Sotto le bandiere dell'imperialismo: il movimento no-global a Cancun

Introduzione

Quattordici anni fa un mondo è crollato, ma le sue macerie sono ancora lì e la polvere continua a stordire i sopravvissuti.

Alle rovine dello stalinismo - è questo a cui alludiamo - si aggiunge la pioggia fitta dei calcinacci del "paradiso" socialdemocratico (lo stato sociale, il welfare) dinamitato dallo stesso esplosivo che ha fatto accartocciare su se stessa la potente (in apparenza) struttura dell'infame "socialismo reale", vale a dire la caduta del saggio medio del profitto, cancro ineliminabile del modo di produzione capitalistico.

Ma, come spesso accade, l'ideologia che guida certi comportamenti degli esseri umani, benché privata della sua base materiale, continua a sopravvivere al mondo che l'ha generata e sembra persino mostrare segni di vitalità; anzi, appare tanto più vitale quanto più rapidamente vengono oggettivamente meno le condizioni materiali che esprimevano una determinata visione del mondo. Non solo: con un movimento uguale e contrario, più si inaspriscono gli effetti della crisi capitalistica e più i residui ideologici di quel mondo travolto si decompongono e regrediscono fino a mostrare tutto il contenuto reazionario dei progetti e movimenti politici originati da quel crollo.

Sebbene il principale destinatario degli attacchi furibondi della borghesia mondiale sia il proletariato del "Nord" e del "Sud del pianeta", la sua risposta di classe è pressoché assente o troppo timida e discontinua per contrastare questa aggressione (1), È la piccola borghesia., invece, che alza la voce e imprime il suo indirizzo politico al magma dei movimenti sociali comunemente chiamati no/new-global o anche alter-mondialisti, pescando nel proprio armamentario ideologico di sempre, miscelato con i cascami teorico-politici della Terza Internazionale degenerata, cioè lo stalinismo.

Niente di nuovo, qualcuno dirà: in fondo, il '68, la "stagione dei movimenti" furono politicamente egemonizzati da una piccola borghesia ribelle uscita dal seno del "movimento operaio" ufficiale, che da gran tempo aveva tradito e sfigurato la prospettiva del comunismo. Niente di nuovo se la storia fosse una semplice ripetizione di fatti sostanzialmente uguali a se stessi, ma, ci si perdoni la banalità, così non è.

Che il capitalismo, nelle sue strutture fondamentali, resti sempre capitalismo, nonostante le trasformazioni subite in duecento e passa anni di vita, che, di conseguenza, le classi e le sotto-classi riproducano, in linea generale, gli stessi comportamenti, è un'altra affermazione che scade nell'ovvietà; ma ciò non toglie nulla al fatto che le forme in cui si esprime lo scontro tra le due classi principali (borghesia e proletariato) e le convulsioni di una piccola borghesia continuamente rimodellata dall'evoluzione del modo di produzione capitalistico, presentino caratteri nuovi che i rivoluzionari devono saper riconoscere come tali, se non vogliono privarsi in partenza della possibilità di incidere sulla realtà.

Criticare e denunciare il carattere profondamente reazionario di ogni movimento piccolo borghese, perché costantemente rivolto al passato, perché animato dalla vera utopia di voler umanizzare il capitalismo, non significa affatto ignorare con una scrollata di spalle o, peggio, irridere movimenti di massa partoriti dagli sconvolgimenti della nostra epoca.

A Genova hanno sfilato trecentomila imbecilli, scriveva con ostentata sufficienza un giornale che si definisce internazionalista all'indomani dei tragici fatti del G8, ma quando un numero così imponente di "imbecilli" si muove per dire in qualche modo "basta!" a questo mondo, significa che qualcosa ribolle nel sottosuolo della società, qualcosa che va ben al di là di una semplice manifestazione di stupidità collettiva.

Il problema, enorme, è che questo magma ribollente, in cui si mescolano settori di piccola borghesia in difficoltà, giovani ribelli e proletari che intendono esprimere un rifiuto attivo, per quanto confuso, al capitalismo, è incanalato e diretto dalle insulse, inconsistenti fantasie del riformismo, assolutamente prive di qualsiasi prospettiva concreta, in generale, di classe in particolare.

È un riformismo che si agghinda con i miti dello "stalinismo diffuso", a consolazione di un senso di sconfitta e frustrazione che opprime il "popolo di sinistra". Questi miti (2) si ingigantiscono e acquistano forza quanto più il suddetto "popolo" associa qualunque progetto di rovesciamento globale del capitalismo all'esperienza mostruosa della controrivoluzione stalinista e crede di potere aggirare in tal modo la questione dell'assalto rivoluzionario al potere borghese, atto preliminare di un vero "altro mondo possibile". Ogni elemento del patrimonio storico della teoria e della prassi del movimento comunista, già stravolto dalla falsificazione staliniana, è ulteriormente sfigurato.

Così, la questione della violenza rivoluzionaria è concepita unicamente nella chiave grottesca e delirante delle micro-formazioni terroristiche, e verso il problema del potere si riesumano le prediche moralisteggianti (un altro modo di eludere l'ostacolo) e sterili dell'anarchismo, secondo il quale ogni forma di potere è di per sé "cattiva". Che poi, in questa minestra inacidita ci siano contraddizioni stridenti, non importa: nei miti, come nelle favole, si proiettano i sogni, non il mondo reale.

Cascami dello stalinismo, riformismo classico e neoriformismo più o meno radicaleggiante, costituiscono dunque il quadro ideologico entro cui si muovono i "movimenti", destinati inevitabilmente a sbattere la faccia contro una realtà che non ha nulla a che vedere con le loro teorizzazioni o, peggio ancora, a essere usati come massa di manovra da questo o quello schieramento borghese nella sempre più aspra contesa imperialistica mondiale.

