fingono di adottare, rozzo e criminale nelle modalità di esecuzione, sta accelerando la nascita dell'esercito europeo quale futura risposta dell'imperialismo del vecchio mondo. In loco la guerra in Iraq sta scoperchiando una miriade di situazioni contrastanti che rischiano di creare nell'area una instabilità duratura. La Turchia si è già mossa a difesa dei suoi interessi petroliferi e strategici nel nord dell'Iraq. L'Arabia Saudita ha chiuso le basi militari americane sul suo suolo e si propone come alternativa politica religiosa alla presenza militare americana nel Golfo. I sei paesi confinanti con l'Iraq hanno ribadito in una recente conferenza di non gradire la presenza militare americana in Iraq, rilanciando la carta Onu per la ricostruzione economica e democratica del paese. All'interno l'opposizione all'invasione americana sta di giorno in giorno assumendo i caratteri della resistenza. Le popolazioni Sunnite del centro e Sciite del sud hanno inscenato già due manifestazioni di protesta. Nel sud, a parte una piccola frangia collaborazionista di sciiti, peraltro pesantemente contestata dal resto della popolazione, le manifestazioni di protesta sono pressoché quotidiane.

In questo quadro, cui bisogna aggiungere la rabbia per i morti, la fame e la miseria, la disperazione per un futuro che si presenta incerto e drammatico per tutta la popolazione irachena, il governo americano rigioca la carta palestinese per accontentare le masse arabe nel tentativo di non averle completamente contro, e per sanare un focolaio di tensione che da sempre potrebbe mettere in discussione gli equilibri strategici e petroliferi che di volta in volta l'imperialismo americano crea, cambia, rinnova o cancella secondo i suoi interessi. Ogni volta però che rimette mano alla questione, cambiano i termini del problema, secondo le pretese del suo alleato principe in M.O. Israele.

Gli accordi di Washington, che già riducevano del 50% le ambizioni nazionalistiche della borghesia palestinese, sembrano un lontanissimo ricordo. La nuova partita si gioca su più tavoli con una posta in gioco enormemente ridotta sia per le ambizioni palestinesi che per quelle siriane e di altri paesi arabi limitrofi, Iraq compreso.

Il tutto ripartirebbe da una' improvvisa dichiarazione di Sharon, rilasciata all'indomani della presa di Baghdad, in cui si dice che il governo israeliano è disposto a ritirare i suoi insediamenti nei territori occupati, che è disponibile a riprendere le trattative sulla autonomia palestinese, ma a una serie di condizioni. Intanto il nuovo piano di pace dovrebbe prevedere la riapertura dell'oleodotto iracheno che da Mosul portava il petrolio a Haifa, chiuso nel 48 all'atto della nascita dello stato d'Israele. Sharon vuole a tutti i costi salvaguardare i propri interessi energetici, mai così vitali, chiedendo, in nome del suo allineamento con gli Usa nella guerra contro l'Iraq, che il nuovo governo di Chalaby e Garner ponga il problema della sua riapertura. In secondo luogo, alla promessa di togliere gli insediamenti e di riprendere le trattative con i Palestinesi, si contrappone la richiesta, sempre via Usa, di non restituire le alture del Golan alla Siria. In ballo c'è lo sfruttamento dell'oro bianco, in altre parole dell'acqua delle sorgenti del fiume Giordano che creano il bacino idrico del lago di Tiberiade. Per Israele e la sua economia agricola, l'acqua è forse più importante del petrolio, e nel dubbio, ha avanzato perentoriamente la richiesta su entrambi i fronti. Sul versante interno le rivendicazioni non sono meno pesanti. Il ritiro dagli insediamenti dai territori occupati ne riguarderebbe soltanto 12 su 70. Tenuto conto del fatto che questi insediamenti si sono prodotti nell'area dell'Autorità palestinese dopo gli accordi di Washington, i quali prevedevano al contrario il progressivo smantellamento di quelli preesistenti e che proprio su quest'aspetto è scattata rabbiosa la seconda intifada, la proposta suona come una tremenda presa in giro. Non ultimo la questione della Cisgiordania. Sempre secondo gli accordi di Washington nell'arco di cinque anni, l'autonomia palestinese sarebbe dovuta entrare in possesso prima della striscia di Gaza e della città di Gerico, poi di Hebron ed infine di tutta la Cisgiordania con la sola questione aperta della città di Gerusalemme. Allo stato attuale delle cose l'Anp ha il possesso amministrativo soltanto sul 21% dei territori. Nel frattempo ha subito decine di nuovi insediamenti, con la scusa della lotta al terrorismo ha patito la pulizia etnica in vari punti strategici della Cisgiordania, l'esercito israeliano ha riconquistato con la forza buona parte dei territori nella stessa striscia di Gaza, e solo dall'attuale status quo il governo israeliano si dichiara disponibile a riprendere le trattative. Ma anche in questo caso con delle pesanti richieste politiche. La prima è che il vecchio Arafat, accusato di ambivalenza con il terrorismo palestinese esca di scena o che la sua influenza sia ridotta ai minimi termini. Che il nuovo primo ministro Abu Mazen, gradito a Sharon e all'amministrazione Bush ne prenda nei fatti il posto, che il nuovo responsabile dei servizi segreti sia di gradimento alla controparte e infine che il nuovo governo dimostri il pugno di ferro nei confronti di Hamas, della Jihad islamica e di tutte le organizzazioni terroristiche che rendono la vita difficile all'occupazione israeliana dei territori. Dopodiché se di stato palestinese si deve parlare lo si farà nei termini geografici imposti da Israele, ovvero una serie di insediamenti palestinesi a macchia di leopardo in territorio cisgiordano, il controllo delle acque del fiume giordano rimarrebbe allo stato israeliano e lo stato palestinese così ridotto sarebbe una sorta di protettorato politico e militare di Israele. Mai e poi mai il governo Sharon sarebbe disposto a restituire tutta le Cisgiordania, e per una questione di insediamenti che ormai sono considerati a tutti gli effetti territorio israeliano, e perché la Cisgiordania è, e di molto, il territorio più fertile e ricco di tutta la Palestina. Nulla di nuovo dunque, sennonché la guerra irachena, mentre ha drammaticamente accelerato il perseguimento degli interessi economico strategici del grande imperialismo, spiana la strada anche al suo piccolo ma altrettanto famelico alleato. Tutto fatto? No, perché come già sta avvenendo in Afganistan, Iraq è pronta la risposta di chi non vuole accettare la strategia dell'imperialismo americano, anche se sta ripercorrendo i vecchi tracciati del terrorismo nazionalista islamico. Malauguratamente per le masse palestinesi e arabe la risposta sarà sterile e senza sbocchi se non farà lo sforzo di iniziare a porre i problemi in termini di classe e di lotta di classe, per soluzioni che vadano al di là del nazionalismo e delle sue trappole borghesi, pax americana compresa.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.