Il disastro delle fabbriche in Bangladesh: per il capitale, le vite degli operai sono sacrificabili

Rahima Begum, 30 anni, sapeva che qualcosa non andava molto tempo prima che l'edificio in cui lavorava le crollasse addosso. Il giorno prima, aveva percorso le scale fino al quinto piano della “Ether Textile” e aveva cominciato il suo turno di di lavoro davanti ad una macchina da cucire... Per Begum, la giornata del 23 aprile è stata piena di avvertimenti. Alle 10 di mattina, i lavoratori di altre fabbriche e uffici avevano evacuato l'edificio. Mezz'ora dopo, un dirigente, di cui non fa il nome, le disse che anche il suo piano doveva essere evacuato. “Il dirigente disse che era scoppiata una caldaia al terzo piano”, ha riferito Begum giovedì, in un'intervista rilasciata dalla baracca di una sola stanza che condivide con il marito e la loro figlia di 7 anni. “Era una bugia.” Begum uscì quindi con tutti quelli del quinto piano. Aspettò. Pranzò. Quando tornò, la fabbrica continuava a vibrare – con crepe chiaramente visibili nelle pareti. Ha riferito che il dirigente disse loro che i muri sarebbero stati subito riparati e che l'indomani l'edificio sarebbe stato “perfetto”. Ma no lo fu. Le fessure erano ancora lì e centinaia di lavoratori si rifiutarono di entrare, secondo le sue parole. Il portavoce della Brac Bank, Zeeshan Kingshuk Huq, ha riferito che la sera prima i funzionari della banca avevano fatto sgomberare i locali ai loro dipendenti, nello stesso edificio. I dirigenti della Ether Tessile presero la decisione opposta. Begun ha riferito che minacciarono di trattenere ai lavoratori un mese di paga, se non fossero entrati immediatamente. Non è stato possibile raggiungere i funzionari della Ether Tessile per un commento. “Ero impotente, – ha detto – non riesco a pensare ad un giorno senza lavoro.” Dietro la rassicurazione dei dirigenti, che l'edificio era sicuro, iniziò a lavorare. Un'ora dopo – il buio. La corrente elettrica era saltata. “Ho sentito un tonfo al cuore”, ha detto. Poi i pilastri cominciarono a crollare.

Dal Toronto Star

Con monotona e tragica regolarità, le notizie di “incidenti” mortali nelle fabbriche tessili del Bangladesh catturano brevemente l'occhio dei media di tutto il mondo. Di solito è la storia di lavoratori che vengono uccisi o feriti in un orrendo incendio della loro fabbrica. La scala delle morti e delle lesioni, tipicamente, non è solo il risultato di norme di sicurezza permissive da “Terzo Mondo”, ma la conseguenza diretta della pratica di bloccare le uscite di sicurezza, chiudendo i lavoratori all'interno dell'edificio, senza lasciare loro alcuna via di scampo. Così è successo lo scorso dicembre, quando almeno 117 lavoratori morirono nell'incendio di una fabbrica alla periferia di Dhaka. Anche se la scala delle morti evocò delle proteste, il fuoco in sè non era nulla di insolito (1).

Tuttavia, il 24 aprile, la notizia del grave disastro cominciava appena ad emergere. Quando le crepe emerse in un edificio di 8 piani, che ospita – tra centinaia di altre imprese – cinque fabbriche tessili che impiegano più di 3.500 lavoratori, gli occupanti sono stati invitati a evacuare. Alcuni lo hanno fatto, ma i dirigenti delle fabbriche tessili, sotto pressione per mantenere gli stringenti piani di produzione e incoraggiati dal proprietario dell'edificio – Rana Sahel, un politico locale collegato alla sezione giovanile della Awami League – hanno per lo più ignorato gli avvertimenti e continuato con il “business as usual”. Nel momento in cui scriviamo il bilancio della tragedia è salito a oltre 1100 morti e migliaia di feriti (2).

