Quali lotte contro l'imperialismo?

L’attuale fase imperialistica si distingue per quattro caratteristiche fondamentali.

La prima si palesa nell’accresciuto fenomeno dell’esportazione del capitale finanziario. Il fenomeno non è certamente nuovo, ma negli ultimi decenni ha assunto dimensioni così rilevanti da far impallidire la fase storica analizzata da Lenin. La necessità di trovare tassi più alti di valorizzazione rispetto al mercato domestico, ha fatto dell’esportazione di capitali una condizione prioritaria, irrinunciabile alla loro stessa sopravvivenza. I meccanismi che regolano e ne impongono l’esportazione sono direttamente proporzionali all’aumento della massa di capitali in esubero a causa delle crescenti difficoltà di ottenere un saggio del profitto sufficientemente remunerativo.

La seconda si manifesta attraverso l’enorme crescita dei processi d’appropriazione parassitaria del plusvalore estorto su scala mondiale mediante la produzione di capitale fittizio e della finanziarizzazione dell’economia.

Ed è in questa crescita - come abbiamo in altre circostanze analizzato - che si trova la spiegazione dell’apparente paradosso per cui la maggiore potenza imperialistica gli Usa sono a un tempo uno dei maggiori esportatori di capitale finanziario e anche il loro maggior importatore come dimostrano i suoi ormai famosi deficit gemelli, quello della bilancia commerciale e del bilancio statale.

Più il sistema capitalistico mondiale soffre di processi di valorizzazione bassi, scarsamente remunerativi per i capitali investiti, più il ricorso alle attività finanziarie diventa una sorta d’imperativo categorico dal quale non può prescindere.

La terza, che ad un tempo esalta ed esaspera le prime due, ma ne è anche la causa è la caduta tendenziale del saggio medio del profitto. Questa contraddizione, tutta interna ai meccanismi di produzione capitalistici, ha ridotto i margini di profittabilità degli investimenti sino a costringere il capitale internazionale ad operare il più grande assalto alle condizioni economiche e normative del mondo del lavoro, ad operare sempre di più sul terreno dell’esportazione di capitale finanziario, su quello della delocalizzazione produttiva e a ricorrere alla speculazione quale panacea ai suoi incurabili mali.

L’ultima, che è la più devastante conseguenza delle prime tre, è data dal dilagare della guerra, divenuta ormai permanente, in tutte le aree di interesse economico e strategico. All’epoca del crollo dell’Urss, gli analisti borghesi si sono affrettati a dire che, da quel momento in avanti, per l’intera umanità si sarebbe aperto un periodo di pace e di prosperità. Fingevano, o non avevano fatto i conti con le perenni contraddizioni del sistema economico capitalistico. Da quel fatidico crollo del capitalismo di stato sovietico, si è inanellata una serie infinita di guerre, di guerre civili indotte, di tensioni internazionali da far quasi rimpiangere il vecchio scontro imperialistico della fase storica precedente.

Minori sono i profitti e maggiore è la concorrenza tra i capitali. Più la concorrenza è esasperata e più ristretti si fanno gli spazi economici dei vari mercati. La barbarie quotidiana che l’imperialismo propone è l’unico percorso che il capitalismo in crisi è oggi in grado di compiere.

Sul mercato delle materie prime - gas, petrolio, ma non solo - l’imperialismo ha prodotto in sedici anni tre guerre, di cui due sono ancora in corso, con il loro tragico fardello di morte e di miseria per decine di milioni di individui tra la popolazione civile. In palio non c’è soltanto il controllo delle risorse energetiche, delle loro vie di commercializzazione, con tutto ciò che questo comporta sul terreno dello scontro aperto o mediato, attraverso una serie infinita di condizionamenti e provocazioni nei confronti delle aree geo- politiche interessate. È in gioco la sopravvivenza di quelle strutture economiche capitalistiche che sullo sfruttamento e sulla predazione costruiscono con la forza l’edificio del borghese interesse al profitto e alla speculazione.

