Sessant'anni dalla costituzione borghese dello stato repubblicano

Dopo una gestazione di 18 mesi la nuova Costituzione entrava in vigore nel genna­io 1948. Cominciava, con tutti i crismi della legalità, la storia repubblicana dello Stato italiano. Ovvero, si apriva una via d'uscita dalla crisi economica, sociale, politica e istituzionale in cui si dibatteva il paese dopo il crollo di quell'esperienza fascista sulla quale la borghe­sia aveva puntato le sue carte, dagli anni Venti al secondo conflitto imperialistico.

La Costituzio­ne repubblicana divenne da allora una specie di sacrario teorico al quale ci si rivolse in varie occasioni per convalidare le scelte politiche dei partiti sia di destra sia di sinistra (borghese), all'interno delle ricostruite e riverniciate istitu­zioni rappresentative. Rafforzando, nel nome della democrazia e del suo ordine legale, il traballante edificio della società borghese e della pacifica convivenza fra le classi.

In nome della concordia naziona­le

Nelle intenzioni dei suoi "padri" fondatori, rifiutando la tradizione costituzionale prece­dente dello Statuto albertino considerato come anticamera del fascismo e linea di difesa del­l'istituto monarchico, la nuova Costituzione do­veva fare da baluardo contro le tentazioni per un eventuale ritorno ad un potere apertamente dittatoriale. Come dirà uno dei presidenti della Repubblica (Gronchi, dicembre 1 955) la bor­ghesia italiana puntava allora a collocarsi al centro di un "movimento generale di idee anche europee, che ha ripensato nella sua compiutezza il problema della democrazia". Il "ripensamento" aveva avuto come protagoniste "tutte le forze politiche e culturali presenti nel paese" - natural­mente tutte quelle riconducibili agli interessi specifici della borghesia. Forze che operarono - sempre nella agiografia ufficiale - "in un clima di solidarietà generale attorno all'obiettivo del­la costruzione di uno Stato unitario, democrati­co, laico e sociale". Insomma, un modello di "democrazia integrale", persino invidiato da altri paesi!

Un compromesso di unità nazio­nale

Ma poiché non mancò qualche critica a quello che venne definito da alcuni degli stessi costi­tuenti come un "compromesso costituzionale", ecco un significativo brano tratto da un interven­to di Togliatti nella seduta dell' l 1 marzo 1947. Un intervento che fu definito di "grande finezza politica" sia dagli avversari sia dagli amici; in realtà, uno degli esempi di funambolismo poli­tico nei quali Togliatti, il Migliore era maestro.

Che cos'è un compromesso? Gli onorevoli colleghi che si sono serviti di questa espressione, probabilmente l'hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Questa parola non ha però in sé un senso deteriore, ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene scartiamola pure.. In real­tà, noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori... Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè d'individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso una costituzione, cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo e abba­stanza ampio per andare al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contin­genti dei singoli partiti che costituiscono, o pos­sono costituire, una maggioranza parlamenta­re.

L'obiettivo fu quello di "una confluenza tra solidarismo marxista e solidarismo cristiano", per cui,

se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarla come “compromesso” fatelo pure. Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la costituzione non dell'uno o dell'altro partito, non dell'una o dell'altra ideologia, ma la costituzione di tutti i lavoratori italiani, di tutta la Nazione.

E tutti fecero il proprio dovere: accanto a Togliatti, il socialista L. Basso fu pronto a votare

anche quegli articoli che non corrispondono alle tradi­zioni del partito socialista ed altri che contraddi­cono a quelle che sono le nostre aspirazioni lontane.

E pure l'ex radicale Ruini si offrì per

cambiare la parola compromesso, nel senso deteriore di baratto, di mercato, di combinazio­ne oscura di interessi: parleremo invece di patto, di accordo, di convergenza di pensiero e di forze sopra punti determinanti. La storia (quella del dominio borghese - ndr) cammina così....