Il grido di vittoria che si è levato dal movimento no-global di fronte all'esito del vertice di Cancun ne è un esempio clamoroso.

I popoli del "Terzo Mondo" alla riscossa?

A Cancun, Messico, dal 10 al 14 settembre si è tenuto l'ennesimo vertice dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC o WTO), durante il quale si sono discusse questioni che da tempo contribuiscono ad esasperare il clima di diffidenza, se non di aperta contrapposizione, tra le maggiori potenze economiche del pianeta e tra queste ultime e le borghesie dei cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo (PVS) o, com'è più corretto definirli, della periferia capitalistica.

Sebbene la liberalizzazione e la privatizzazione dei servizi pubblici (cioè, di quel che ne rimane) da parte specialmente dei PVS fosse un punto all'ordine del giorno tutt'altro che secondario, è stata l'agricoltura ad occupare la scena sia delle aspre discussioni tra i delegati delle borghesie mondiali, sia delle contestazioni inscenate dalla cosiddetta società civile. Nella fattispecie, si doveva decidere sulla spinosa questione della riduzione delle sovvenzioni che i paesi ricchi elargiscono al proprio settore agricolo e sull'apertura alle esportazioni provenienti dal "Sud", secondo quanto prescrive il tanto decantato "mercato". Infatti, il "Sud del mondo" accusa - a ragione - il "Nord" di praticare un protezionismo spinto nei confronti della propria economia e di imporre, invece, al resto del mondo quella medicina neoliberista che però si rifiuta di assumere.

Che l'agricoltura sia diventata (o sia sempre stata) un nodo strategico di primaria importanza, è testimoniato non solo dal tragico suicidio del contadino coreano, ma dal fallimento (per altro ampiamente previsto) del vertice medesimo. Le cause di questo fallimento sarebbero da addebitare, da una parte, all'egoistica sordità dei paesi ricchi alle esigenze dei paesi poveri e, dall'altra, allo scatto di orgoglio di questi ultimi, che non si sono voluti piegare all'avidità dei primi. Di fronte all'arroganza del "Nord", il "Sud del mondo", riunito in un nuovo fronte, chiamato G21, guidato dal Brasile di Lula (3), avrebbe detto per la prima volta "no" al neoliberismo a senso unico dei paesi economicamente più forti, diventando in tal modo i cavalieri senza macchia e senza paura dei popoli del "Sud".

Questa è la leggenda immediatamente spacciata dai capi dell'internazionale riformista, che, come ogni leggenda, pur contenendo brandelli di verità, è però ben lontana dalle reali motivazioni che hanno portato a concludere con un nulla di fatto l'ennesima riunione dell'OMC. Invece, Agnoletto ha dichiarato, in una specie di delirio di onnipotenza, che:

l'obiettivo [il fallimento del vertice - ndr] è stato raggiunto grazie al gioco di squadra che per la prima volta si è realizzato tra il movimento, le Ong [organizzazioni non governative, ndr] e i paesi poveri del mondo. I paesi del G21 hanno osato sfidare i ricatti economici di Stati Uniti e Ue anche perché consapevoli di poter contare sull'influenza che il movimento [...] è in grado di esercitare sull'opinione pubblica occidentale. (4)

Ad esso si è affiancato Bernocchi, leader dei Cobas, il quale, in un documento che può essere definito il manifesto dell'opportunismo politico, ha rincarato la dose con la seguente valutazione:

Il fallimento del vertice a Cancun, più netto e irreparabile che a Seattle, va innanzi tutto a merito del movimento mondiale “no-global” [...] è indubbio che il movimento abbia indebolito fortemente nell'immaginario collettivo [...] il dominio del “pensiero unico” [neoliberista, ndr] dando forza a tutte le opposizioni statuali o sociali che cercano di contrastare il potere dei “padroni del mondo” [...] Nel contempo, in molti paesi [...] che avevano subito sempre senza fiatare i soprusi dei paesi più forti, i governi, pressati dalle organizzazioni antiliberiste (e in vari casi anche “assistiti” da esse per tutti gli aspetti concernenti la parte politica-tecnica dei vari negoziati) [...] sono stati costretti ad assumere posizioni più decise e meno subordinate ai paesi dominanti. (5)

Se è vero, come si diceva più indietro, che gran parte del movimento no-global si presta a fare da sponda - più o meno consapevolmente - a questo o quello schieramento borghese, è altrettanto vero che Cancun è stata un'ulteriore manifestazione dell'inasprimento dei contrasti imperialistici, gli stessi contrasti che stanno rendendo sempre più inutili quella specie di camera di compensazione delle controversie mondiali - in primo luogo tra gli USA e il costituendo imperialismo europeo - che sono, o erano, gli organismi internazionali.

La coreografia anche tragica, e sempre inutile, delle contestazioni alle "Zone Rosse", le repressioni sanguinose, esprimono più l'impotenza e l'irresponsabilità del riformismo che non la debolezza dei "grandi della terra" nei confronti della "società civile". Il fatto è che diventa ogni volta più difficile mediare tra interessi divergenti, in un'epoca in cui l'avanzare della crisi del ciclo di accumulazione capitalistico spinge verso una ridefinizione degli assetti imperialistici a scala mondiale. Gli USA sono senza paragone alcuno la prima potenza militare del pianeta, ma la loro supremazia economico-finanziaria è seriamente minacciata (e in parte già compromessa), oltre che dalle gravi debolezze economiche interne, dall'apparizione dell'euro, benché quest'ultimo non abbia ancora dietro di sé una forza armata nemmeno lontanamente adeguata al suo ruolo attuale e a quello a cui aspira. La rottura, l'ennesima, tra USA e UE che si è consumata a Cancun sulle questioni economiche, è il proseguimento sotto altre forme del "pacifismo" oltranzista europeo - e in primo luogo di Germania e Francia - nei confronti della guerra statunitense all'Iraq.