Sul mercato delle divise la contrapposizione è ancora più intensa. Petrolio, rendita petrolifera e parassitismo finanziario si combinano e si completano. Prima dell’ingresso dell’euro sulla scena monetaria internazionale il dollaro dominava trasversalmente su tutti i mercati. La divisa Usa era l’unico coefficiente universale di scambio tra tutte le merci, quelle energetiche comprese. Secondo i dati del 1999, il 92% degli scambi era effettuato in dollari. Oggi essi si sono ridotti al 60%. Nello stesso periodo, fine anni novanta, grazie al “ signoraggio” del dollaro, l’economia americana riusciva a drenare l’80% del risparmio mondiale. Oggi la torta è suddivisa in quattro parti. Quaranta per cento dollaro, quaranta per cento euro, dieci percento yuan e dieci per cento yen. Sempre prima della nascita dell’euro, il petrolio veniva quotato e venduto solo in dollari, da qualche anno a questa parte, Iran, Venezuela, Russia (che nel frattempo è diventata il primo produttore energetico mondiale) quotano il loro petrolio anche in euro erodendo progressivamente la leadership della divisa americana. Per l’economia Usa, che per decenni aveva potuto finanziare i suoi deficit grazie al ruolo del dollaro, le cose incominciano a non girare più per il giusto verso.

I debiti continuano a crescere mentre la supremazia del dollaro va progressivamente ridimensionandosi, rendendo il loro peso insostenibile. Tutto ciò rende da un lato l’imperialismo americano più violento e determinato, e, dall’altro, accelera il processo di ricomposizione imperialistica internazionale. Questo è lo scenario in cui si gioca la nuova partita dello scontro imperialistico tra gli Usa, la Russia, la Cina e un’Europa che, pur essendo ancora lontana della unità politica, economica e militare, ha già fatto sentire il suo peso con l’introduzione dell’euro sui mercati valutari. I terreni sono sempre i soliti, quelli del controllo delle materie prime, dei mercati monetari e finanziari; il mezzo è quello dell’uso costante della forza militare, della pressione politica, del ricatto economico, della guerra condotta con tutti i mezzi, armi non convenzionali comprese. In questo stesso scenario si collocano, ma a ruoli capovolti anche le lotte nazionalistiche e i cosiddetti movimenti anti-imperialisti.

Le lotte contro l'imperialismo

Molto spesso si dice che nella lotta contro l’imperialismo occorre tenere in considerazione due cose. Le cause economiche che determinano il muoversi dell’imperialismo contemporaneo e la specificità sociale e politica dei paesi che ne subiscono l’aggressione , dando per scontata la terza, che è il muoversi delle masse.

L’enunciazione sottintende che, a seconda del contesto socio economico dei paesi dominati, cambia la tattica dell’intervento delle avanguardie politiche. È pur vero che i rivoluzionari devono tenere in debito conto le condizioni di partenza di un movimento di massa, il contesto sociale da cui prende le mosse, il contenuto ideologico di partenza, le incrostazioni borghesi che continuano ad operare al suo interno. Ma è anche vero che il loro compito è quello di elaborare tattiche di intervento che abbiamo come obiettivo una strategia di classe, un programma politico da raggiungere, altrimenti le sconfitte sboccerebbero come i fiori a primavera.

La teoria del concretismo, invece, predica che, a seconda della situazione obiettiva, la lotta all’imperialismo può essere condotta su obiettivi parziali, a fianco della propria borghesia, con riserve critiche e con presunte autonomie politiche e organizzative, o in totale e acritico sostegno, in attesa di tempi migliori e di situazioni politicamente più favorevoli.

La stessa teoria ammonisce che non sono i rivoluzionari a scegliere il terreno dello scontro, ma che ad esso si devono adeguare scegliendo la soluzione tattica migliore, ovvero il minore dei mali. Che non siano i rivoluzionari a scegliere il terreno di scontro è vero, drammaticamente vero, ma ciò significa soltanto che la scelta del terreno dello scontro, dei suoi obiettivi politici è nelle mani della borghesia nazionale. Ma il problema non è questo ma piuttosto dalla comprensione di come si collocano, nel quadro del moderno imperialismo le borghesie dei paesi periferici.

