Da Reagan ai giorni nostri - 25 anni di batoste per il proletariato statunitense

"L'homo economicus è egoista, spietato, spregiudicato. Proprio su questi difetti-qualità fa leva l'economia di mercato per produrre". Evviva perciò "l'America di Reagan, indifferente alle pene degli umili, sorda ai gridi di dolore dei diseredati, ma dove però entrambi trovano un posto di lavoro"... Il coro plaudente si alzava allora dai pennivendoli delle maggioranza silenziose! (M. Cervi, uno fra i tanti, su un vecchio numero di Gente), estasiati dalla "severità, rigore e austerità " delle virtuose lezioni provenienti dalla felice e prospera America governata dal cinematografico cowboy texano. Col trascorrere del tempo anche quella "straordinaria politica economica, capace di sollevare l'irresistibile marea della ripresa americana in una esplosione di giovanile vitalità del Paese" (ancora il Cervi) avrebbe mostrato la realtà dei suoi contenuti e dei suoi risultati. La ripresa economica finì ben presto col riprodurre, a scala maggiore, i medesimi problemi caratterizzanti i cosiddetti periodi recessivi. Non solo, ma chi volesse sfogliare le statistiche della Federal Reserve, constaterebbe come da Reagan prese il via un'altra lunga recessione. Grazie alla politica fiscale reaganiana, cominciò ad aprirsi nel bilancio statale un deficit sempre più incolmabile. Abbattendo l'aliquota fiscale sui redditi più elevati, dal 70 al 28%, e riducendo l'imposta sul reddito delle società dal 46 al 34%, con l'inevitabile diminuzione della spesa sociale destinata al proletariato aumentò la distanza tra classe operaia e classe borghese, peggiorando anche le condizioni di esistenza dello stesso ceto-medio. Fra l'altro, a proposito di posti di lavoro, nell'arco della predidenza Reagan la disoccupazione si arrestò, sì, ma su una media del 7,5%. A proposito di fisco, anche gli ultimi risultati della Bush Tax (leggi approvate dal Congresso Usa tra il 2001 e il 2003 per tagliare le tasse) avrebbero dovuto essere una crescita sia dell'economia sia dell'occupazione, quest'ultima prevista con un aumento di 5,5 milioni di nuovi posto lavoro dalla primavera 2003 alla fine del 2004 (306.000 posti come media mensile). Ennesima cantonata degli esperti: in un anno sono già scomparsi 2 milioni di posti lavoro rispetto alle promesse di Bush, che da 3,4 milioni sono scesi a 1,4 milioni (dati Economic Policy Institute - EPI). A denti stretti oggi si ammette la perdita, negli ultimi 5 anni, di 3 milioni di posti lavoro a cui si aggiungeranno nei prossimi anni - soprattutto nei servizi - altri 3,5 milioni. Se calcoliamo gli incrementi demografici, in Usa ancora piuttosto alti (2,2 milioni di individui all'anno), è evidente che il mercato del lavoro dovrebbe proporzionalmente allargarsi e il numero degli occupati crescere. Poiché la riforma fiscale in atto costerà tra gli 800 miliardi e un trilione di dollari in 10 anni (secondo varie stime) cioè dollari in meno nelle casse statali, ne consegue un'ondata di tagli ai servizi sociali, alla pubblica manutenzione, con l'aumento delle tasse locali, conseguenti alla riduzione dei trasferimenti da parte del governo federale. Tutto si abbatterà sul 60% degli americani a basso reddito, sugli umili e i diseredati che il capitalismo, anche dopo la straordinaria politica economica reaganiana, non riesce più a sfruttare e mantenere. Cambiano i presidenti, ma non i risultati.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.