L'esame del progetto

Quando l'Assemblea costituente cominciò in seduta plenaria l'esame del progetto repubbli­cano, il 4 marzo 1947, erano trascorsi 99 anni dallo stesso giorno, nel 1848, in cui il re Carlo Alberto aveva concesso al popolo il suo Statuto. Restando alle date storiche, il 4 giugno 1944 Roma era stata "liberata" ad opera della V Armata americana; gli accordi presi a Salerno imposero le dimissioni del Maresciallo Badoglio da capo del governo e Vittorio Emanuele III delegò a capo dello Stato il figlio Umberto, nominato Luogotenente generale del Regno. Un nuovo governo fu formato da Ivanoe Bonomi che con il Decreto Legge luogotenenziale 151 del 25 giugno 1944 affidava alle scelte del popolo italiano le nuove forme istituzionali del paese e l'elezione di un'Assemblea costituente per deter­minare la nuova Costituzione dello Stato "libe­rato".

Il socialista Pietro Nenni presiederà il ministero della Costituente mentre nella Consulta Nazio­nale, presidente il conte Sforza, si accalcavano i 430 rappresentanti delle formazioni politiche partecipanti alla Resistenza. Successivamente alla vittoria repubblicana nel referendum del 2 giugno 1946, sui banchi di Montecitorio siede­ranno 555 rappresentanti del "popolo" (demo­cristiani, socialisti, nazional-comunisti, Unione nazionale democratica, Fronte dell'uomo qua­lunque, repubblicani, Blocco nazionale della libertà, Partito d'Azione, indipendentisti sicilia­ni, Concentrazione democratica, Partito sardo d'azione, movimento unionista, cristiano-socia­li, contadini, demolaburisti). Una vera e propria Arca di Noè, da poco salvatasi dal diluvio...

I primi governi democratici

Il 15 luglio il democristiano De Gasperi presen­tava il suo primo Governo della Repubblica; i nazional-comunisti erano ai posti loro assegna­ti: Gullo ministro della Giustizia, Scoccimarro (Finanze), Ferrari (Trasporti), Sereni (assistenza post-bellica). A redigere il testo del progetto di Costituzione sarà una commissione di 75 "padri della patria", presieduta da M. Ruini.

Il pericolo di un rovinoso scivolamento in una ingovernabile condizione di disordine sociale dagli incerti sbocchi, spinse la borghesia a concedere lo scranno presidenziale di Montecitorio addirittura a Umberto Terracini, già esponente della Sinistra comunista italiana a fianco di Bordiga fino a metà anni Venti e in seguito convertitosi alla "svolta" di Togliatti. Fu proprio quest'ultimo ad avanzarne la candida­tura, ufficializzando solennemente il reingresso nel Pci di un "figliol prodigo", il quale, "profon­damente commosso", ricorderà "la piena colla­borazione e l'affiatamento completo" durante tutti i lavori (Intervista di P. Balsamo, 1977 - Editori Riuniti). E con particolare scrupolo cure­rà, con Concetto Marchesi, lo "stile letterario" della nuova Carta costituzionale.

I cardini della Costituzione

Molto diverso era il clima esterno, quello di una situazione disastrosa che - secondo lo stesso Terracini - esacerbava, sì, gli animi, ma solo... quelli

"di una classe borghese battuta e scorag­giata (...) diversamente per le classi lavoratrici e le masse popolari che vedevano nell'Assemblea costituente un punto di riferimento per la rinasci­ta e la ricostruzione...”

La concordia nazionale valeva pure una Messa, come vedremo anche a proposito dell'articolo 7.

Nelle intenzioni dei suoi estensori,

i cardini della Costituzione italiana devono essere: sovra­nità popolare, unità della nazione e progresso sociale.

Togliatti, Unità del 12-3-1947

Ed il Pci non solo era disposto ad accettare "l'unità e la collaborazione con tutti i partiti e con tutti i gruppi sociali, nell'interesse della nazione ita­liana", ma addirittura la invocava quotidiana­mente, presentandosi come un importante "stru­mento al servizio dell'Italia e della democrazia" (Unità, 7-1-1947). Una "prestazione" che ri­chiedeva la massima attenzione contro il perico­lo rappresentato da quei

nemici, trotzkisti, pseudo-internazionalisti, pseudo marxisti-integralisti, che pur nella loro inconsistenza organizzativa, data la critica situazione italia­na, possono costituire un pericolo come veicolo della provocazione.