La borghesia nazionale di ciascun paese periferico- si legge nelle nostre Tesi sui paesi periferico,i approvate da nostro VI congresso (1997) - è nazionale solo per l’anagrafe dei suoi membri e per il particolare tipo di istituzioni politiche oppressive di cui si dota contro la sua sezione nazionale di proletariato.
Ma la borghesia dei paesi periferici rientra, come parte costitutiva, nella classe borghese internazionale, dominante nel sistema complessivo dello sfruttamento perché in possesso dei mezzi di produzione a scala internazionale. Come tale, ciascuna sezione nazionale della borghesia, partecipa alla spartizione del plusvalore internazionalmente estorto al proletariato con pari responsabilità e pari destini storici, al di là dei rapporti quantitativi...Questa “borghesia nazionale” è tanto più interessata all’uscita dal sottosviluppo e dal dominio dell’imperialismo, quanto può esserlo la borghesia americana. I suoi contrasti (che pure esistono) con la borghesia, per esempio, americana, sono di carattere del tutto borghese, nel senso che riguardano le quote e i termini in cui partecipa alla spartizione internazionale dei profitti e degli extra-profitti.

La tattica comunista nei paesi periferici- Prometeo n. 13 serie 15

Quindi benché ammantata di nazionalismo la sua eventuale “lotta nazionale” si collocherà sempre all’interno della logica della più generale guerra imperialistica. Ovviamente per raggiungere i suoi scopi essa ha bisogno di avere dietro di sé le masse, il suo proletariato, quella carne da macello senza la quale nessun passo concreto potrebbe essere mosso contro l’avversario esterno. I mezzi, ovvero le tattiche che la borghesia può mettere in essere sono molteplici e dipendono dal contesto sociale esistente, dal dominio ideologico esercitato sul proletariato, di tipo laico e/o religioso, a seconda degli specifici percorsi storici del paese in questione. Il risultato è che il nazionalismo, in qualsiasi veste si presenti, utilizza il proletariato a sostegno di uno o l’altro dei fronti imperialistici. Solo così quella borghesia potrà sedere alla spartizione della grande torta preparata con il frutto dello sfruttamento della forza-lavoro nazionale e internazionale.

In un simile contesto, che è quello prevalentemente dato in Medio Oriente e in centro Asia, ma non solo, il compito delle avanguardie rivoluzionarie è quello di operare nel senso opposto. Le tattiche d’intervento politico devono essere indirizzate verso un fine strategico di classe: contro l’imperialismo, contro la borghesia nazionale, per l’autonomia politica del proletariato, quale unica condizione per il suo processo di emancipazione rivoluzionaria. Non ci sono altre strade percorribili né soluzioni tattiche diverse o intermedie. Il compito dei rivoluzionari, che sono costretti ad operare sul terreno imposto dall’avversario di classe, è sempre quello di sottrarre il proletariato al condizionamento ideologico e politico della borghesia, contro le sue strategie e contro i suoi interessi economici.

Secondo le teorie concretiste, la lotta all’imperialismo deve invece, compiersi senza mettere in discussione la causa che lo pone in essere, e cioè i rapporti di produzione oggi dominanti su scala mondiale. Secondariamente, si ritiene che l’imperialismo da combattere sia soltanto, o prevalentemente, quello americano perché più forte e aggressivo, stilando una sorta di gerarchia di valori in base alla quale dovrebbe orientarsi la lotta dei deboli contro l’imperialismo più forte.

Nei fatti l’unica lotta anti-imperialista possibile è quella che contiene nel suo seno l’anti-capitalismo, altrimenti si ridurrebbe a una sorta di tentativo di autonomia di un capitalismo, più o meno forte, da un capitalismo più aggressivo in termini apertamente militari o soltanto economici, senza mai mettere in discussione i rapporti di produzione, le loro contraddizioni, che sono alla base di entrambi i fenomeni, dello sfruttamento proletario, dell’impoverimento sociale e della guerra imperialista.

Il caso Venezuela

Un’esperienza che sintetizza al meglio il tipo di atteggiamento presuntamente anti-imperialista, senza mettere in discussione i rapporti di produzione capitalistici, ponendo al contempo l’obiettivo del rafforzamento degli interessi economici nazionali, è quella del neobolivarismo del tenente-colonnello Chavez.