Anche da certi ambienti del riformismo, quelli meno militanti, meno condizionati, forse, dalle esigenze della propaganda politica spicciola, si riconosce come gli Stati Uniti e l'Unione Europea tendano a considerare sempre meno praticabili, cioè manovrabili a proprio vantaggio, le grandi assemblee internazionali, preferendo gli accordi bilaterali con i singoli paesi o la costituzione di grandi aree protette, come l'ALCA, quella che, se nascesse, renderebbe l'intero continente americano, dall'Alaska alla Terra del Fuoco, un'immensa riserva di caccia dell'imperialismo a stelle e strisce (6). Lo stesso Lamy, commissario europeo al commercio e negoziatore a Cancun, ha più volte espresso pubblicamente il suo scetticismo verso questi organismi internazionali, giudicati ingombranti sopravvivenze del passato, ritenendo più agili e pratici gli accordi bilaterali:

L'Unione Europea punta soprattutto al trattamento differenziato paese per paese. (7)

Allora, diventa più che legittimo il sospetto che l'arroganza e protervia, con cui alcuni paesi ricchi hanno premuto su quelli poveri affinché aprissero totalmente le loro frontiere agli investimenti esteri in cambio di niente, non fossero dettate tanto dall'abitudine di chi è solito comandare ed essere servito, ma riflettessero un malcelato desiderio dei paesi ricchi di far fallire parate ormai inutili come i vertici mondiali.

In questo contesto di duri scontri economici e obiettivi imperialistici inconciliabili, hanno cercato di inserirsi i paesi del cosiddetto G21, tentando di coagulare attorno a sé i restanti paesi della periferia capitalista nel rifiuto di sottostare senza dire parola - secondo la prassi consolidata - alle decisioni dei "grandi". È bastato questo per scatenare - come si diceva - gli entusiasmi delle organizzazioni alter-mondialiste, in primo luogo delle associazioni contadine di mezzo mondo, che hanno visto immediatamente nel G21 la rivincita dei popoli oppressi contro la prepotenza neoliberista. Finalmente, per associazioni come Via Campesina o la Confédération Paysanne di José Bové (rispettivamente, Via Contadina e Confederazione Contadina, ndr), è possibile fermare e invertire il processo di industrializzazione dell'agricoltura che sta spazzando via intere comunità contadine in tutto il pianeta e arrivare a conseguire concretamente l'obiettivo dell'autosufficienza, altrimenti detta sovranità alimentare.

Ovviamente, le cose sono ben più complesse e, soprattutto, molto diverse da come ce le vogliono presentare gli occhiali deformanti del riformismo.

Intanto, il gruppo del G21 riunisce stati con interessi anche contraddittori; tra di essi ci sono paesi appartenenti al cosiddetto "gruppo di Cairns", che riunisce i maggiori esportatori cerealicoli del mondo (esclusi gli USA, ma compresi Brasile e Argentina), i quali sono più che favorevoli a un'apertura dei mercati "ricchi" e altri, come la Cina e l'India, che sono più interessati, se così si può dire, alla riduzione dei giganteschi sussidi agricoli che USA e UE somministrano alla propria agricoltura. In genere, però, l'opposizione ai sussidi di USA e UE accomuna tutti i paesi della periferia, cioè le loro borghesie, che sgomitano per ritagliarsi uno spazio tra i due "grandi" litiganti.

Ci vuole solo la fantasia autoingannatrice del riformismo per non vedere l'ovvio, vale a dire che le classi dominanti del "Sud" (né più né meno di quelle del "Nord") perseguono esclusivamente i loro interessi di classe, pur in un contesto di subordinazione agli imperialismi maggiori.

La struttura sociale dei paesi della periferia è fortemente connotata in senso classista, e se è vero che quelle borghesie hanno finora applicato diligentemente le cure devastanti ordinate dal Fondo Monetario Internazionale, è altrettanto vero che a farne le spese sono solo le masse povere e diseredate. Tanto per fare un esempio, sì è calcolato che nel decennio scorso "il denaro mal guadagnato, accumulato dalle élites del Terzo Mondo in conti cifrati, fosse di 600 miliardi di dollari, un terzo dei quali conservati in Svizzera" (8). A parte la considerazione moralistica sul modo di guadagnare i soldi, che allude al traffico di armi, droga, ecc., le privatizzazioni che hanno ridotto letteralmente alla fame milioni e milioni di persone, allo stesso tempo hanno arricchito in maniera spudorata settori di borghesia vecchia e nuova, che, in generale, preferiscono investire il loro denaro nella speculazione finanziaria internazionale, piuttosto che nelle fragilissime strutture produttive del proprio paese. A meno che, naturalmente, la loro nazione non offra attrattive tali ai capitali internazionali da promuovere lo sviluppo di un industrialismo selvaggio, come nelle zone economiche speciali della Cina del Vietnam, ecc. Dunque, queste borghesie si sono ampiamente prestate al saccheggio del loro paese quando ha cominciato a soffiare il ciclone neoliberista; e l'agricoltura è stata tra le prime a farne le spese.

Questi stati, molti dei quali avevano da poco raggiunto l'indipendenza dal giogo coloniale, erano riusciti a conseguire la "sovranità alimentare" negli anni 1960-70 beneficiando della fase espansiva dell'economia mondiale, la quale, a sua volta, permise la messa in atto della "rivoluzione verde". Si tratta di una serie di interventi di politica economica in cui lo stato giocava un ruolo centrale: riforma agraria con relativa assegnazione della terra ai piccoli contadini, credito agevolato, enti statali per lo stoccaggio/distribuzione regolata dei prodotti al fine di mantenere i prezzi remunerativi, per l'assistenza e la promozione dell'uso di sementi, concimi, pesticidi, ecc. Tutte misure che hanno consentito un notevole aumento della produttività dell'agricoltura, ma, legandola in modo strettissimo ai cicli alterni del capitale, hanno anche posto le premesse degli sconvolgimenti che stanno investendo questo settore dell'economia mondiale (al pari di quello secondario e terziario) e che, nei PVS assumono aspetti drammatici. Infatti, nei decenni precedenti, molti piccoli contadini della periferia, attratti dai prezzi crescenti delle materie prime e delle colture alimentari, incoraggiati dall'intervento statale, hanno riconvertito in tutto o in parte la loro attività, coltivando piante destinate all'esportazione.