Secchia, sull'Unità, Con­ferenza di organizzazione del PCI, gennaio 1947

Si trattava di gravi provocazioni "estre­miste" che i nazional-comunisti respingevano, patriotticamente sdegnati:

Non dobbiamo fare una politica ristretta di classe, ma un'ampia politica nazionale. Per il rinnovamento dell'eco­nomia italiana è necessario stabilire contatti e alleanze fra la classe operaia e le altre classi lavoratrici, e queste alleanze possono e debbo­no arrivare fino a determinati gruppi delle classi possidenti e operose dell'industria e del com­mercio.

L'ideologia del costituzionalismo

La continuità dell'esercizio del potere borghese, dopo le forme dittatoriali del periodo fascista, richiedeva ora il ritorno ufficiale a quella ideo­logia del costituzionalismo che doveva rimettere in ordine le strutture di uno Stato al momento in condizioni di particolare debolezza e ineffi­cienza. L'appoggio, il consenso "popolare", non poteva che ricostituirsi attorno ai rinverditi principi della democrazia parlamentare (non fu forse la rivoluzione della giovane borghesia ad instaurarla assieme ai diritti di libertà dei citta­dini?), riprendendo il posto ceduto alla mistica fascista della nazione e dello Stato. Prima e dopo, s'intende, sempre per il bene della Patria. All'insegna del compromesso, del mercanteggiamento politico (il commercio dei principi, per la verità, mancava del materiale adatto per un suo svolgimento!) si mediavano concreti rapporti fra interessi contrapposti a favore della borghesia e dei centri imperialistici che tiravano i fili. Al loro seguito, le immancabili ampie schiere dei suoi servi più sciocchi.

Pluralismo e libertà sociali

Gli abiti indossati dallo Stato nella versione del regime fascista (monopartitico, ufficialmente antiliberale e antidemocratico) venivano tinteggiati con i colori del pluralismo e agghindati con i nastri dei diritti sociali e individuali, con leggi uguali per tutti. Dopo i trionfi e le rovine della statolatria fascista, si trattava di proseguire sulla medesima strada (la dittatura borghese, inevitabilmente) ma con la maschera della par­lamentare di tipo rappresentativo. Poiché pro­prio il parlamentarismo diede i natali al fasci­smo, e data la presenza di una forte frammentazione delle forze politiche "antifasciste" desiderose di occupare il Palazzo e i suoi dintorni, il tentativo fu quello di contrab­bandare il potere come un "qualcosa" che si diffondeva in tutto il corpo sociale, al di là della realtà di una società divisa in classi che la stessa Costituzione, fra le righe dei suoi articoli, si apprestava a convalidare e sostenere. Ed ecco il 2° comma dell'articolo 3 che sentenzia:

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavo­ratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

L'aborto, inevitabile, fu quel Cnel (Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro) che mediò fra un Consiglio nazionale del lavoro (proposto da Di Vittorio) e uno del­l'economia (proposto da Fanfani), con il corollario della questione "lavoro e sindacato" dove, sempre all'insegna del pluralismo, fu da tutti visto di buon occhio il riconoscimento giu­ridico del sindacato stesso, affidando i limiti delle sue concrete manifestazioni all'autodisciplina dei lavoratori. A questo... addomesticamento si appellò (e oggi lo impone) il ceto politico e il capitale, sempre nel nome dell'interesse comune di sfruttati e sfruttatori! Il ciclo storico del sindacato si era così compiuto: agli inizi inviso alla borghesia, poi riconosciuto e quindi, con l'affermarsi del capitalismo monopolistico, istituzionalizzato. AI punto che un machiavellico Fanfani si fece assertore del principio di una partecipazione operaia alla direzione delle aziende: la "ragione etica" sa­rebbe stata quella di "eliminare lo stato di inferiorità e di precarietà degli operai, dando loro la coscienza dei loro diritti di uomini".... Fondamentale era l'aver confermato il diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione. D'altra parte - come commenterà poi Terracini -la Costituzione è "il sistema della società in cui viviamo", e poiché in essa "il lavoro è una merce oggetto di concorrenza, c'è chi prevale, se ha un lavoro, e chi soccombe se non ce l'ha"... (Inter­vista a Terracini di P. Balsamo - Editori Riuniti, 1978)

Convergenti finalità

Nel mercato di ideologie che in realtà avrebbe­ro dovuto essere diverse e contrastanti e quindi inconciliabili, si arrivò fraternamente ad una profonda convergenza di finalità e quindi di strumenti politici, al servizio di un unico e supe­riore interesse, quello di un rilancio del capita­lismo nazionale e della salvaguardia dello Stato e della società borghesi.

