Lotte operaie nel mondo: Bangladesh-Cambogia, Egitto

Bangladesh-Cambogia

La delocalizzazione delle imprese nei paesi dove i costi di produzione, ed in particolare della forza lavoro, sono più bassi (eufemismo per dire dove i salari sono letteralmente da fame) è ormai divenuta una pratica costante dell’attuale fase capitalistica.

Un esempio paradigmatico è rappresentato dal settore tessile (caratterizzato da un giro di affari di oltre 600 miliari di dollari nel 2008), dove i “Paesi emergenti” hanno ormai soppiantato i “Paesi industrializzati” nella produzione ed esportazione della maggior parte dei capi di abbigliamento.

La fine dell’accordo Multifibre nel 2005, che attraverso la cessazione del sistema delle quote di esportazione assegnate a ciascun paese ha definitivamente liberalizzato il sistema degli scambi internazionali, ha ulteriormente accelerato il processo.

Nel Bangladesh l’80% dell’export è rappresentato dall’abbigliamento (diretto soprattutto verso gli Stati Uniti e l’Europa) che attraverso le 4.500-5.000 imprese assorbe oltre tre milioni di lavoratori.

Alla base del miracolo economico (rappresentato, lo scorso anno, da circa 19 miliardi di dollari) si presenta la solita realtà di sfruttamento selvaggio, con orari di lavoro massacranti, miseri salari, garanzie pressoché assenti (o puramente simboliche), ambienti insalubri e pericolosi (si stima che circa 500 lavoratori siano morti, negli ultimi 5 anni, in incendi scoppiati in aziende tessili).

La giornata lavorativa è in media di 14 ore, con un solo riposo mensile e 3000 Taka di stipendio (l’equivalente di circa 34,5 euro), appena sufficiente a procurarsi l’alloggio e due ciotole di riso al giorno; il 17,5% della forza lavoro è rappresentata da bambini ed adolescenti fra i 5 ed i 15 anni.

Le dure lotte che i lavoratori del tessile hanno portato avanti negli scorsi anni hanno comunque consentito di ottenere aumenti salariali (due anni fa si è passati da 1.662 taka agli attuali 3.000 taka) che si sono tuttavia dimostrati del tutto insufficienti a far fronte all’inflazione (in particolare ai costi delle abitazioni e degli affitti).

Gli operai del settore tessile, all’inizio di questa estate, sono nuovamente scesi in sciopero intorno alla capitale di Dhaka, bloccando oltre 300 fabbriche ed importanti arterie stradali, per rivendicare ulteriori aumenti salariali che portino gli stipendi ad almeno 5.000 taka (78 euro).

Gli incidenti sono dilagati dopo che un lavoratore della Sweater Factory, appartenente alla Sq Group (che produce per grandi marchi occidentali), è stato ucciso dalle forze di sicurezza e nascosto in un sacco di iuta in un magazzino. La risposta dello Stato (che come al solito, quando lo scontro sociale si palesa, si dimostra strumento di oppressione al servizio della classe dominante) non si è fatta attendere, con l’intervento di squadre speciali, lacrimogeni e proiettili di gomma che hanno ferito un centinaio di lavoratori; i padroni sono inoltre ricorsi alla serrata, con la chiusura di circa 250 fabbriche (comunque repentinamente interrotta per far fronte agli ordinativi).

Il 25 luglio i rappresentanti di 19 marche del mercato mondiale (fra i quali Wal-Mart, H&M, Gap, Carrefour, Mark&Spancer) hanno incontrato il ministro del lavoro di Dhaka per manifestare le loro preoccupazioni in caso di nuove manifestazioni e violenze.

I grandi marchi, che giocano un peso determinante per l’enorme supporto delle loro fabbriche all’economia nazionale del Bangladesh, hanno affermato che “i continui disordini ostacolano la produzione e questo causa ritardi nella consegna degli ordini”.

Il governo del Bangladesh, nel tentativo di ripristinare l’ordine e tranquillizzare capitalisti e mercati si è impegnato a perseguire misure volte a contrastare l’inflazione.

Attualmente la protesta, senza aver raggiunto risultati tangibili, sembra rientrata, anche se circoscritti scioperi e proteste si stanno nuovamente riaccendendo nel Paese.

Egitto

Poco dopo l’insediamento di Morsi, una nuova ondata di proteste sta scuotendo l’Egitto, con scioperi che stanno interessano lavoratori della sanità, delle ceramiche e del settore tessile.

La città di Mahalla el-Kubra (centro industriale a 60 Km a nord del Cairo), già sede delle prime proteste contro Mubarak, rappresenta l’epicentro della protesta, con 22.000 dipendenti della Misr Spinning and Weaving Company che rivendicano una migliore assistenza sanitaria, un aumento delle retribuzioni (da 7.00 a 1.000 lire egiziane –da 90 a 130 euro circa-) ed il licenziamento del direttore generale.

Gli scioperi si sono rapidamente diffusi in diversi settori sia pubblici che privati: i lavoratori della Sukkari hanno bloccato le strade intorno a Marsa Alam contro il licenziamento arbitrario di 29 colleghi, mentre negli stabilimenti delle ceramiche Cleopatra si svolgono iniziative volte ad impedire la chiusura della fabbrica.

Dopo la caduta del regime di Mubarak, effettivamente, la conflittualità sociale non è mai venuta meno in Egitto, proprio perché alla base della protesta non c’erano tanto le aspirazioni politiche borghesi, quanto le pesanti condizioni economiche-sociali aggravate dalla crisi capitalistica mondiale.

Dall’inizio della protesta contro Mubarak, per esempio, nel solo settore ferroviario ci sono state ben 870 proteste, mentre lo sciopero degli insegnanti nel settembre del 2011 aveva coinvolto circa mezzo milione di lavoratori.

Il cambio della guardia ai vertici delle istituzioni borghesi non poteva d’altronde eliminare le contraddizioni del capitalismo egiziano e le speranze che vasti strati di lavoratori avevano riposto nel nuovo corso politico stanno inevitabilmente venendo meno.

In questo senso le dichiarazioni del partito “Libertà e Giustizia” , che ha ottenuto la maggioranza parlamentare e vinto le elezioni politiche, sono apparse subito piuttosto controverse e per lo più volte ad arrestare gli scioperi, se non addirittura a stroncarli con la forza.

D’altra parte, se ancora ci fosse bisogno di ribadire la natura pienamente borghese di certe formazioni politiche, fra il massimi dirigenti della Fratellanza Mussulmana si trovano uomini d’affari milionari (come Khairat Al-Shater e Hassan Malek) ed in diverse occasioni l’organizzazione ha rilasciato dichiarazioni favorevoli alla politiche di privatizzazione e all’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro.

GS
Martedì, September 4, 2012

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.