Migliaia di lavoratori tessili sono scesi in piazza per protestare e chiedere condizioni di lavoro più sicure (3). Il governo ha mostrato attenzione con gesti di facciata, come dichiarare una giornata di lutto e annunciare che il proprietario dell'edificio sarà punito. Allo stesso modo, l'associazione padronale BGMEA (Bangladesh Garment Manufacturers e Exporters Association) ha revocato l'adesione delle aziende che operavano nel Rana Plaza e ha chiesto che i responsabili del crollo siano perseguiti. (Il BGMEA ha poi consegnato alla polizia il proprietario e amministratore delegato di New Wave Style, una delle società frettolosamente espulse, mentre Sahel Rana è ancora “in fuga”.) Chiaramente i padroni ed i politici sono preoccupati, non tanto per la situazione dei lavoratori, quanto per l'effetto che questo evento potrebbe avere sui grandi acquirenti internazionali, del calibro di Walmart, Primark e molti altri, che dettano le regole.

È ben noto che il settore del cosiddetto abbigliamento prêt-à-porter in Bangladesh deve il suo successo nel mercato globale alla quotazione inferiore ai prezzi cinesi, resa possibile da una costante fornitura di forza lavoro, prevalentemente femminile, straordinariamente a buon mercato. Dato che i costi per la produzione di vestiti in Cina sono aumentati, i grandi distributori stanno adeguando le loro catene di fornitura: i sostituti preferiti sono la Cambogia, il Vietnam, il Pakistan, ma soprattutto il Bangladesh, con la sua vasta rete di fabbriche tessili già sviluppata. Come ha scritto con tono pratico il Financial Times, il giorno dopo il disastro delle fabbriche a Dhaka:

Le rivendicazioni dei lavoratori cinesi per condizioni di lavoro migliori e una retribuzione più elevata hanno spinto i produttori a cercare alternative più economiche.

Oggi il Bangladesh è il secondo maggiore produttore di abbigliamento al mondo, con esportazioni pari a 19 miliardi di dollari, ovvero quasi il 70% delle esportazioni totali del Paese. Non che in questo ci sia qualcosa da festeggiare, per i tre milioni e mezzo di lavoratori schiavizzati per 15 ore al giorno, per 37 dollari al mese, nelle soffocanti e pericolose fabbriche in condizioni di supersfruttamento (tanto da parlare di “sweatshop”), di solito con le finestre sbarrate e le porte chiuse a chiave. Il fatto che i lavoratori tessili abbiano dovuto lottare anche per questi miseri stipendi (4) e che le centinaia di morti in “incidenti” non abbiano portato alcun miglioramento alle loro spaventose condizioni di lavoro, evidenzia il totale disprezzo per la loro vita e per il loro benessere da parte del governo e dei padroni, che ora stanno professando tanta preoccupazione per la violazione delle (rudimentali) norme di sicurezza e per la perdita di vite umane.

Anche se è vero che le marche famose in High Street non vogliono che i loro prodotti al dettaglio soffrano di cattiva pubblicità e siano generalmente associati alle spaventose condizioni di una tipica fabbrica di indumenti del Bangladesh, è anche vero che le campagne dei numerosi gruppi riformisti, per salari e condizioni di lavoro migliori, hanno avuto effetti minuscoli per i lavoratori di quell'area. Piuttosto, “le marche” hanno professato di rispettare i principi di “Labour Behind the Label”, “Clean Clothes Campaign” ecc. al fine di evitare una cattiva pubblicità per i loro punti vendita, mentre si disinteressano cinicamente di cosa succeda veramente nelle loro catene di fornitura.

Un motivo molto più pressante per i compratori occidentali, per pensare di andarsene dal Bangladesh, è il più ampio disordine politico associato alla acuta rivalità tra Awami League, al governo, e i suoi avversari, in particolare il partito islamico Jamaat-e-Islami e il Bangladesh Nationalist Party, suo alleato. La Awami League ha cercato di avvantaggiarsi politicamente attraverso l'istituzione di un processo per crimini crimini di guerra contro un esponente di spicco della Jamaat-e-Islami, per reati commessi durante la “guerra di liberazione” contro il Pakistan, nel lontano 1971. (In generale, la classe dirigente è divisa tra nazionalisti etnici e musulmani ortodossi, che avrebbero preferito rimanere con il Pakistan.) Entrambe le parti stanno portando i loro sostenitori per le strade e un centinaio di persone sono già state uccise. C'è la prospettiva di ulteriori disordini, quando il tribunale emanerà il suo verdetto, tra maggio e giugno. Peggio ancora, per le fabbriche che riforniscono le marche occidentali, gli scioperi e le proteste politiche stanno disgregando le catene di fornitura. Come spiega Amy Kazmin, corrispondente del Financial Times, anche prima del crollo dell'edificio di Rana Plaza,

la pazienza degli acquirenti occidentali aveva già cominciato a sfilacciarsi”. Infatti “il blocco dei trasporti – compresi strade e porti – e la chiusura degli uffici pubblici, compresi quelli doganali, hanno impedito l'importazione di materie prime e la spedizione in tempo utile dei prodotti finiti verso le loro destinazioni.