Se in apparenza alcuni contenuti della nuova Costituzione furono addirittura presentati come più "favorevoli" ai lavoratori (ma rispondevano soltanto alle nuove esigenze di "pacificazione sociale" del capitalismo), successivamente si in­caricheranno i vari governi (compresi quelli più recenti di centro-sinistra) a svuotare la Costitu­zione di ogni pur minimo appiglio per una reale difesa delle condizioni di lavoro e di vita dei "cittadini" proletari, oltre che della loro concreta autonomia ideologica e politica.

Il sistema parlamentare

Nella Costituzione la "forma di governo", a base pluripartitica, non poteva che essere rap­presentativa e parlamentare. Poiché l'antifascismo costituiva l'elemento fondamenta­le di intesa politica fra cattolici, "marxisti" e liberali, ciascuno cercherà di mostrarsi più lealista del re (in questo caso della regina, ovvero della democrazia) preoccupandosi, come già abbia­mo visto, di erigere quanti più argini formali possibili contro "il pericolo di aprire l'adito a regimi autoritari ed antidemocratici" (Ruini). Le complesse manovre dei partiti e dei gruppi politici che presidiavano Montecitorio si intrec­ciarono in un ordine del giorno che votava "l'adozione del sistema parlamentare" nella prospettiva di una sua successiva disciplina at­traverso

dispositivi costituzionali idonei a tute­lare le esigenze di stabilità dell'azione del go­verno e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo.

05-09-1946

Solo contro lo spauracchio di un ritorno dittato­riale (col timore del quale si tenevano ora legate mani e piedi al proletariato, inginocchiato attor­no al totem del regime democratico), si spiegava la presenza di più organi costituzionali in posi­zione di reciproco controllo e interferenza, sia politici che giudiziari e amministrativi. La realtà, tanto quella contingente quanto quella futura, mostrerà la falsità di tali meccanicismi inseriti nella carta costituzionale col fine illusorio e mistificatore al tempo stesso di limitare un ecces­so di poteri da parte del governo in carica. In effetti, si assisterà fin dai primi anni ad un "congelamento" costituzionale a cui si adegue­rà, anzi lo favorirà, tutto l'apparato statale, amministrativo e giudiziario, in massima parte forgiato ed ereditato dal regime fascista. Si può anzi parlare di una rottura successiva del tessuto costituzionale, idealisticamente costruito, a co­minciare dalla legge elettorale per la Camera, votata nella primavera del 1953, che introduce­va un artificioso premio per i partiti di maggio­ranza. Il nuovo meccanismo non scatterà però alle elezioni del 7 giugno, costringendo la DC ad iniziare il corteggiamento del PSI per farne un alleato di governo.

Faceva parte dell'esorcismo contro un ritorno del fascismo il rifiuto di un primato dell'esecutivo attraverso un equilibrato meccanismo interno al sistema di governo. In realtà, in quella fase storica, le varie forze politiche cercavano di garantirsi spazi ed influenze nell'architettura del sistema. Inizialmente, ed a proposito di questo ordinamento di pluralistiche presenze istituzio­nali che potevano frenare quella volontà popo­lare e parlamentare a cui guardava in partico­lare il PCI, l'atteggiamento politico-costituzio­nale del partito di Togliatti tendeva ad assicura­re tutto il potere a chi detiene la maggioranza parlamentare. Scelta che si basava sulla sicurez­za di una costante vittoria del PCI nelle elezioni popolari. Fino a sostenere che freni e limiti costituzionali al potere politico servivano solo ad

impedire che le forze nuove che sono l'espres­sione del popolo manifestino la loro volontà.