Non solo, ma in questo modo - e nel frattempo - sono diventati succubi delle grandi multinazionali dell'agro-alimentare, che, esercitando un controllo oligopolistico mondiale (9), tengono letteralmente per la gola centinaia di milioni di agricoltori in tutto il mondo. È però doveroso specificare che una parte consistente, se non, forse, la maggioranza, di questi agricoltori è costituita da salariati agricoli, il cui livello di sfruttamento nel sistema della piantagione è semplicemente feroce. Per fare un esempio, il crollo del prezzo del caffè ha gettato nella disperazione della fame cinque milioni di famiglie contadine, ma ben sessanta milioni di braccianti, costringendoli ad accettare salari ancora più miserabili e condizioni di lavoro ancor più disumane (10). Ma la caduta del prezzo del caffè è solo un tassello della caduta generalizzata dei prezzi agricoli che prosegue imperterrita da anni, effetto di una sovrapproduzione complessiva delle derrate alimentari, causata a sua volta, dai massicci investimenti in capitale costante cominciata nei decenni precedenti (macchinari, sementi, concimi, pesticidi).

Le politiche neoliberiste, applicate anche da quei governi che si dichiaravano socialisti (?!) - Angola, Mozambico, Etiopia, Somalia, Vietnam, ecc. - hanno poi smantellato tutti gli apparati dello stato che sostenevano la piccola produzione (credito agevolato ai piccoli proprietari, stazioni agro-veterinarie, e via dicendo) aggravando una situazione già difficile. Il deficit alimentare che ne è conseguito, ha costretto ad importare quantità enormi di cereali che hanno contribuito ad ingigantire il debito estero (e relativi interessi), il quale, a sua volta, ha accelerato la demolizione del debolissimo stato sociale, aggravato la miseria e, spingendo all'abbandono o all'iper sfruttamento delle terre, ne ha compromesso la fertilità. In tal modo, le popolazioni sono maggiormente esposte ai capricci meteorologici: siccità prolungate, piovosità eccessiva, non possono più essere considerati solo fenomeni naturali, essendo co-generati dall'irrazionale e famelica sottomissione dell'agricoltura - e dell'ambiente tutto - alle leggi del capitale.

Quindi, per quanto paradossale e illogico possa sembrare - e in effetti lo è - è proprio la sovrabbondanza, la “eccedenza globale dei prodotti cerealicoli” (11) che causa la sottoalimentazione cronica (cioè la fame) di ottocento e passa milioni di persone nel mondo. Non per niente, chiunque si occupi di agricoltura con un minimo di serietà sottolinea come la fame sia dovuta fondamentalmente alle "normali" disuguaglianze della società divisa in classi, tanto nel "Nord" come nel "Sud": nel regno dell'obesità di massa, cioè gli Stati Uniti, il problema di trovare un pasto tutti i giorni tormenta non meno di venti milioni di persone, e sono in crescita, secondo quanto dice il manifesto del 2 novembre scorso. In sostanza, non si muore di fame perché non c'è cibo a sufficienza, ma perché non si hanno i soldi per comprarlo. Infatti, a differenza dei modi di produzione precapitalistci, in cui la morte per fame (delle classi dominate, va da sé) era dovuta a un'effettiva penuria di cibo, è solo quando le leggi del mercato si impadroniscono totalmente dell'agricoltura, che la fame coesiste con l'abbondanza, se non con lo spreco, di alimenti. Le grandi carestie che negli ultimi decenni dell'Ottocento colpirono molti paesi coloniali e la Russia, che proprio allora stava entrando nel vortice del capitalismo mondiale, solo secondariamente erano la conseguenza di eventi naturali:

Sebbene i cattivi raccolti e la penuria d'acqua avessero raggiunto proporzioni drammatiche [...] quasi sempre, le riserve di cereali disponibili nelle altre regioni dei paesi in questione avrebbero permesso di salvare le vittime di quelle siccità [...] Due fattori decidevano, infatti, della sopravvivenza o della morte certa delle popolazioni colpite: da una parte, i nuovissimi mercati delle materie prime e le speculazioni sui prezzi che essi incoraggiavano, dall'altra, la volontà degli stati, più o meno influenzata dalla protesta delle masse. (12)

La sottoalimentazione e la fame che interessavano ampie zone d'Europa ben dentro il ventesimo secolo, avevano origine nei medesimi spietati meccanismi di accumulazione capitalistica:

Gli stessi appartenenti alla generazione degli ultimi anni del secolo scorso [si parla dell'Ottocento, ndr] ricordano che i vecchi della loro infanzia, soprattutto tra la povera gente, rimpiangevano ancora come una specie di età dell'oro perduta l'epoca che aveva preceduta l'unità nazionale, soprattutto per il buon mercato delle derrate sotto il Borbone o l'austriaco. Tutta la storia economica dei primi decenni dell'Italia unita è una storia di lotte delle classi misere contro il crescere del costo della vita, i dazi sul grano, le imposte sul macinato e il farinato e altri moderni oneri che avevano sostituita la fame generale ad una perduta e sia pure esagerata nel ricordo abbondanza di alimento. (13)

