Politiche sociali - Le lotte dei lavoratori

Sono anni che i lavoratori del sociale cercano di mobilitarsi ed, in alcuni momenti, il loro movimento ha vissuto delle punte significative, per quanto brevi e frammentarie. Sta di fatto che la situazione vive un rapido inasprirsi e la minaccia della perdita del lavoro per centinaia di migliaia di operatori, con la conseguente perdita di quel poco di assistenza della quale potevano usufruire milioni di utenti in condizioni di disagio, sta diventando una realtà.

A decine e decine si contano le case-famiglia, comunità-protette e case-alloggio in chiusura e, se da anni il privato sociale è riuscito a far fronte alla scarsità e discontinuità degli stanziamenti erogati attraverso l’indebitamento, oggi la situazione non è più sostenibile. Da ogni parte d’Italia si leva il grido di lavoratori del sociale che denunciano tagli ai fondi, chiusura di servizi e progetti, tagli all’assistenza: sono centinaia le cooperative sociali che rischiano di chiudere i battenti.

Nell’autunno 2010 gli operatori sociali napoletani sono scesi più volte in piazza, con una serie di occupazioni, dall’ex-ospedale psichiatrico Bianchi al Comune, dal Museo Nazionale al Maschio Angioino, facendo emergere la drammatica realtà del settore. Nella sola Campania le organizzazioni del Terzo Settore denunciano un credito di 500 milioni di euro verso la Regione e di 30 milioni nei confronti del Comune per servizi già erogati, ma mai pagati.

È questo uno dei primi settori, in particolare al Sud, ad aver sperimentato gli effetti nefasti della precarietà contrattuale introdotti dal “Pacchetto Treu” prima, dalla legge 30/03 poi ed, infine, dal Collegato Lavoro che, di fatto, rende estremamente difficile al lavoratore fare ricorso al Giudice del Lavoro nei confronti del datore di lavoro (prevedendo addirittura una clausola di rinuncia ad eventuali e futuri ricorsi all’atto stesso della stipula del contratto).

In Campania, ad esempio, la grande parte dei lavoratori del sociale ha un contratto precario e percepisce stipendi – con ritardi che a volte superano i due anni – di norma al di sotto dei 1000 euro al mese. Il Collettivo Operatori Sociali di Napoli denuncia – ed è probabile che il dato sia più veritiero di quello Istat - che su “650.000 operatori, in scala nazionale, solo 200.000 hanno applicato il CCNL, ma il 70% vive di contratti precari” e questo avviene principalmente perché il costo orario offerto in gare d’appalto costantemente al ribasso, è inferiore a quanto sarebbe necessario per applicare il CCNL (che pure è uno dei peggiori a livello nazionale, per ora). Sono questi lavoratori che da anni si muovono rivendicando, almeno, il minimo della continuità di servizi spesso interrotti per assenza di fondi (soprassediamo sull’importanza che ha la continuità in servizi rivolti alla persona in condizione di disagio). I meccanismi di controllo, valutazione e programmazione della L. 328/00 sono, di fatto, rimasti lettera morta.

Punti di forza e di debolezza

La crisi da anni erode le condizioni di questi lavoratori, ma, nonostante questo, il settore ha avuto una impressionante dilatazione, andando significativamente ad incidere, in termini di occupazione, sul numero complessivo degli occupati in Italia. Rispetto a questo dato numerico, il tracollo al quale le politiche sociali stanno andando incontro, prevedibilmente e salvo improbabili svolte, nel giro dei prossimi due-tre anni, ha una potenzialità di sviluppo del conflitto non indifferente. A Napoli, città “all’avanguardia” per le difficoltà delle politiche sociali, il movimento nell’autunno passato è riuscito ad unire gli operatori sociali e sanitari, anch’essi duramente colpiti, superando la storica frattura in una estensione del fronte di lotta che ha sicuramente un valore significativo.

Le amministrazioni politiche di sinistra è già da tempo che hanno dimostrato di non essere meglio dei loro compari di destra, venendo meno a tutti gli impegni presi con i lavoratori del sociale e dimostrando l’inutilità dei “Tavoli tecnici” più volte convocati nell’intento di ammortizzare la carica conflittuale dei lavoratori e di sviarli dai loro obiettivi. E’ inoltre evidente come i politici di destra e di sinistra si collochino in piena continuità quando si tratta di gestire i bilanci pubblici sulla pelle di lavoratori e utenti. Dalla riforma del Titolo V della Costituzione, al “Pacchetto Treu”, ai tagli già operati dai governi di centro-sinistra, c’è un’evidente linea di continuità con le politiche che oggi sta portando il governo di destra, anche se, certo, passare dall’evidenza alla presa di coscienza del significato reale di questi fatti non è cosa immediata.