Deputato picista Laconi, seduta del 5 marzo 1 947

Più precisamente:

Il principio della divi­sione o della separazione dei poteri è superato (...) la radice della sovranità sta esclusivamente nel popolo, da cui emana ogni potere (...) i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario non siano separati, (...) ma chiamati ad attuare la volontà popolare,

così come essa viene espres­sa dalla maggioranza parlamentare. Non è Berlusconi che parla, ai giorni nostri, ma il deputato picista La Rocca nella seduta del 5 marzo 1947.

A proposito della Corte Costituzionale, Togliatti la definirà "una bizzarria" e Nenni si esprimerà in questi termini:

Si potrebbe dire che il vizio segreto di questa costituzione è il medesimo che si ritrova ad ogni tappa della nostra storia, dal Risorgimento in poi: sfiducia nel popolo, neces­sità di frapporre fra l'espressione cella volontà popolare e l'esecuzione della stessa volontà popolare quanti più ostacoli, quanti più dia­frammi possibile. L'ordinamento della repubbli­ca, così come è previsto in questo progetto, sotto molti aspetti rappresenta una minaccia per la funzione legislativa e sembra abbia obbedito alla preoccupazione di bloccare qualsiasi leg­ge.

Seduta del 10 marzo 1947

Due mesi dopo, il 13 maggio, sia il Pci sia il Psi furono espulsi dal primo Governo De Gasperi. L'impianto unitario del tripartito si spezzò; Pci e Psi si adeguarono alla realtà della nuova situa­zione, digerirono il "colpo di Stato" degasperiano, e nell'Assemblea costituente ri­mase sostanzialmente in piedi l'intesa unitaria che alla sinistra conveniva pur sempre coltivare per mantenere la mano tesa alle forze cattoliche e centriste, come stabilito nel patto di Salerno. Anche dopo la "pedata" ricevuta, il Pci (fedele servitore dello Stato anche nei banchi dell'oppo­sizione a Sua Maestà) non si scompose e Scoccimarro dichiarava alla Costituente (Unità, 17-6-47): "Noi staremo all'opposizione con lo spirito di un partito di governo". E Togliatti (Unità, 21-6-47), incassando il colpo col sorriso sulle labbra, commentava: "Il nostro regime democratico si deve sviluppare a seconda del nostro genio nazionale"...

Era già evidente come le aspettative nazional­comuniste per un proprio ruolo di forza conser­vatrice, blandamente riformista e partecipante in modo diretto al governo del paese, si dimo­stravano al momento fallimentari al seguito del condizionamento internazionale che legava il PCI al polo imperialistico russo. L'importanza strategica che rivestiva la posizione geografica dell'Italia, impediva - secondo i contrapposti interessi imperialistici che si erano delineati - una partecipazione al diretto esercizio del pote­re da parte del partito di Togliatti. Ciò non avrebbe impedito allo stesso PCI di svolgere un importante ruolo (per gli interessi generali del capitalismo e della classe borghese) di sostegno e di "consigliere", tanto nella fase di "ricostru­zione nazionale" nell'immediato dopoguerra quanto in quella successiva della crisi economi­ca, con la distribuzione degli effetti più negativi

sulla classe operaia e sul proletariato in genera­le. La borghesia aveva ripreso saldamente nelle sue mani il potere e gli stati maggiori dell'affarismo, i maneggioni delle finanze, la Chiesa e l'alta burocrazia riprendevano il loro posto. I risultati dell'unità antifascista e della conquista della libertà erano sotto gli occhi di tutti; le tappe della "gloriosa marcia" erano state i Comitati di Liberazione, l'Esarchia, il governo tripartito e la Costituente. Ed ora, nonostante tutto, la consegna del partito di Togliatti - dopo aver barattato tutte le posizioni della lotta di classe del proletariato nel nome degli interessi nazionali e della ricostruzione dell'economia capitalista - rimaneva quella dell'assoluto rispet­to della Costituzione e della legalità democrati­ca borghese.