Anche oggi è la regola che, mentre intere regioni di una nazione sono violentate dalla fame e dalle malattie ad essa conseguenti, in altre si esportino tranquillamente derrate alimentari destinate ai mercati esteri o, in ogni caso, ai "consumatori solvibili" (14). Gli stessi pelosi "aiuti" alimentari, provenienti in genere dall' "Occidente", in realtà servono per lo più a smaltire le eccedenze agricole, ad arricchire le élites locali che gestiscono gli "aiuti" e a deprimere i prezzi interni delle produzioni agricole, spingendo ulteriormente verso il baratro i piccoli agricoltori. Per non dire, poi, del fatto che spesso l'intervento "umanitario" delle agenzie internazionali è subordinato all'applicazione delle cure del FMI, all'accettazione dei cereali geneticamente modificati (OGM o GM) e all'acquisto di macchinari, sementi ecc., dei paesi che tanto generosamente soccorrono gli affamati (15). Insomma, sono un subdolo e micidiale strumento per assoggettare ancora di più i PVS ai paesi ricchi.

Abbiamo già detto che le borghesie locali sono corresponsabili dirette dello sfruttamento e della fame delle proprie masse diseredate; oltre a ciò, occorre sottolineare come rispolverino l'ideologia terzomondista per coprire le aspirazioni del proprio imperialismo regionale e adescare i riformisti più sprovveduti (che non sono pochi). Si è visto quello che pensano Agnoletto e Bernocchi, ma a fare nomi e cognomi ci pensa la consigliera di Ralph Nader, candidato "radical" alle ultima presidenziali USA, la quale, sul Manifesto del 16 settembre scorso, ha chiarito che il presidente sudafricano "ha persino chiesto aiuto alle organizzazioni anti-WTO". Buono, il Sudafrica! La fine dell'apartheid non ha affatto attenuato il carattere fortemente classista di questa nazione, né tantomeno modificato la tradizionale strategia imperialista tendente ad allargare/consolidare la sua influenza economica, politica, militare nella parte meridionale del continente africano. Anzi, la caduta formale dell'odioso regime razzista ha dato legittimità internazionale alla vecchia borghesia afrikaaner (e a quella nera rampante), che è una delle principali beneficiarie della privatizzazione delle terre più fertili promossa da Angola e Mozambico; nelle terre ex statali impianta grandi aziende agricole, coltivate spesso con semi GM - di cui il Sudafrica è uno dei maggiori produttori - e gestite con sistemi che stanno a metà via tra la servitù della gleba e l'apartheid, in cui i contadini proletarizzati diventati braccianti sono pagati ancor meno di quelli sudafricani (16).

La stessa distribuzione della terra, che era tra i punti qualificanti del programma storico dell'African National Congress, è rimasto, appunto, una delle tante promesse non mantenute (17). Identico discorso si può fare sul Brasile, dove il 65,7% delle terre coltivabili appartiene al 2,8% delle fattorie o, detto in altri termini, l'88,4% delle terre, e tutte le migliori, è del 20% più ricco dei proprietari terrieri (18); anche qui, Lula, per bocca del suo ministro per la riforma agraria, Rossetto, affiliato a una delle multiformi correnti trotskyste, mentre chiede ai contadini senza terra (Sem Terra) di pazientare e di non procedere ad altre occupazioni, taglia drasticamente i fondi necessari alla riforma.

Espandere l'area di influenza nell'Africa meridionale, rafforzare ed estendere il Mercosur in funzione anti-ALCA, promuovendo accordi bilaterali con l'Europa dei Quindici, incunearsi nello scontro tra USA e UE per cercare di trarre il massimo vantaggio: questo è il significato del G21, e non quello di arrestare, se non invertire le tendenze genetiche del capitalismo. L'espropriazione delle comunità agricole e dei piccoli contadini con la violenza aperta o con quella impersonale del mercato, la concentrazione delle terre, a cominciare dalle migliori, nelle mani di pochi - versione agraria della concentrazione e centralizzazione del capitale in generale - hanno sempre accompagnato la vita del capitalismo, dentro e fuori la sua culla europea. Oggi, tutto ciò è particolarmente evidente nei paesi della periferia capitalistica, dove, come si diceva, la "rivoluzione verde" e le riforme agrarie nazionali, hanno prima rallentato, ma poi spinto il processo di proletariz-zazione. L'incremento demografico, che ha frantumato le piccole proprietà, il possesso delle terre meno fertili, la difficoltà di ottenere crediti significativi che potessero far compiere il salto di qualità alla piccola azienda, l'ovvia impossibilità di competere con quelle grandi, ecc., hanno ridotto centinaia di milioni di contadini allo stato di proletari o di appendici angariate delle grandi fattorie. Dal 1960 al 1980, in Brasile 30 milioni di contadini hanno perso la terra, dal 1965 al 1995 in tutta l'America Latina e Caraibica oltre 120 milioni di persone sono state costrette a lasciare le campagne e a trasferirsi nelle immense baraccopoli del continente (19). Discorso identico per Africa e Asia. Nella sola Cina si contano almeno 130 milioni di agricoltori in "esubero". In breve, oggi nel mondo sono circa 500 milioni (e continuano ad aumentare) i contadini senza terra, e 400 quelli che ne possiedono troppo poca per poter vivere appena sopra la soglia della miseria (20).

Sopravvivenze archeologiche: la cosiddetta altragricoltura

In Europa, invece, e in generale nella metropoli capitalista, da tempo i contadini sono quasi scomparsi come categoria sociale (21), pur rimanendo l'agricoltura un settore estremamente importante, anzi, per certi versi strategico. Eppure, una delle anime del movimento no-global è costituta proprio dai movimenti contadini, che hanno in José Bové il loro leader carismatico. Indubbiamente, tra le ragioni del loro successo mediatico c'è l'evidente degrado della qualità dei cibi - se non la loro pericolosità: vedi la mucca pazza - dell'ambiente e della vita nel suo complesso, che favorisce, in mancanza di punti di riferimento classisti, il ciclico rifiorire delle utopie piccolo borghesi.