Nel settore è poi praticamente assente il Sindacato confederale, mentre limitata è la presenza del sindacalismo di base. Ecco che, quindi, l’iniziativa di lotta è stata praticamente sempre presa da comitati, collettivi, coordinamenti autorganizzati (specie al Sud dove inferiore è l’incidenza dei CCNL e quindi minore l’interesse del sindacalismo ad intervenire), anche se spesso questi organismi sono animati da esponenti legati all’area politico-ideologica del radical-riformismo (1).

Infine la retorica del Terzo Settore come creatore di relazioni sociali ed economiche altre, alternative al sistema del profitto, che per tutti gli anni ‘90 e primi ‘00 è stata predominante, sta segnando il passo: la crisi del sistema si è infatti incaricata di dimostrare sempre più come il problema del Terzo Settore non sia quello di “creare un’alternativa al capitalismo dal suo interno”, bensì, quella di sopravvivere e, almeno, mantenere un livello di occupazione, reddito e servizio adeguati alla dignità di lavoratori e utenti. Inoltre, l’avanzare della crisi accresce le disparità sociali e, quindi, anche l’area di popolazione proletaria che necessita di interventi socio-assistenziali rendendo, se possibile, la situazione ancora più, potenzialmente, esplosiva.

I punti di debolezza sono invece, primariamente, riconducibili alla mistificazione propria della cooperazione sociale, per la quale il dirigente e il presidente, sono soci al pari degli altri lavoratori. Se questo può essere vero in alcune piccole cooperative, dove i presidenti sono essi stessi lavoratori, l’assemblea dei soci ha reale potere decisionale, i presidenti fanno valere la loro parola al pari, o meno, degli altri lavoratori etc., nella stragrande maggioranza dei casi questa visione cela una realtà nella quale vivono stridenti e contrapposti interessi di classe, legati al ruolo ricoperto nei confronti della struttura. Da un lato vi è chi ha redditi più elevati, prestigio, accesso alle “stanze del potere”, e interesse a mantenere la struttura per garantirsi questa condizione, dall’altra vi è chi lavora, non ha un reale potere decisionale ed è costretto a “stringere la cinghia” se la cooperativa “attraversa un momento di difficoltà” e, in generale, il suo interesse verte a mantenere il posto di lavoro, unica garanzia di sopravvivenza (oltre che, spesso, scelta di vita).

L’elevata incidenza di contratti di tipo precario e part-time tra questi lavoratori fa si che sovente, nell’economia familiare, l’entrata del lavoratore sociale non sia la principale fonte di reddito o che il lavoro sociale venga vissuto come un lavoro di passaggio in attesa di qualcosa di meglio, con conseguenze fisiologiche negative sulla tensione alla lotta nel caso di perdita o riduzione delle ore-lavoro.

Gli interventi sociali avvengono, poi, spesso, attraverso enti di dimensione medio piccola (le cooperative hanno in media 30 operatori), l’equìpe o il gruppo di lavoro ne raccoglie anche meno. Limitate sono quindi le possibilità di comunicare all’interno di un gruppo ampio, che viva condizioni omogenee.

Infine c’è un riflesso ideologico legato alla tipologia stessa del lavoro sociale, troppo spesso intrisa di senso filantropico-caritatevole-missionario (assistenzialismo), sentimenti legati alla tipologia stessa del lavoro, volto al mitigare e ammortizzare le condizioni di disagio vissute dell’utenza. L’operatore svolge, di fatto, la funzione dell’ammortizzatore sociale: trasformare la sua propria condizione di disagio in conflitto non è quindi automatico. Raramente, poi, i lavoratori del sociale sono riusciti a coinvolgere l’utenza e le famiglie nelle mobilitazioni.

Legato a questo c’è l’ultimo punto di criticità che riguarda le forme stessa della lotta: lo sciopero infatti, se è legittimo quando accompagnato da dimostrazioni pubbliche, non ha nessun valore in termini di danno economico perché, là dove è possibile farlo, va a danneggiare prevalentemente un utenza spesso già svantaggiata di suo. Questo, se esclude la possibilità di forme di sciopero tese a creare danno ai profitti, non esclude lo sciopero come momento di mobilitazione collettiva, coinvolgimento dell’utenza, solidarietà e apertura agli altri settori proletari colpiti dalla crisi e dai tagli.