Disarmo del proletariato

Si era iniziato, in veste democratica e non più totalitaria, secondo i formalismi dell'assetto politico con cui di volta in volta si regge la società borghese, un'opera di spoliticizzazione e di totale disarmo della classe lavoratrice da parte delle forze controrivoluzionarie, allora dirette dallo stalinismo, e tale da impedire alla classe stessa la possibilità di ritrovare un suo preciso punto di riferimento rivoluzionario. È merito nostro, del Partito comunista internazionalista - lo affermiamo con orgoglio­sa certezza - aver quanto meno mantenuto quel punto di riferimento, con una critica e una rivendicazione dei presupposti teorici necessari per sviluppare una serrata ed approfondita analisi delle trasformazioni in atto, nel capitali­smo e nella fase imperialistica generale. Nono­stante le enormi difficoltà materiali ed ideologi­che, e le condizioni di una estrema debolezza organizzativa, la nostra corrente si è dimostrata capace di resistere fino ad oggi, confrontandosi con quanto di "nuovo" le accadeva intorno, e di presentarsi agguerrita criticamente, saldamente ancorata ad una piattaforma teorica e politica e ad una visione strategica nella quale si fonda­no tutte le prospettive della futura emancipazio­ne politica ed economica del proletariato inter­nazionale.

Pacificazione e concordia nazio­nale

L'intesa fra Pci e Dc fu quasi perfetta attorno al predominante sentimento di difesa dell'unità nazionale, presupposto alla ricostruzione dello Stato "democratico". Unità ("politica e morale della nazione", specificherà Togliatti), pacificazione e concordia saranno gli ingre­dienti indispensabili per il varo della nuova costituzione e per "l'avvento di una nuova classe dirigente". La quale, sulla base dell'assetto eco­nomico e sociale dominante, non poteva di punto in bianco mettere in discussione quel tessuto connettivo, quelle strutture portanti del­l'ordinamento statale che, partendo dal Risorgi­mento e passando attraverso il precedente "Sta­to monoclasse" dell'età liberale, dovevano per forza di cose restare in piedi. Anzi, dovevano essere consolidate perché la "nuova classe diri­gente" potesse svolgere il proprio compito, al servizio degli interessi nazionali. i richiami al­l'unione, alla pacificazione e concordia nazio­nale saranno dominanti in tutte le fasi dei dibat­titi della Costituente. La "particolare sensibilità" di Togliatti su questi temi merita un altro... imperituro ricordo:

L'unità politica e morale della nazione, anche se conquistata in virtù di un ordinamento che aveva senza dubbio gravi ed anche gravissimi difetti (...), è un bene prezioso, soprattutto per un paese il quale la possiede da poco tempo; in essa, insieme con la libertà e il rispetto della sovranità popolare e con il pro­gresso sociale, legato all'avvento di una nuova classe dirigente,

Seduta dell'11-3-1947

si individuava uno dei valori chiave che la costituzione repubblicana era chia­mata ad affermare.

Quanto al nuovo Stato repubblicano, la critica al "monoclassismo" del vecchio stato si risolveva nel "democratismo" del nuovo, questa volta con l'affermazione della sovranità non più allo Stato o alla nazione, ma al "popolo" inteso come entità sostanziale. Il che, per noi marxisti, conva­lida l'assunto della divisione in classi della socie­tà: anche gli ideologi della borghesia qui lo ammettono accennando ai "diritti" delle forma­zioni sociali e al pluralismo sociale. Qualcuno, scambiando lucciole per lanterne, ha persino scoperto una larga confluenza tra posizioni cattoliche e marxiste, "muovendo tutte colla stes­sa esigenza della tutela e del potenziamento della persona, che trova la comune radice nel messaggio evangelico, nel quale persona e so­cietà sono collegate fra loro come due aspetti della stessa realtà" (Mortori, Costituzione della Repubblica italiana in Enciclopedia del Diritto). Peccato che, nella cruda e materiale realtà e nonostante i soliti principi di eguaglianza for­male davanti alla legge (nei "punti di partenza" tanto cari alle sinistre), quelle persone si divida­no e si contrappongano all'interno della società nel ruolo di sfruttatori, i pochi "cittadini"... fortunati, e di sfruttati, la maggioranza.

