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Home ›La vittoria di Hamas alle elezioni in Palestina
Le ragioni della vittoria e le prospettive per i proletari palestinesi
I dati parziali, quelli definitivi arriveranno verso la metà del mese di febbraio, mostrano la schiacciante vittoria di Hamas. La vittoria, 75 seggi su 132, più del 50% dei voti, era ampiamente annunciata. Le ragioni della vittoria sono individuabili in una serie di fattori che vanno a comporre la supremazia politica della forza integralista, nata nel 1987 nel corso della prima intifada, e le debolezze che hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni di vita di Al Fatah.
Lo scenario all’interno del quale Hamas ha costruito il suo percorso politico, farcito di nazionalismo combattente, di violenza integralista e di visioni politiche teocratiche, è rappresentato dal fallimento di tutte le prospettive di rientrare in possesso dei territori occupati, dagli accordi di Camp David a quelli di Washington, compreso l’ultimo proposto dal vecchio partito di Sharon, che nei fatti ha disegnato con un muro di cemento i possibili futuri confini di un’area palestinese, in termini favorevoli solo allo stato di Israele, che si può sintetizzare nella frase, “cediamo Gaza per avere mano libera in Cisgiordania, salvaguardando i più importanti insediamenti, il controllo delle acque, i possibili confini ben distanti da quelli disegnati dalla green line”. Ha inoltre costruito il suo consenso fornendo tutto ciò che Al Fatah e l’Anp non hanno saputo o voluto fornire alle masse palestinesi. Quel poco di stato sociale che poteva essere fatto: le pensioni alle vedove di guerra, scuole e asili per l’infanzia e un minimo di assistenza sul territorio. Mentre l’Anp i soldi se li mangiava, la dirigenza di Hamas ha investito quanto arrivava, e arriva tuttora dall’Arabia saudita, dall’Iran e dalla Siria, innanzitutto in armi e munizioni, che non sono mai mancate, in investimenti per l’addestramento militare, ma le briciole le ha convogliate verso una politica di sostentamento della popolazione con il dichiarato scopo di battere la concorrenza dell’inefficienza laica di Al Fatah. Con il controllo delle Madrasa (scuole coraniche) ha trasformato il sentimento religioso e di frustrazione politica e sociale in strumento di reclutamento politico. Centinaia di migliaia di giovani disoccupati, di lavoratori precari, migliaia di famiglie che sopravvivono in qualche modo alla miseria, hanno ceduto alle sirene dell’integralismo nell’illusione che fosse l’unica via di salvezza alla fame e allo sfruttamento economico che, peraltro, agli occhi di questi disperati, senza nessuna guida politica di classe, risultava essere il minore dei mali. Negli ultimi anni, molti sono stati gli scioperi nella striscia di Gaza e nei maggiori centri palestinesi per il lavoro e le pessime condizioni di vita, molte le manifestazioni contro l’inefficienza e la corruzione dei dirigenti dell’Anp. Dietro tutte queste manifestazioni c’è sempre stata la struttura organizzativa di Hamas e del suo braccio armato, Ezzedin al Kassam che ha avuto facile gioco nel confronto con Al Fatah, orfana, oltretutto del suo carismatico capo, che solo la morte lo ha strappato dal potere così a lungo rincorso e gestito.
Ora, dopo la vittoria elettorale, per Hamas, arriva il tempo della gestione di una fase senza molte prospettive sia nel breve che nel lungo periodo. Tra le contraddittorie dichiarazioni rilasciate dai suoi maggiori esponenti, spiccano quelle relative all’atteggiamento da tenere nei confronti dello stato di Israele: Non abbiamo in agenda né il riconoscimento dello stato di Israele, né la cancellazione dal nostro statuto della sua distruzione. Poco prima delle elezioni il discorso era leggermente diverso: via le truppe di occupazione dai territori palestinesi e poi si vedrà. Sul futuro istituzionale la contraddizione emerge ancora più chiaramente_: prima di tutto operiamo per la nascita dello stato palestinese, poi verrà indetto un referendum per il suo assetto laico o islamico e ci atterremo alla volontà popolare._ Con ben altra enfasi, alcuni dirigenti di Hamas, nella convinzione che il loro futuro governo sarà pesantemente boicottato dalle maggiori potenze internazionali, hanno espresso la loro perplessità. Se solo i sauditi e l’Iran di Ahmadinejad dovessero schierarsi con Hamas e continuassero a sovvenzionarlo con finanziamenti e armi, non ci sarebbe nessun referendum, il governo e il futuro stato sarebbero all’insegna della Sharia e di tutto il bagaglio integralista del caso, immersi in un bagno di fanatico nazionalismo fondamentalista, sulla scorta di quello iraniano o di ispirazione talebana. C’è anche un’altra variabile, quella della Jihad. Quest’altro movimento integralista, che non si è presentato alle elezioni, potrebbe rappresentare un ulteriore elemento di perturbazione all’interno dello stesso schieramento islamico, a meno di accordi di sottopotere nella organizzazione del nuovo governo.
Per chi, dai campi profughi, dai villaggi ghetto, dalla quotidiana disperazione dovuta alla fame, alla miseria, alla mancanza di lavoro, il 50% dei palestinesi che vive nei territori è disoccupato, ha pensato che la vittoria elettorale di Hamas fosse l’inizio della soluzione dei problemi, dovrà ricredersi. Se la fazione borghese legata ad al Fatah di Arafat prima e di Abu Mazen poi, ha dimostrato di pensare solo ai propri interessi commerciali e finanziari, politicamente vivendo alla giornata, costruendosi attorno un alone di inefficienza sociale e di pragmatica corruzione a tutti i livelli, la frangia borghese rappresentata da Hamas, pura e dura, sarà una mannaia sulla testa dei lavoratori palestinesi. È nel dna dell’integralismo considerare il rapporto capitale lavoro nei termini più vincolanti possibili. Se mai si verificasse, cosa più impossibile che improbabile, un decollo, sia pur minimale, di un abbozzo di economia nei territori occupati, la legge del capitale sarà oltremodo ferrea. Non ci sarà spazio nemmeno per deboli rivendicazioni salariali, i sindacati saranno messi al bando, gli scioperi messi fuori legge, i diritti civili inesistenti, come si conviene ad un regime teocratico che dal feudalesimo islamico ha ereditato il diritto divino e dal moderno capitalismo la fame del profitto, come nell’Afghanistan dei talebani o nell’Arabia saudita del Wahabbismo, il tutto nelle più assoluta mancanza di qualsiasi organizzazione di classe, che qualora esistesse, verrebbe messa all’indice come il peggiore dei nemici.
fdBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 2006
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