Una crisi di governo guidata per continuare ad attaccare i proletari

Un passo indietro per Prodi, due passi in avanti per la borghesia italiana

Chi pensava che la caduta del governo Berlusconi, con la relativa salita al potere della sinistra, risolvesse i problemi sul tappeto e aprisse una fase di minori sofferenze per i lavoratori, è stato servito. Il governo di centro sinistra, chiamato a gestire economicamente e politicamente la squassata società italiana, non poteva che continuare il lavoro sporco che la destra aveva timidamente iniziato a fare nella seconda metà del suo mandato. La linea di continuità era inevitabile e solo l’illusione, o peggio ancora la mala fede, potevano creare delle aspettative che si sarebbero inesorabilmente infrante contro le pressanti necessità del capitalismo italiano.

L’annunciata, e momentaneamente rientrata, crisi dell’esecutivo Prodi suggerisce tuttavia alcune considerazioni.

La prima è che qualsiasi alternanza parlamentare, maggioranza di governo, larga o risicata che sia, deve fare i conti con il quadro capitalistico che l’incornicia. Per arrivare al potere si possono raccontare tutte le storie di cui si è capaci, fare le promesse che elettora-listicamente appaiono le più opportune, per gestirlo occorre la capacità di assecondare al meglio i bisogni economici del capitale, fare tutte le mosse che gli necessitano, senza nulla concedere a quello stesso pubblico di sudditi a cui strumentalmente si è chiesto il voto. La crisi del governo Prodi non è nei numeri, peraltro miseri, ma nella difficoltà di amministrare la gravità della situazione economica senza riempire le piazze della protesta dei lavoratori, come la borghesia gli chiede. Compito certamente difficile, tanto difficile da creare al primo intoppo baratri di scompensi parlamentari, di ingoverna-bilità dopo solo nove mesi di gestione politica.

La seconda risiede nel fatto che, una volta prodottasi la crisi, il governo Prodi ha colto l’occasione per fare quadrato attorno al suo programma, richiamando all’ordine Verdi, Comunisti italiani e Rifondazione e aprendo al centro, non soltanto per avere numeri certi in Parlamento ma, soprattutto, per proseguire quel cammino economico che il capitale gli chiede con insistenza. Non confonda l’enfasi parolaia dei cosiddetti sinistri in termini di programmi economici e di politica internazionale. Al dunque hanno sempre abbassato il tiro adducendo un abusato senso di responsabilità per non far cadere il governo, altrimenti recitano, si riconsegnerebbe il paese in mano alle destre. Ma che sinistra è quella che, pur di rimanere al potere, fa il lavoro che farebbe la destra se fosse essa a gestirlo? La risposta è semplice, non è una questione di destra o sinistra, ma di opportunità e di necessità che il capitalismo impone, e di capacità delle forze politiche di gestirle al meglio, possibilmente senza inferocire chi tutto questo lo deve pagare.

Ed ecco che, come per incanto, nei dodici comandamenti di Prodi la barra, che mai è stata a sinistra, vira ulteriormente a destra, se per destra s’intende l’allineamento alle richieste del Vaticano e all’arroganza militare degli Usa, la conservazione aperta e dichiarata con tanto di attacco al lavoro salariato. Sì alla Tav, sì alla permanenza miliare italiana in Afghanistan, via i Dico. Parte la riforma delle pensioni, a piccoli passi, gradino dopo gradino, ma parte. Nella sanità i primi ticket sono stati già inseriti e altri ne arriveranno, la pressione fiscale non si sposta di una virgola, anzi è aumentata dell’1,5%. e della riduzione della precarietà non se ne parla più dalla fine della campagna elettorale. E questo non è che l’inizio. Per galleggiare nel periglioso mare della crisi economica, per reggere la competitività internazionale, l’azienda Italia ha bisogno di continuare con determinazione l’attacco alle condizioni economiche dei lavoratori. Ha bisogno di portare le pensioni a 60 anni con 40 di anzianità. Ha bisogno di programmare per i prossimi decenni l’erogazione delle pensioni al 50% dell’ultimo stipendio. Ha assoluta necessità di fare della precarietà il basamento con cui riconfermare il nuovo rapporto normativo tra capitale e lavoro, in modo da consentire al capitale di usufruire della mano d’opera solo ed esclusivamente nelle congiunture positive e di scaricarla automaticamente quando non serve alla sua valorizzazione, con tanto di normativa legislativa e con il puntuale avallo dei sindacati. Ha bisogno di smantellare quello che resta dello stato sociale e di contenere i costi capitalistici del salario diretto e indiretto. Nulla di nuovo sotto il sole calante del capitalismo. L’unica novità è che la sedicente sinistra del governo Prodi si è messa al lavoro senza nemmeno tentare di nascondersi. Lo fa con dichiarata propensione alla conservazione, alla reazione quando è necessario, con il disciplinato, anche se a parole riottoso, sostegno dei partiti di Bertinotti e di Diliberto.

L’ultima considerazione è che il vero problema è il capitalismo, la sua necessitata vocazione all’aumento dello sfruttamento quale condizione irrinunciabile alla sua sopravvivenza economica e politica e non chi lo gestisce. Per chi subisce quotidianamente l’aumento dello sfruttamento in fabbrica e in qualsiasi altro posto di lavoro, per chi vive di precarietà e di bassi salari, per che si vede togliere, giorno dopo giorno, stato sociale e sicurezza economica, il terreno dello scontro non è quello della inutile scelta tra le due facce della immagine sociale borghese ma di iniziare l’unico percorso di lotta possibile, quello dell’anticapitalismo. O la lotta di classe riprende ad esprimersi nei posti di lavoro coinvolgendo stratificazioni proletarie sempre più vaste, o di alternanze tra destra e sinistra, tra crisi di governo e ricuciture più o meno riuscite, saremo costretti a vederne ancora molte.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.