Il declino degli Usa alle origini della guerra - La borghesia s'interroga sul proprio futuro

Il 9 aprile scorso è stato riportato sul Sole 24 ore un interessante articolo di Jeffrey D. Sachs dedicato al declino americano. Lo vogliamo commentare perché mette in luce i gravi problemi che deve affrontare la borghesia americana e aiuta a comprendere la protervia della sua politica estera sempre più propensa a dirimere qualsiasi questione con la forza militare. Sachs inizia mettendo in evidenza come la forza degli 11 mila miliardi di dollari di reddito nazionale consentirebbero agli Usa di affrontare senza sforzo, spendendo una piccola frazione del denaro speso nella guerra contro l'Irak, nella lotta contro le terribili malattie che oggi devastano il mondo e soprattutto nelle aree meno sviluppate. Al contrario, egli commenta, essi sono il paese che offre ai paesi poveri l'assistenza finanziaria più bassa tra tutti i paesi industrializzati. Di contro il budget militare annuale, più o meno pari a quello di tutto il resto del mondo, è di 450 miliardi di dollari, un budget sostenuto dall'amministrazione Bush che lo ritiene indispensabile per combattere il terrorismo e garantire la sicurezza interna. Sachs, critico nei confronti del governo americano, rileva come gli obiettivi, nonostante l'enorme sforzo finanziario, sono alquanto lontani dall'essere raggiunti. Egli passa poi ad analizzare i motivi per i quali il declino della superpotenza nei prossimi anni è cosa quasi inevitabile. Li elenchiamo sinteticamente: 1°) il deficit federale ha raggiunto i 500 miliardi di dollari l'anno e costringerà presto il governo, qualsiasi esso sia dopo le elezioni di novembre, a tagliare le spese, soprattutto quelle militari che con la presidenza Bush sono salite di 150 miliardi di dollari l'anno; 2°) gli Usa sono indebitati con il resto del mondo e in particolare in Asia dove il Giappone ha accumulato riserve valutarie pari a 750 miliardi di dollari sotto forma di titoli di stato americani e Cina, Hong Kong, India, Corea e Singapore ne hanno altre pari a 1.100 miliardi di dollari; in pratica gli Usa vivono grazie ai crediti di tutto il mondo e sono pericolosamente esposti agli umori politici dei paesi creditori; 3°) la leadership tecnologica americana sarà seriamente minacciata nei prossimi anni dal resto del mondo e dai paesi emergenti, in particolare da Cina, India e Brasile. Inoltre, agli attuali tassi di sviluppo, la Cina avrà un prodotto interno lordo uguale a quello americano già intorno al 2025 e l'India nel 2050. Questi due paesi, con il 40 % della popolazione mondiale, avranno sulla scena globale un ruolo sempre più grande; 5°) il gruppo che oggi costituisce la base sociale del potere americano, quello di razza bianca non ispanica e di religione cristiana, è numericamente in declino dato che oggi costituisce il 69% di tutta la popolazione e nel 2050 scenderà, secondo le previsioni dell'Us Census Bureau, al 50%.

L'analisi è indubbiamente interessante e mette in risalto la profonda inquietudine con cui la borghesia americana guarda il suo futuro. Anche se Sachs osserva il capitalismo americano con una visuale ben diversa dalla nostra e conduce un'analisi del suo declino metodologicamente divergente rispetto a noi, il suo articolo mette ben in evidenza i gravissimi problemi che l'imperialismo americano è costretto, fin da oggi, ad affrontare. Ciò dimostra che è da tempo avviato il dibattito interno alla borghesia americana per definire le linee strategiche con le quali affrontare la prossima fase e che almeno in una parte di essa c'è una grande consapevolezza della dimensione dei problemi da risolvere, problemi che mettono in gioco la stessa sopravvivenza del comando americano sul mondo.

Noi più volte abbiamo ribadito che l'interventismo militare americano ha origine nella sua crisi economica e nei problemi strutturali del suo capitalismo; crisi aggravata da ulteriori fattori tra i quali possiamo inserire quelli descritti sopra. Abbiamo sempre evidenziato come la borghesia americana abbia deciso di affrontare il suo declino con la forza delle armi imponendo nei punti strategici del mondo la sua legge, il suo dominio e la sua violenza. Innanzi tutto nei gangli della produzione e distribuzione del petrolio perché da qui nasce e si sviluppa la rendita finanziaria americana, ormai strutturalmente necessaria a sostenere il suo capitalismo. Non possiamo certo ripercorrere in questa sede l'analisi fatta sui meccanismi di appropriazione della rendita da parte degli Usa. Ci preme solo ricordare che la guerra in Irak, come le precedenti guerre degli ultimi decenni, sono sempre state messe da noi in relazione alla necessità della borghesia americana di fronteggiare una crisi ormai non più governabile con altri mezzi e, con uno slogan, abbiamo affermato che per il capitalismo si è avviata la fase della guerra permanente mettendo in risalto con questa frase il carattere strutturale e irreversibile della crisi capitalistica.

Accanto a ciòè altrettanto significativa l'ipocrisia del dibattito politico ufficiale e in particolare di quello della sinistra che mettono in primo piano tra i motivi dell'intervento militare americano quello della liberazione del paese dalla tirannia di Saddam Hussein e della sua transizione alla democrazia. Mentitori! Non uno che abbia evidenziato quello che ormai è sotto gli occhi di tutti: in Irak gli americani sono intervenuti solo per mettere le mani sul paese che possiede, dopo l'Arabia Saudita, i giacimenti petroliferi più importanti del mondo, per mettere le mani cioè su delle riserve petrolifere che sono fondamentali per il suo approvvigionamento energetico. Altro che impegno per la democrazia, altro che sostegno al martoriato popolo irakeno, altro che lotta contro la tirannia di Saddam e altro che lotta per eliminare le armi di distruzione di massa che, oggi è emerso in modo indiscutibile, non sono state mai prodotte in Irak! Altrettanto menzognero è il dibattito sulla formazione di un governo locale di tipo democratico; in realtà da una parte c'è la borghesia americana che vuole imporre al popolo irakeno un governo fantoccio asservito ai suoi interessi e dall'altra c'è quella europea, capeggiata da Germania e Francia e buona parte di quella araba che sta tentando di mettere i bastoni tra le ruote agli americani puntando su soluzioni politiche, mediate dall'Onu, più favorevoli ai loro interessi. In tutto ciò, il disgraziatissimo popolo irakeno è solo un ostaggio sballottato e martoriato dagli interessi delle potenze capitalistiche mondiali.

CL

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.