Ma cosa vogliono questi neo-proudhoniani? Partendo dalla critica all'agricoltura "produttivista" asservita alle grandi imprese dell'agro-alimentare, vorrebbero una ristrutturazione complessiva del settore, che privilegi esclusivamente i piccoli produttori. Bersaglio principale delle loro proteste è il sistema di sovvenzioni che USA ed Unione Europea (ma non solo) concedono alle grandi aziende, spesso multinazionali, e, in genere, alle fattorie di maggiori dimensioni. Ritengono che questi aiuti, in particolare quelli destinati alle esportazioni, abbiano un effetto distorsivo sui prezzi, cioè il dumping, le cui vittime prime, se non uniche, sono i piccoli produttori del "Nord" e soprattutto del "Sud", impossibilitati a reggere la concorrenza di merci vendute sottocosto. Tutte cose indubbiamente vere, tuttavia le sovvenzioni, le "restituzioni" alle esportazioni, ecc., sono un'arma supplementare di cui i grandi capitali dispongono nella concorrenza senza esclusione di colpi che squassa il mercato mondiale; ma il dato di fondo è che, in partenza, il piccolo produttore è destinato a soccombere nello scontro con i grandi, per la schiacciante disparità di forze.

Se anche gli USA e l'UE eliminassero totalmente le sovvenzioni, l'enorme divario di produttività esistente tra grandi e piccoli, tra "Nord" e "Sud" basterebbe (e ce ne sarebbe d'avanzo) a travolgere le deboli strutture produttive di quest'ultimo (e dei piccoli in genere). Tale divario negli ultimi cinquant'anni ha assunto dimensioni colossali; la produttività agricola dei paesi del "Nord"...

che è funzione della motorizzazione (di cui hanno quasi l'esclusiva a livello mondiale) e della superficie di cui ogni azienda dispone, oscilla tra 10.000 e 20.000 quintali di cereali-equivalente per lavoratore e per anno,

mentre i contadini del "Sud", toccati dalla “rivoluzione verde (fertilizzanti, pesticidi e sementi selezionate) anche se poco motorizzata” raggiungono una produttività “che oscilla tra i 100 e i 150 quintali per lavoratore”; per i più poveri, invece, “si colloca intorno ai 10 quintali per agricoltore” (22).

Sempre Amin, sostiene che se cadessero le restanti diroccate barriere che, in vario modo, tengono almeno parzialmente al riparo l'agricoltura della periferia dall'assorbimento totale delle regole del mercato, nel giro di pochi decenni i grandi capitali internazionali potrebbero spazzare via miliardi di contadini e rimarrebbero sul mercato non più di venti milioni di aziende perfettamente in grado di soddisfare la domanda dei "consumatori urbani solvibili". I miliardi di "esuberi" non potrebbero essere assorbiti nemmeno se l'economia crescesse al ritmo sostenuto del 7% l'anno per cinquant'anni filati (23).

Queste cose le vedono sia Amin, sia Bové con tutti i loro compari dell'alter-mondializzazione, ma da buoni riformisti, anzi, reazionari, le alternative che indicano vanno immancabilmente verso progetti di democratizzazione del mercato, di addomesticamento degli istinti selvaggi del capitalismo. E allora, ecco le nuovissime, fiammanti ricette per le osterie dell'avvenire, elaborate solo... quasi due secoli fa, sulla necessità di istituire un mercato equo, sul dovere, da parte degli stati, di far rispettare la democrazia e di garantire prezzi giusti (?!), cioè remunerativi, ai contadini, di proteggere con barriere doganali, nonché con spirito nazional-democratico e solidale, i piccoli produttori dall'avidità delle multinazionali e via dicendo (24). È ovvio che qualsiasi riferimento, anche vago, ad una prospettiva anticapitalista, non solo sia del tutto assente, ma esplicitamente rifiutati (25).

Bové e compagnia sono sì contro le sovvenzioni, ma solo a quelle destinate ai grandi capitali (di gran lunga i principali beneficiari), contestano la PAC, vale a dire la Politica Agricola Comune dell'UE, ma solo (o quasi) perché da una decina d'anni a questa parte ha cominciato a diminuire o, meglio, a indirizzare diversamente gli "aiuti", privilegiando, una volta di più, le aziende più competitive, cioè quelle di maggiori dimensioni. Infatti, per anni l'Unione Europea ha destinato quasi la metà del proprio bilancio complessivo all'agricoltura, utilizzandolo sia come ammortizzatore e stabilizzatore nei confronti di un settore della società che altrimenti sarebbe stato spazzato via (26), sia soprattutto come sostegno al grande capitale agro-alimentare propriamente detto e, indirettamente, industriale, per esempio quello delle macchine agricole. Anche per questo risulta alquanto bizzarra la tesi sostenuta in certi ambienti, secondo la quale l'agricoltura sarebbe ormai semplicemente un "servizio" alla società, essendo un settore improduttivo di plusvalore, perché abbondantemente sovvenzionata dagli stati. Con questo metro, gli operai della John Deere o della FIAT Trattori e di tutti gli altri comparti industriali, non produrrebbero più una goccia di plusvalore e non si capirebbe da dove si originerebbe il profitto.