Tale esperienza, che trova entusiastico sostegno negli ambienti trotskisti e in larghe fasce del variegato mondo della cosiddetta sinistra radicale, fa dell’anti-americanismo lo strumentale supporto ideologico alle ambizioni egemoniche nel continente sudamericano.

Il Venezuela è il quinto produttore mondiale di petrolio. La sua economia si basa quasi esclusivamente sulla rendita petrolifera. Il progetto di Chavez è quello di trasformare il paese, da semplice fornitore di energia al migliore offerente, a centro economico e finanziario dell’America latina, recidendo il cordone ombelicale con gli Usa. Chavez ha l’ambizioso progetto di creare un consorzio energetico, di cui il Venezuela sarebbe il motore primo, con cui rifornire tutto il continente. Nel progetto c’è la costruzione di una pipeline (hugoducto) che dal Venezuela dovrebbe arrivare sino alla Terra del Fuoco, portando petrolio e gas naturale ad Argentina, Brasile e Perù. Se il progetto andasse in porto, Chavez vedrebbe aumentare enormemente la rendita petrolifera e con essa il peso politico del Venezuela. Potrebbe concedere prestiti ai paesi dell’area, diventerebbe una piccola potenza imperialistica, i cui contorni economici, energetici e parassitari, andrebbero dal Caribe, Cuba compresa, sino a Capo Horn. Perché il progetto possa andare in porto occorre soddisfare almeno tre condizioni: sganciarsi dalla sudditanza nei confronti degli Usa, trovare nuovi alleati a livello internazionale, avere una base elettorale che gli consenta di conservare il potere per molto tempo.

Partendo dall’ultima, la politica di Chavez ha previsto di assicurarsi il consenso popolare, a parte i brogli delle ultime elezioni denunciati dagli osservatori internazionali, con il potenziamento dello stato sociale. Parte della rendita petrolifera viene investita nelle cosiddette Missioni, ovvero in attività di sostegno economico alla popolazione delle favelas che rappresenta il 90% del suo elettorato, nella scuola e nella sanità. Sotto la sua gestione la spesa pubblica è passata dal 20% al 35% del Pil. Ma solo una parte va al pueblo, l’altra parte è destinata all’amministrazione clientelare di un sistema pubblico controllato direttamente dal presidente. L’elemosina, perché di questo si tratta, se allevia moderatamente le disastrose condizioni di vita, non risolve il problema sociale delle masse diseredate, né va a modificare la loro condizione di classe oppressa, che tale rimane, come in qualsiasi altro paese capitalistico. In compenso, questa piccola narcosi sociale, che al fondo nulla cambia nella gestione macro economica dei rapporti di produzione e di distribuzione, è la manna politica che Chavez usa per la realizzazione del suo ambizioso progetto e, per di più, accresce la sua immagine di Robin Hood dell’America latina.

Nella strategia delle nuove alleanze i passi decisivi sono già stati fatti. Russia, Cina e Iran sono i recenti partners economici e militari che il Venezuela deve coltivare se non vuole correre il rischio di una risposta golpista da parte della CIA come nel 2002. Dalla Russia riceve armi, alla Cina vende petrolio e con l’Iran ha buoni scambi commerciali e ottimi rapporti politici. Nel processo di ricomposizione imperialistica internazionale il futuro ruolo del Venezuela passa anche per quella rete di alleanze che gli consentono maggiore respiro economico e migliore copertura politica e militare.

Con queste prospettive e con questo quadro di riferimento internazionale, l’anti-americanismo, acquista la sua vera valenza e il suo reale ruolo all’interno delle ambizioni sub-imperialistiche del Venezuela.

Ai rivoluzionari il compito di denunciare al proletariato venezuelano e ai diseredati delle favelas che le statalizzazioni della Compagnia petrolifera nazionale (Pdvsa), della Compagnia elettrica e telefonica, come lo stretto controllo della Banca centrale, non hanno nulla a che vedere con un progetto socialista, ma sono i passi necessari che il capitalismo venezuelano deve compiere per giocare un ruolo di sub-potenza nell’area nel nuovo scenario imperialistico mondiale. Va altresì denunciato come le condizioni dei lavoratori siano di fatto peggiorate negli anni della gestione di Chavez. Nonostante l’enorme aumento della rendita petrolifera e le elargizioni sociali del governo, le statistiche dicono che dal 1999 al 2006 il reddito pro-capite è aumentato di un misero 0,4%.