Prospettive di sviluppo e possibilità di intervento

Nel trarre le conclusioni di questa ricerca è necessario partire dall’affermazione di un vecchio, ma incrollabile, principio del movimento rivoluzionario: l’emancipazione della classe proletaria sarà opera della classe proletaria stessa. È per questo motivo che i comunisti devono trovare, nel dispiegarsi concreto della lotta di classe, i motivi e gli strumenti per l’affermazione del proletariato come classe dirigente rivoluzionaria. E’ compito dei comunisti individuare le modalità nelle quali l’organizzazione dell’avanguardia proletaria possano interagire con le esperienze vitali di lotta della classe – e dei suoi vari settori -, per indirizzarle verso l’obiettivo della distruzione dello Stato e della società borghesi, nella prospettiva dell’affermazione del potere proletario e della costruzione della società comunista (va da sé che l’esperienza dell’edificazione della Russia stalinista e degli altri “socialismi reali” nulla hanno a che fare con questo programma).

Le forme che la lotta ha fin qui assunto e il problema delle piattaforme

Va salutata con piacere la nascita di decine di comitati e coordinamenti di lotta di operatori sociali un po’ in tutto lo stivale, segnali di ripresa di una vitalità di classe da troppo tempo sopita. Questi organismi sorgono da un bisogno reale, legato alla necessità di contrastare il taglio e la chiusura di molti servizi e strutture, il taglio di ore/lavoro, l’irregolarità e la miseria delle paghe, la precarietà dei contratti.

Deve essere però criticata una impostazione delle piattaforme di lotta imperniata sulla visione delle esperienze storiche del Terzo Settore come “un differente modello sociale” da contrapporre a chi “usa la crisi come pretesto per tagliare, avendo scelto di non trovare le risorse, che invece ci sono per la Tav, il ponte sullo Stretto, per i mig da mandare in guerra” (cit. da dichiarazioni del comitato “Il Welfare non è un lusso_”_), perché “i soldi ci sono, ma hanno deciso di spenderli male”.

Una tale impostazione del ragionamento è totalmente fuori da ogni possibilità di realizzazione concreta in questa società e, quindi, orienta le lotte dei lavoratori verso obiettivi irraggiungibili, esponendoli all’inevitabilità di cocenti delusioni e al riflusso dell’entusiasmo e della determinazione che potrebbero, invece, essere state messe in campo nel frattempo.

Questa piattaforma chiede, nelle sue rivendicazioni, rivendica che le Istituzioni scelgano la strada di “una programmazione delle politiche sociali seria, alla quale partecipino veramente i lavoratori del settore e i cittadini destinatari”. Ma rivendicare al movimento dei lavoratori il compito della reale attuazione dei meccanismi di programmazione e controllo previsti dalla L.328/00, significa piegarne la mobilitazione alle esigenze proprie dei dispositivi messi in essere dall’istituzione. Il Legislatore ha progettato tali meccanismi proprio al fine di riassorbire potenziali conflittualità all’interno di logiche e dispositivi interni al Sistema, col chiaro intento di disinnescarne il potenziale sovversivo.

L’illusione della possibilità di riorganizzare in maniera virtuosa le politiche sociali si fonda sull’assunto, esplicito o implicito poco importa, che una corretta allocazione delle risorse permetterebbe all’economia di tornare a crescere, al Sistema Italia di rialzarsi ed ai lavoratori di tornare alle condizioni di “quando si stava meglio”. Il punto debole di questa visione è che non prende in considerazione che il Sistema non può uscire dalla crisi, perché la crisi si genera dalla sua stessa essenza e, dal punto di vista del Sistema, la crisi ha possibilità di soluzione unicamente nell’imbarbarimento sociale e nella guerra (2).

(1) Definiamo come radical-riformismo l’area politica che va dall’estrema sinistra che si presenta alle elezioni, al sindacalismo di base alle variegate esperienze nate dalla vecchia “autonomia”, più o meno di classe. Caratterizza, nel complesso, quest’area il fatto che i suoi soggetti ritengono di dover operare all’interno del quadro istituzionale e delle compatibilità economiche. In nessun caso prendono, in fatti, in considerazione il progetto politico di scontrarsi non soltanto con le conseguenze economiche e sociali che il capitalismo produce freneticamente, ma anche contro la fonte prima di tutti questi guai: il sistema capitalista nel suo complesso ed il potere borghese che lo presiede. Per un primo approfondimento vedi “Considerazioni di classe sul movimento no global”. In internazionalisti.it .

(2) Questo tipo di impostazione politica delle piattaforme è proprio dell’area radical-riformista, come sopra definita.