Ma per tornare a noi, si diceva che dal 1992 in poi la PAC ha progressivamente spostato gli aiuti dalla "scatola rossa" alla "scatola verde" ossia dal sostegno diretto ai prezzi e alla produzione, a quello legato alla superficie coltivabile dell'azienda, indipendentemente dal fatto che questa produca o meno. Non ci vuol molto a capire che più grande è l'azienda, più grosso è l'aiuto ricevuto, e che questo intervento inasprisca le difficoltà dei piccoli agricoltori, accelerandone la crisi (27). Lo stesso Bové, nel suo libro-manifesto, richiama la progressiva e costante diminuzione tanto dei contadini quanto degli allevatori piccoli e medi, assorbiti e/o eliminati dai grandi allevatori, che, esattamente come il capitale industriale, delocalizzano gli allevamenti-lager nell'Est europeo o nel "Terzo Mondo", dove non esistono norme igienico-sanitarie degne di questo nome, né per gli animali né per i lavoratori, che, oltre tutto, sono pagati pochissimo (28). È la faccia "occidentale" del medesimo processo che nei paesi in via di (sedicente) sviluppo assume aspetti tragici: in Oriente, i suicidi dei contadini cacciati dalla terra, ridotti alla fame sono migliaia ogni anno.

Alle utopie rurali alter-mondialiste si può e si deve dunque rivolgere la stessa obiezione che rivolgiamo alle loro sorelle gemelle urbane del sindacalismo "di base": se i contadini avessero la forza di infilare guinzaglio e museruola alle multinazionali agro-alimentari, se riuscissero - magicamente - a creare un capitalismo dove regnano campicelli, armonia e giusto prezzo, perché non eliminare direttamente il capitalismo medesimo? Questa è l'insolubile contraddizione primaria, da cui discendono le altre non meno stridenti, a cominciare da quella delle sovvenzioni: no alla "scatola verde", no alle multinazionali, perché si ingrassano col contributo improprio dei cittadini, sì ai contadini legati al territorio, all'agriturismo (29), al "prodotto genuino".

Ma anche a sforzarsi, non si capisce con quale logica, se non abbandonandosi alla fede cieca nel superiore valore etico (?!) del "piccolo", perché i "cittadini", cioè i proletari, dovrebbero finanziare attraverso le tasse i produttori di cibi e svaghi di cui godono quasi esclusivamente i borghesi. Inoltre, dato che, come si è già accennato, i "contadini" chiedono esplicitamente la costituzione di mercati nazionali o addirittura regionali iperprotetti dai prezzi agricoli internazionali decisamente più bassi (30), non si capisce nemmeno come il capitale industriale potrebbe accettare un generale rialzo dei prezzi agricoli e delle materie prime, che si ripercuoterebbe inevitabilmente sui salari, se non intensificando a livelli pazzeschi lo sfruttamento. Infine, se si volesse completare il quadro di questo "paradiso in terra", bisognerebbe tra-sferire ricchezze incalcolabili dal "Nord" al "Sud", per consentire alle masse sterminate di contadini miserabili di raggiungere il tenore di vita del "Nord", per liberare la donna, vero animale da soma agricolo e casalingo, da una vita di abbrutimento fisico e oppressione senza speranza. E tutto questo si dovrebbe ottenere alleandosi con Lula, il Sudafrica o immettendo massicce dosi di democrazia negli organismi internazionali e nell'Unione Europea, la cui intransigenza all'invasione degli OGM targati USA ispira le arditezze tattico-strategiche di non pochi new-global.

In realtà, anche per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, il deciso rifiuto degli OGM da parte europea deriva sia dalla legittima diffidenza che anima l'opinione pubblica del vecchio continente, sia, soprattutto, dal fatto che gli Stati Uniti sono pressoché monopolisti mondiali degli organismi GM (31) e aprire loro le porte vorrebbe dire mettere l'agricoltura europea nelle mani del rivale imperialista a stelle e strisce. Infatti, non solo molte varietà di piante GM sono sterili, cioè, una volta raccolte è impossibile seminarne i semi, ma queste colture hanno bisogno di fertilizzanti e pesticidi specifici, che possono essere forniti esclusivamente dalle multinazionali americane. Anche per questo motivo, quindi, in Europa c'è maggiore informazione su una questione così controversa: se il capitale agro-alimentare europeo avesse grossi interessi nel settore degli OGM, sicuramente assisteremmo pure qui a campagne mediatiche in favore della loro adozione o al solito assordante silenzio che soffoca regolarmente altri problemi di enorme rilevanza sociale, esattamente come negli Stati Uniti. Senza contare, infine, che proprio dagli USA viene la maggior parte delle imitazioni dei prodotti di qualità europei (formaggi, vini, salumi, ecc.) che fanno concorrenza sleale a un settore in forte crescita - benché riservato per lo più alla borghesia - sul mercato americano.

Conclusioni

Nel suo percorso lungo un secolo e mezzo, il movimento rivoluzionario ha periodicamente dovuto combattere sul piano teorico, politico, fino a quello militare, contro utopie reazionarie espressione di un passato, forse romantico, che non voleva morire, di smarrimenti ideologici e insicurezze sociali generati dagli sconvolgimenti che il procedere del modo di produzione capitalistico porta inevitabilmente con sé. Non per niente Bové si ispira alle comunità di artigiani-operai orologiai del Giura svizzero (32), ormai avviate sulla via dell'estinzione, che negli anni '70 dell'Ottocento costituirono una delle principali roccaforti dell'anarchismo in lotta contro la Prima Internazionale diretta da Marx ed Engels. La nettezza con cui l'energico contadino francese si richiama a quella esperienza è pari alla pacchiana superficialità e grossolana approssimazione con cui descrive il marxismo.

Così come le argomentazioni di tutti i moderni sostenitori della piccola proprietà contadina quale unica, nonché superiore, alternativa all'agricoltura industrializzata, sono grosso modo le stesse che Lenin demolì brillantemente un secolo fa, nella battaglia politica contro i teorici populisti e conservatori (33). Ma il fatto che le ricette dell'avvenire piccolo borghesi siano state sconfitte una volta, non significa affatto che siano state sconfitte per sempre. Come ci dimostra l'evidenza. L'avvenire dell'umanità non sta certo né nell'iperproduttivismo che tutto avvelena, intossica e distrugge sull'altare del profitto, né nella squallida mediocrità del "piccolo è bello", che è anche impossibile. Solo spezzando i ceppi della proprietà, della merce, del denaro, gli esseri umani potranno mettersi sulla strada di un mondo realmente migliore e liberare il "pianeta vivente" dall'incubo del collasso ecologico.