Nello stesso periodo, disaggregando il dato statistico, risulta che il 20% della popolazione più ricca si è accaparrata il 2,3% in più del Pil (da 50,2 a 52,5) mentre il 20% più povero ha visto diminuire sensibilmente la sua quota della ricchezza sociale prodotta perdendo un punto percentuale netto (dal 4,7 al 3,7). La madre di tutte le denunce però, è che l’anti-americanismo di Chavez, che non gli impedisce di continuare a coprire l’11% del fabbisogno petrolifero Usa, con il suo corollario di esperimento socialista, altro non è che l’involucro ideologico dentro il quale si compie il potenziamento del capitalismo venezuelano. Lo stesso involucro deve ammorbare e contenere le masse perché non disturbino il processo in atto e, se possibile, ne siano il supporto. L’unica strada che il proletariato venezuelano deve imboccare è quella sì dell’anti-imperialismo americano e non, contro Bush ma anche contro Chavez e gli interessi borghesi che rappresenta.

L’intricata questione del Medio Oriente

Anche per la questione palestinese il concretismo impugna l’anti-imperialismo dalla parte sbagliata. La sua lettura dei fatti implica che, essendo lo jihadismo l’unica forza che concretamente si muove contro il mini imperialismo israeliano, e per legge transitiva, contro il maxi-imperialismo americano, il movimento sarebbe per sua natura anti-imperialista e, indipendentemente dal suo contenuto politico, va appoggiato incondizionatamente. Nel formulare una simile ipotesi si incappa in una serie di errori che obiettivamente collocano la formulazione nell’ambito della conservazione capitalistica e della reazione in termini politici. Innanzitutto si sorvola bellamente sul fatto che le forze integraliste in campo, Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano e la variegata galassia integralista in Iraq, si nutrono politicamente, finanziariamente e militarmente degli aiuti di Siria e Iran che, a loro volta, rappresentano nell’area la lunga mano dell’imperialismo russo. Il che fa dello scontro tra Hamas e Israele, che certamente lottano anche per i rispettivi interessi nazionali, pur da posizioni diametralmente opposte, una questione inter-imperialista, di cui Hamas è consapevolmente una pedina di manovra. Di quale anti-imperialismo si tratta se nel combatterne uno si favorisce l’ascesa di un altro? Si può obiettare che, nella ricerca di un obiettivo nazionale, è gioco forza entrare tatticamente in questi meccanismi per ottenere la soluzione migliore. Ma così facendo si rinuncia a priori a porre la questione di classe dell’emancipazione del proletariato palestinese, come di quello di tutta l’area medio orientale, per rimanere chiusi all’interno di una prospettiva nazionalistica, capitalistica, senza nessun altra via d’uscita che non sia quella della propria borghesia e dell’imperialismo di riferimento.

