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Israele
La crisi del capitalismo è sempre più generalizzata e fa sentire le sue conseguenze anche in quei paesi che le statistiche ufficiali avevano descritto fin qui in condizioni di salute più che buone come appunto Israele. Il movimento di protesta ha preso le sue mosse in luglio dalla ribellione di una giovane che, non riuscendo più a pagare l’affitto, ha montato la sua tenda in una delle vie centrali di Tel Aviv, e ha trasmesso la notizia sui social network. Come avvenuto nei paesi nordafricani nel giro di poche settimane l’iniziativa ha preso piede e centinaia di tende sono state montate in tutte le principali città israeliane.
Il motivo iniziale, l’aumento del costo delle case e degli affitti, che dal 2008 sono cresciuti rispettivamente del 55 del 28%, si è trascinato dietro a poco a poco tutti gli altri motivi di malcontento della popolazione: i prezzi sempre più alti dei generi alimentari, l’aumento del costo della benzina, che ha portato ad uno sciopero dei taxisti, il peggioramento dei servizi socio sanitari e dell’istruzione e i salari incredibilmente bassi di medici, insegnanti, dipendenti delle autorità locali, anche loro in sciopero. Tutto questo in un paese in cui il 15,36 per cento degli investimenti pubblici per la costruzione di alloggi va ai coloni, che sono meno del 4 per cento della popolazione e le spese militari sono ovviamente altissime; la ricchezza è molto concentrata, c’è chi dice addirittura in una ventina di famiglie, e un quinto della popolazione è al di sotto della soglia di povertà.
Il 6 agosto a Tel Aviv c’è stata una manifestazione di duecentocinquantamila persone - su una popolazione di mezzo milione di abitanti- e altre si sono avute un po’ dappertutto; la manifestazione ha guadagnato la simpatia della stragrande maggioranza degli israeliani e paradossalmente non ha sdegnato di identificarsi con i movimenti di protesta che nei paesi arabi hanno rovesciato i dittatori al potere.
I limiti ideologici di questo movimento sono però iscritti nel suo interclassismo. Esso rifiuta l’identificazione con qualunque partito del panorama politico nazionale, e fin qui andrebbe bene, ma pretende di portare avanti le sue rivendicazioni rifiutando di scendere su un terreno politico - cosa che probabilmente lo porterebbe a spaccarsi- e rifiuta, salvo alcune frange, di porre il problema dell’unità d’azione con il proletariato palestinese contro le rispettive classi dominanti. Quando il governo Nethanyahu, volendo recuperare una situazione che gli stava sfuggendo di mano, ha offerto il “dialogo”, i leader del movimento hanno risposto nominando un comitato consultivo di 60 membri tra cui professori universitari, rabbini moderati, e l’ex vicegovernatore della Banca d’Israele.
In una situazione in cui comunque vasti settori proletari stavano entrando nella lotta, portando avanti istanze più radicali, è piovuta quindi come la manna dal cielo per il governo il riacutizzarsi della crisi con i palestinesi, forse nemmeno tanto casuale nel suo determinarsi; essa ha permesso di mettere in secondo piano la questione sociale e di rilanciare per il momento la necessità dell’unità nazionale al di là di tutte le differenze di classe, dimostrando una volta di più, se ce ne fosse stato bisogno, che una guerra è sempre, oltre e più che una guerra tra frazioni borghesi, la guerra della classe dominante contro le classi subalterne.
USA
Nel mese di agosto negli stati Uniti si è assistito ad una delle più grandi mobilitazioni proletarie degli ultimi anni: uno sciopero di due settimane indetto dai lavoratori della Verizon, il secondo operatore americano nel settore delle telecomunicazioni. Alla base della protesta è stata la richiesta da parte aziendale di far pagare ai dipendenti parte dei contributi sanitari, ridurre drasticamente quelli per i neoassunti, congelare per almeno un anno la maturazione dei trattamenti pensionistici e per finire i consueti tagli alle copertura per malattia. Alla mobilitazione hanno preso parte 45 mila lavoratori del settore telefonia fissa, quello che ha subito negli ultimi anni il maggiore ridimensionamento per lo sviluppo della telefonia cellulare e via internet, e di conseguenza quello contrattualmente più debole nonostante sia il più sindacalizzato: infatti nel tempo l’azienda ha spostato i nuovi business su società in appalto e su settori non sindacalizzati.
Il management nelle sue dichiarazioni ha parlato della necessità di prevenire (con diversi anni di anticipo) gli effetti della riforma sanitaria di Obama che dal 2018 imporrà una tassazione molto pesante nei confronti dei piani di copertura sanitaria più “generosi”, definiti enfaticamente “Cadillac plans”. La riforma ha fornito il pretesto alla Verizon per ricontrattare al ribasso i costi dell’assistenza sanitaria dei suoi dipendenti. Anche altre compagnie, per esempio la Boeing, stanno pensando di spingere i loro dipendenti verso piani che prevedano minori coperture o maggiori deduzioni in busta paga a carico del lavoratore.
Lo sciopero si è concluso per il momento con una pesante sconfitta per la minaccia della Verizon di sospendere completamente i contributi sanitari a tutti coloro che non avessero ripreso il lavoro entro la fine di agosto, e il conseguente intervento pompieristco dei due sindacati più rappresentativi: la CWA (Communication Workers of America) e la IBEW (International brotherhood of electrical workers) che pur avendo indetto lo sciopero si sono accontentati di una generica promessa dell’azienda di avviare una onesta contrattazione (bargain fairly) ma non hanno ottenuto la revoca neanche di un solo punto del piano. Dopo due settimane di sacrificio stipendiale dei lavoratori coinvolti, con l’azienda che accusava gli scioperanti di atti di vandalismo, chiedeva e otteneva un’indagine dell’FBI nonché l’intervento di vari tribunali locali che hanno emesso sentenze che limitano la partecipazione ai picchetti (in rapporto al numero di crumiri) e ne regolamentano la distanza minima dalle porte di ingresso, quando il sindacato avrebbe dovuto incominciare a versare il contributo per la cassa di resistenza si è firmato il ritorno al lavoro, con due beffe aggiuntive: la temporanea sospensione dei limiti al lavoro straordinario - per recuperare il tempo perduto - e l’accanimento contro almeno 80 lavoratori accusati di atti di sabotaggio ai danni dell’azienda, in realtà probabilmente protagonisti dell’inasprimento dei picchetti di protesta.
Da notare che l’azienda è florida finanziariamente e ha avuto tre miliardi di profitti lo scorso anno, dunque i sindacati si sono precipitati a tutelare la salute dell’azienda, più che quella dei lavoratori, molto prima che essa fosse in pericolo. L’anno scorso i soli cinque dirigenti più importanti sono costati all’azienda 285 milioni di dollari. Quando si dice essere tutti sulla stessa barca…
MBBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #09
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