Celso Beltrami

(1) Su queste questioni vedi, per esempio, il numero 7/2003 di questa stessa rivista.

(2) Vedi GS, "Dalla Resistenza a Marcos. Miti vecchi e nuovi contro il mutamento", in Battaglia Comunista n.11/2003.

(3) Il cosiddetto G21 comprende, tra gli altri, Brasile, Sudafrica, India, Cina.

(4) Il manifesto,16 settembre 2003.

(5) Vedi la dichiarazione di P. Bernocchi in cobas-scuola.org

(6) L. Castellina, "Il WTO a Cancun: un'oligarchia in crisi?", in Rivista del manifesto, n.42, settembre 2003, pag.55.

(7) Vedi, il manifesto del 16 settembre 2003 e unimondo.oneworld.net

(8) M. Chossudovsky, "Globalizzazione della povertà e Nuovo ordine mondiale", Torino, Edizioni Gruppo Abele,2003, pag.22.

(9) M. Ricci, "Le dodici 'sorelle' che decidono il futuro del Terzo mondo", La Repubblica,23 agosto 2002.

(10) M. Dinucci, "Le conseguenze sociali del crollo del prezzo del caffè", aprile 2002, in zanichelli.it

(11) M. Chossudovsky, cit., pag.132; per citare alcune altre fonti: P. de Muro, "La centralità dell'intervento pubblico" in Rivoluzioni, mensile di liberazione del giugno 2002; M. Dinucci, "Il problema alimentare", in "Il sistema globale 2002", Bologna, Zanichelli, pagg.104 - 107; M. D'Eramo, "Il medico indiano. Il surplus va tutto all'estero,300 milioni di persone sono denutrite", in il manifesto,27 febbraio 2001.

(12) M. Davis, "Le carestie coloniali, genocidio dimenticato", in Le Monde diplomatique, aprile 2003. Ma, prima ancora, vedi le pagine del Libro primo del Capitale di Marx sulle carestie in Irlanda e in India o le non meno appassionate e sferzanti pagine di Rosa Luxemburg ne "L'accumulazione del capitale".

(13) A. Bordiga, "Mai la merce sfamerà l'uomo", Milano, Iskra,1979, pag.218.

(14) "Oggi la produzione indiana è superiore a quella che il paese può assorbire agli attuali livelli del potere d'acquisto. Noi non produciamo abbastanza per il nostro fabbisogno alimentare, ma produciamo più di quanto la gente di questo paese può permettersi di comprare", cit. in M. D'Eramo.; vedi anche M. Chossudovsky, cit., i capitoli dedicati all'Etiopia, alla Somalia, al Vietnam, al Ruanda.

(15) M. Chossudovsky, cit., pag.179.

(16) M. Chossudovsky, cit., pagg.168 - 169.

(17) C. Braeckman, "In Sudafrica, tra i contadini dimenticati", in Le Monde diplomatique, settembre 2003.

(18) S. Morandi, "Chi mangia e chi no", in Rivoluzioni, cit.; M. Dinucci, cit., pag.106.

(19) M. Dinucci, cit., pag.72.

(20) M. Dinucci, cit., pag.71

(21) Secondo M. Correggia nell'intervista a P. Rosset, il manifesto 23 giugno 2002, i "farmers" americani sarebbero solo 900.000; "In Francia i contadini rappresentano solo il 2% della popolazione", in J. Bové - F. Dufour, "Il mondo non è in vendita. Agricoltori contro la globalizzazione alimentare", Milano, Feltrinelli, seconda edizione ampliata,2001, pag.204.

(22) S. Amin, "Il WTO a Cancun: Una proposta alternativa", Rivista del manifesto, n.42, settembre 2003, pag.56.

(23) Ibidem.

(24) Vedi: Amin, Bové - Dufour citati; J. P. Stedile, leader dei Sem Terra brasiliani, in Rivoluzioni, cit.; Foro Contadino - Altragricoltura, "Sovranità Alimentare dei Popoli: facciamola funzionare!" in altragricoltura.org

(25) "senza dubbio la contraddizione principale non è tra contadini poveri e contadini ricchi che hanno la possibilità di dare lavoro a braccianti agricoli, ma tra l'insieme dei contadini del Larzac e l'esercito, quindi lo stato", in Bové - Dufour, cit., pag.46. Si riferisce alla lotta contro l'estensione di una base militare nella regione del Larzac a cui partecipò, tra gli altri, Bové.

(26) Non per niente i contadini sono sempre stati la riserva elettorale dei partiti conservatori, come la DC in Italia.

(27) J. Berthelot, "L'impatto della riforma della PAC in seno all'Unione Europea e sui paesi in via di sviluppo",17 luglio 2003 in altra-gricoltura.org

(28) M. Correggia, "Quando il pollo arriva dal Brasile", il manifesto,22 giugno 2002; Bové - Dufour, cit., pagg.112-113.

(29) Bové - Dufour, cit., pagg.123-124.

(30) Bové - Dufour,cit., pag.158, ma tutto il libro è percorso da questa "filosofia"; vedi anche, Foro Contadino..., cit.

(31) M. Dinucci, "Gli organismi geneticamente modificati", aggiornamento de "Il sistema globale 2002", in zanichelli.it e M. D'Eramo, "Il continente da modificare", il manifesto,27 agosto 2002.

(32) Bové - Dufour, cit., pagg.129-130.

(33) Lenin, "la questione agraria e i 'critici di Marx' ", in "Scritti Economici", Roma, Editori Riuniti,1977.

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