Peraltro il nazionalismo ha il potere di dividere il fronte del proletariato. La sua valenza politica è inversamente proporzionale alla possibilità di ripresa della lotta di classe. Più il nazionalismo è forte ed operante e meno spazi politici si presentano al proletariato verso il cammino della sua emancipazione rivoluzionaria. Se poi il nazionalismo si presenta con le vesti dell’inte-gralismo islamico la sconfitta sarà ancora più pesante. L’integralismo è, per sua natura, conservatore in termini economici e reazionario sul terreno politico. È visceralmente anti-comunista e disciplina nella sharia i rapporti tra capitale e forza lavoro. Non sono tollerati scioperi contro i padroni, i dipendenti che si ribellano al dettame del capitale rischiano, se va bene, il licenziamento, altrimenti subiscono pene corporali. È semplicemente un crimine politico lasciare i proletari di Libano, Iran, Iraq e Palestina nelle mani di simili borghesie nazionali, in nome di un falso anti-imperialismo e di un ottuso nazionalismo religioso, come fanno alcune sedicenti avanguardie politiche. Il programma politico dell’integralismo prevede una sorta di internazionalismo islamico, l’Umma, (l’unione di tutti i popoli islamici riuniti in un’unica comunità senza divisioni territoriali e nazionali), per il raggiungimento della quale ogni tensione tra le classi è severamente vietata. In termini statuali, l’Umma è il presupposto della rifondazione del Califfato che, se dovesse rivedere la luce, sarebbe il ritorno al Medio Evo, alle leggi infami della sharia per centinaia di milioni di lavoratori. L’integralismo non solo è conservatore e reazionario, ma è una funerea bara messa di traverso sulla via della ripresa della lotta di classe. Anche in questo caso chi sceglie il terreno dello scontro è la borghesia nazionale e non il è proletariato, il cui muoversi è politicamente dettato dalle strategie nazionalistiche che sono inconciliabilmente opposte agli interessi di classe, anzi ne sono l’assoluta negazione. O le avanguardie si danno l’obiettivo di spostare l’asse politico del movimento, oppure rimangono all’interno dello stesso, ne seguono supinamente il percorso nazionalistico e capitalistico, rinunciando al loro ruolo, fungendo di fatto da quinta colonna del nazionalismo borghese che invece dovrebbero combattere. Appoggiare con o senza riserve Hamas, Hezbollah, lo jihadismo in generale, solo perché è l’unica cosa che si muove nello scenario mediorientale, con al traino il proletariato dei paesi dell’area è, a tutti gli effetti, consegnare all’avversario di classe i destini di milioni di lavoratori per i prossimi decenni, annullando qualsiasi ipotesi di ripresa della lotta di classe.

Il compito dei rivoluzionari

Contro l’imperialismo. Là dove l’imperialismo è operante, sia attraverso un’azione diretta, sia per mezzo di condizionamenti politici, ricatti commerciali e finanziari, il compito dei rivoluzionari è quello di combatterlo in tutti i modi. Non c’è possibilità di emancipazione proletaria se la lotta non parte dallo scontro diretto con il portatore di guerre, fame, miseria e sfruttamento. Ogni altra via, dall’indiferentismo (tanto non c’è nulla da fare) al collaborazionismo (cerchiamo di salvare il salvabile), porta all’inazione o alla sconfitta. Allo stesso risultato porterebbe un’alleanza con la borghesia nazionale che, pur se vincente, consoliderebbe il suo ruolo economico e politico all’interno di uno o l’altro dei fronti imperialistici e contro quello stesso proletariato che avesse operato al suo fianco.

Contro il nazionalismo. La lotta al nazionalismo deve essere altrettanto chiara e determinata. Non ci devono essere tentennamenti tattici giustificati da analisi storicamente superate quali: la necessità di favorire la costituzione del mercato interno, l’appoggio critico che verrebbe dato per una soluzione progressista che faciliti un domani la ripresa autonoma della lotta di classe o, peggio ancora, l’appoggio incondizionato perché il movimento nazionale avrebbe dei connotati anti-imperialistici. Il nazionalismo ha la straordinaria capacità di unire le classi antagoniste e di dividere il proletariato internazionale collocandolo dalla parte opposta di quegli interessi che invece lo dovrebbe unire. Il nazionalismo è interclassismo, è cioè l’involucro ideologico di cui si serve la borghesia per trascinare sul carro dei propri interessi l’avversario di classe, inibendogli ogni possibilità di autonomia politica ed organizzativa. Collocarsi su questo terreno significa, ancora una volta, contribuire alla sconfitta della classe prima ancora del suo potenziale esprimersi.

Contro il capitalismo. L’anticapitalismo deve essere alla base del muoversi dei rivoluzionari, deve essere la bussola d’orientamento a cui ci si deve riferire se si vuole lottare coerentemente contro l’imperialismo. L’anticapitalismo deve essere al contempo la denuncia del capitalismo stesso, delle sue conseguenze economiche e sociali, quali lo sfruttamento, la miseria e la guerra, e il presupposto alla necessità della soluzione rivoluzionaria quale condizione irrinunciabile per la costruzione di una società a misura d’uomo, per la costruzione del comunismo.