La nuova nozione di Stato, che doveva cambia­re colore alla logora camicia nera dei suoi gestori e amministratori, si arrampicava sui vetri di formulazioni più adeguate - concettualmente - alle funzioni di un "intervento pubblico" che si era ampliato ormai ben oltre i tradizionali schemi, formulati da una borghesia ottocentesca e già ampiamente corretti dall'intervento fasci­sta. Si trattava di ripresentare lo Stato, l'Italia, come il custode neutro di un insieme di diritti fissi col fine unico della salvaguardia dell'interesse generale, universale. Una minestra riscaldata, senza dubbio, dove il contrasto crescente anche fra gli interessi interni alla stessa classe borghe­se, esigeva un ricorso a più idonei strumenti di mediazione istituzionale per una migliore tenu­ta e un rafforzamento del sistema complessivo. Per quanto riguardava l'altro contrasto, quello sociale fra borghesia e proletariato, il suo contenimento e il suo controllo dipendevano dai risultati di un ammaestramento ideologico che, a conti fatti, aveva già praticamente imbrigliato le masse proletarie. L'operazione politica consi­steva a quel punto nella "creazione" di organi meglio adatti alle nuove funzioni sociali, econo­miche e politiche, affiancati ai più tradizionali strumenti del dominio di classe. Tutto questo sul piano della concretezza politica meglio adatta a mantenere ed ampliare lo sfruttamento del lavoro, mentre sul terreno più astratto si alzava­no i vessilli della "dignità" della persona umana, "sacra e inviolabile", in un dilagante conformismo che incensava il "libero arbitrio" assicurato a ciascun individuo affinché esso possa sfruttare il lavoro altrui oppure essere sfruttato in piena legalità. Ed è per questo fine che la Repubblica figurerà fondata sul lavoro, cioè sul plusvalore estorto ai lavoratori salariati debitamente sfrut­tati dal capitale.

La pace religiosa

L'articolo 7 farà da ciliegina sulla torta, inseren­do nella Costituzione i Patti lateranensi stipulati da Mussolini con il Vaticano nel 1929, con il sostegno diretto del Pci;

Noi comunisti voglia­mo trovare la via perché la conciliazione nazio­nale non sia un nome vano. Noi non possiamo dimenticare la nostra storia, in cui tanta parte ha avuto la Chiesa (...) Nessuno voterà contro il Papa come nessuno voterà per il Papa. Alla Costituente si vota solo per o contro l'Italia.

Paletta, Unità del 21-3-1947

Quindi,

per lo pace religiosa e l'unità dei lavoratori i comunisti accettano di votare l'art. 7. Non vogliamo che sia turbata la pace religiosa del nostro Paese.

Togliatti, Unità 26-3-1947

Un gesto che con­sentirà al Migliore e al suo partito di compiere in un solo colpo una serie di "patriottici doveri":

Siamo convinti di compiere un dovere verso la classe operaia, verso la classe lavoratrice, verso il popolo italiano, verso la democrazia e la repubblica, e verso la nostra Patria.

Conclusione

Oggi altre esigenze, dettate dall'avanzante cri­si economica e sociale, sollecitano un premierato forte e una maggiore concentrazione dei poteri rimettendo in "democratica" discussione (e revi­sione) soluzioni e formule che - sia pure solo formalmente - intralciano l'aperto dispiegarsi dell'esercizio del potere borghese. Il suo raffor­zamento, in questi ultimi decenni, non può più tollerare ostacoli di sorta, si tratti pure di proce­dure funambolesche e di concetti normativi an­che solo marginali. Sulle rovine dei già fatiscenti principi che si pretese componessero "la sintesi civile della cultura democratica", cresce e si rassoda la pianta del premierato forte, magari illimitato, con conseguente cancellazione di con­trolli e garanzie sia pure solo formali e con un Parlamento che - svuotato di ogni potere - si adegua ai voleri del capo. Ci si avvia a conclu­dere l'opera che Craxi iniziò nel 1981 in nome di quella "governabilità" del Paese, e dei suoi superiori interessi, a cui si prostrano le ruffianesche maggioranze e minoranze parla­mentari, lautamente stipendiate.

Davide Casartelli

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.