Il terremoto politico boliviano

Il cocalero Morales apripista della rivoluzione proletaria?

Grande movimento nel giardino di casa dell’imperialismo statunitense, che non può non guardare con apprensione quanto sta succedendo fuori dall’uscio.

Da qualche anno a questa parte, nel Cono Sur del continente americano non sono più le guerriglie a turbare i sonni degli “yankees”, ma la progressiva sostituzione di governi servili con altri che, in vario modo, tendono a mettere in discussione i più che secolari rapporti di sottomissione dei paesi latinoamericani nei confronti del super-brigante a stelle e strisce. Dal Venezuela all’Argentina, i cambiamenti sono avvenuti nel pieno rispetto della democrazia borghese e non sulla spinta di insurrezioni armate, il che rende inutilizzabile - o fa perdere di efficacia - l’accusa di sovversivismo e terrorismo con cui l’imperialismo nordamericano qualificava i movimenti politici di opposizione dei decenni scorsi e giustificava le sanguinose intromissioni negli affari interni dei paesi presi di mira. Non solo, sebbene le forze politiche “di sinistra” per giungere al governo abbiano messo l’accento - nella propaganda elettorale - sulla necessità di correggere le politiche neoliberiste che hanno devastato l’America Latina, per quanto riguarda le misure da adottare nei confronti delle multinazionali e, in generale, degli interessi USA, assumono un tono ben più prudente, per esempio, di un Allende, il cui tentativo di nazionalizzare le proprietà di alcune multinazionali nordamericane diede il via definitivo al bagno di sangue eseguito dal macellaio Pinochet. Chi più chi meno, questi governi fanno sì la voce grossa con le istituzioni del banditismo finanziario internazionale (FMI, BM, ecc.), ma non ne mettono in discussione la legittimità, né, tanto meno, i meccanismi di fondo.

Lo stesso vale, naturalmente, per il neo-eletto presidente boliviano Evo Morales (e il suo partito: Movimento Al Socialismo, MAS), che il solito trotskysta bisognoso d’occhiali scambia per apripista della rivoluzione proletaria.

È indubbio che l’ascesa dell’ex sindacalista dei poverissimi contadini “cocaleri” (coltivatori di coca, non spacciatori di cocaina!) sia l’espressione di un profondissimo malessere sociale, tanto che per la prima volta un “indio” aymara è giunto ai vertici dello stato in un paese in cui gli “indios” (il 70% della popolazione) sono confinati nei gradini più bassi della scala sociale e disprezzati dalle élites bianche. È dunque certamente vero che dietro la vittoria di Morales ci siano le vaste mobilitazioni contro le privatizzazioni (in primo luogo, il gas) a favore di grandi società estere e di settori della borghesia boliviana, o i duri scontri di classe, nei quali, come al solito, i minatori sino stati la punta avanzata, ma questo non significa che col nuovo governo si siano poste le premesse per un cambiamento radicale in senso anticapitalista. Il programma di governo riprende e rilancia la vecchia strategia della “sinistra” piccolo-borghese latinoamericana che scambia la lotta contro la secolare invadenza dell’imperialismo statunitense per antimperialismo, che si illude (e illude) sulle possibilità di avviare finalmente uno sviluppo economico “autocentrato” della Bolivia e di tutta l’America Latina. Non a caso, Morales ha più volte ribadito che vuole essere il presidente di tutto il popolo boliviano, anche di quella borghesia industriale non sempre o non del tutto soddisfatta delle selvagge politiche neoliberiste che hanno permesso ai colossi finanziar-industriali stranieri di saccheggiare le risorse della Bolivia realizzando così profitti favolosi. D’altra parte, eventuali slanci “anticapitalisti” saranno tenuti a freno dal vicepresidente Garcia Linera, il cui partito (Movimiento Sin Miedo) è indispensabile al MAS, che in parlamento può contare solo su una risicata maggioranza. Tanto per dare un’idea di che pelo vada vestito, il MSM aveva appoggiato le privatizzazioni avanzate dai precedenti governi. Questi DS in salsa boliviana di sicuro contribuiranno non poco a gettare acqua sugli entusiasmi di milioni di proletari e diseredati boliviani, i quali sperano che un presidente uscito dalle loro file (Morales è figlio di minatori) possa riscattarli da una vita di miseria e umiliazioni. Purtroppo, non sarà così: gli spazi per una politica riformista che attenui le abissali distanze di classe sono molto stretti. Per esempio, il rispetto del debito estero - annunciato da Morales - di per sé è una pesante ipoteca a qualsiasi progetto, per quanto timido, di redistribuzione della ricchezza.

Certo, rimane la via della progressiva riappropriazione delle risorse nazionali, anche nella forma della loro nazionalizzazione, una via condivisa da settori più o meno ampi della borghesia boliviana e latinoamericana. Ma è una via piena di ostacoli, perché deve fare i conti, prima di tutto, con lo Zio Sam, e con quei segmenti di borghesia ad esso intimamente legati da interessi materiali e lunga tradizione storica.

Eppure, un percorso di tipo europeo - a questo si riduce, in fondo, il sogno bolivariano - ossia la costituzione di un fronte borghese anti-yankee, è la strada “obbligata” da percorrere, se la borghesia del “giardino di casa” vuole smettere di recitare la parte di servo fedele del suddetto Zio.

A meno che, l’enorme potenziale proletario non ritrovi la propria autonomia e sparigli le carte; ma senza la presenza operante del partito di classe è cosa altamente improbabile... Per questo, in Bolivia, come ovunque, si pone con drammatica urgenza il problema della assenza/costituzione del partito rivoluzionario. $ cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.