Per una soluzione rivoluzionaria. Ciò non significa che la rivoluzione proletaria in Medio Oriente sia all’ordine del giorno. Significa però che tutti gli sforzi delle avanguardie rivoluzionarie devono essere sempre orientati verso questo obiettivo. Quando poi le masse si muovono, quando le loro condizioni di vita materiale le spingono alla lotta, tutte le risorse e le energie delle avanguardie devono necessariamente puntare alla sottrazione delle masse all’influenza della borghesia. Se gli involucri politici che le contengono sono il falso anti-imperialismo, l’ammorbante nazionalismo, il presunto progressismo laico o la più retriva concezione teocratica della sharia, vanno attaccati, distrutti, smantellati uno per uno, perché solo dalle loro macerie può costruirsi la strada dell’emancipazione proletaria. Ogni appiattimento sulla ideologia borghese, ogni tentennamento tattico è un ostacolo alla ripresa della lotta di classe.

Altro compito prioritario, nell’attuale fase, è quello di far uscire dall’isolamento nazionale i vari proletariati dell’area. Il compito è certamente tra i più complessi, ed è tanto più difficile quanto maggiore è il radicamento dell’ideologia borghese all’interno delle masse. Lo sforzo deve tendere a costruire una rete proletaria trans-nazionale, che attraversi gli steccati politici e ideologici del nazionalismo. Che faccia delle affamanti condizioni comuni la pedana di rilancio della lotta di classe in Palestina come in Iraq, in Siria e in Giordania. Là dove l’integralismo islamico impone l’internazionalismo della Umma, il compito dei rivoluzionari è quello di rovesciarne dialetticamente il contenuto, cercando di costruire l’internazionalismo proletario facendo leva proprio su quella questione palestinese che tutte le borghesie arabe e musulmane strumentalmente impugnano. Non c’è paese dell’area mediorientale che, per mero gioco politico o per accattivarsi il consenso popolare, non sostenga a parole la causa dei palestinesi, per poi mal tollerarli all’interno delle proprie società, se non come forza lavoro a basso costo, e pronto a reprimerli quando la loro presenza si fa scomoda o ingombrante. In più i proletari palestinesi sono sottoposti al giogo del mini-imperialismo israeliano, allo sfruttamento di due fazioni della loro borghesia, quella laica di Al Fatah e quella integralista di Hamas, che si combattono tra di loro per il potere. Il percorso della loro emancipazione politica ed economica non passa attraverso il sostegno di una delle fazioni borghesi ma, come per tutti i proletari dell’area, deve imboccare la strada dell’autonomia di classe, del collegamento delle future lotte per una strategia comune, contro le rispettive borghesie. Un primo obiettivo è proprio quello di creare un fronte proletario trasversale, che inizi a prendere le distanze da tutte le borghesie e da tutti i nazionalismi comunque camuffati. Altrimenti si lascerebbero i proletari, le loro miserie e la loro disponibilità alla lotta nelle mani degli Hezbollah in Libano, di Hamas o di Fatah in Palestina, di Al Sistani o Moqtada al Sadr in Iraq, dei signori della guerra o dei talebani in Afghanistan senza nessuna speranza di ripresa della lotta di classe.

Oggi il compito storico delle sparute avanguardie rivoluzionarie, ovunque si trovino, è quello di favorire la nascita di organizzazioni partitiche che abbiano chiari i contenuti economici dell’imperialismo contemporaneo, del muoversi delle singole borghesie nazionali, delle soluzioni tattiche da adottare nel quadro politico imposto dai loro interessi. Solo così si contribuisce a preparare un futuro per tutti i proletari dell’area. Un futuro che abbia come punto di riferimento la ripresa della lotta di classe contro le aggressioni imperialistiche, contro le mire nazionalistiche delle varie borghesie, per una soluzione rivoluzionaria e comunista dell’attuale crisi internazionale. Ma questo futuro è destinato a rimanere lettera morta se si consegnano i destini politici del proletariato nelle mani della più ottusa conservazione capitalistica e del più feroce sistema politico antioperaio che oggi il Medio Oriente possa produrre.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.