Financial Times, 2013-04-26

Già i padroni delle fabbriche di vestiti si lamentano di aver perso nuovi ordini, per un valore di 3 miliardi di dollari, e visto ordini del valore di 500 milioni di dollari trasferiti in India.

Quando si tratta di spostare la sua fornitura di forza lavoro a buon mercato, il capitale globale nomade non conosce confini. Man mano che la crisi capitalista mondiale si acuisce, la battaglia per “mantenere la competitività” e superare i rivali diventa più dura. I lavoratori di tutto il mondo affrontano una rapida contrazione dei salari e un peggioramento delle condizioni di lavoro. La realtà in Bangladesh, come altrove, è che i ricchi diventano sempre più ricchi ed i poveri ancora più poveri. È ridicolo sostenere – come hanno fatto alcuni commentatori, nella scia del disastro fabbrica di Dacca (5) – che, nonostante i bassi salari e le terribili condizioni di lavoro, gli operai urbani in luoghi come il Bangladesh stanno meglio rispetto alle loro controparti rurali e che, a lungo termine, lo “sviluppo” capitalista porterà a livelli di vita più elevati. Come se uno sviluppo economico indipendente fosse oggi possibile, quando gli investimenti di capitale sono guidati da tassi di profitto determinati a livello globale.

Lungi dal proteggere il benessere dei lavoratori, il cui lavoro crea il profitto che sta dietro al grosso del reddito nazionale, il ruolo dello Stato è quello di proteggere gli interessi del capitale internazionale e garantirne i profitti. Se non può farlo, il capitale se ne andrà a cercare altrove una fonte di lavoro più “affidabile” ed ancora più conveniente. Infatti, l'industria dell'abbigliamento sta già “diversificando”, chiudendo un occhio sulle condizioni di lavoro infernali, simili a quelle degli “sweatshop” di Dhaka. Lo scorso settembre quasi 300 lavoratori morirono nell'incendio di una fabbrica di abbigliamento nella città pakistana di Karachi. La dura verità è che, con il peggioramento della crisi economica, ci saranno “incidenti” sul lavoro ancora più disastrosi, che metteranno sempre più a rischio la vita dei lavoratori nella ricerca spietata di profitti più elevati.

Per chi ha occhi per vedere, c'è solo una soluzione razionale: cioè che i lavoratori di tutto il mondo si sollevino e si liberino di questo sistema nefasto che, nonostante la disponibilità di mezzi che potrebbero garantire un'esistenza civile per tutti, esiste principalmente a condizione che il lavoro della maggioranza possa essere sfruttato per fornire profitti per pochi.

ER

(1) Vedi il nostro articolo 2011 “Bangladesh: i lavoratori lottano per un salario da sopravvivenza”, pubblicato originariamente su Revolutionary Perspectives 56 e disponibile sul web.

(2) Nella versione originale, in inglese, si parlava ancora di 352 morti e circa 900 persone sepolte sotto le macerie, N.d.T.

(3) Dopo gli oltre 1100 morti del Rana Plaza, i lavoratori bengalesi stanno portando avanti dure lotte, per ottenere sicurezza e migliori condizioni di lavoro. Oltre trecento fabbriche hanno dovuto sospendere le attività nel distretto industriale della capitale Dhaka in seguito agli scioperi e alle proteste dei lavoratori. Per far fronte alla situazione esplosiva, il governo ha iniziato a concedere maggiore libertà di associazione sindacale e qualche misero aumento salariale, portando la paga minima legale a 30 euro al mese. (N.d.T.)

(4) Vedi anche l'articolo sul Bangladesh pubblicato in Revolutionary Perspectives 41.

(5) Vedi, per esempio, Alex Massie, “In Praise of Sweatshops” sul sito di The Spectator, 2013-04-26.

Domenica, June 2, 2013