Contro venti e maree - Per i settant'anni del Partito Comunista Internazionalista

Una volta tanto bisogna pur fare i conti della propria contabilità politica.

Così si esprimeva Onorato Damen dopo che si era appena conclusa un'esperienza, ai tempi (1957), tanto discussa, per la quale il partito si era speso molto, senza farsi illusioni sull'esito della stessa.

Facciamo nostre quelle considerazioni e, sulle spalle di O. Damen, proviamo a tracciare, sinteticamente, un bilancio di settant'anni di vita dell'unica organizzazione rivoluzionaria nata nella bufera del secondo macello imperialista, la sola che abbia cercato in maniera organica di offrire al proletariato un'alternativa al capitalismo, proprio quando esso mostrava il suo volto più feroce, quello della guerra.

Siamo dunque ancora vivi, benché più di uno abbia recitato per noi il de profundis, accompagnato dagli apprezzamenti di rito: tanta brava persona, il caro estinto. Lasciamo perciò quei personaggi a portare fiori su di una tomba vuota, anche se le dinamiche della società borghese hanno fatto e fanno di tutto per spingerci in quel sarcofago, sia politicamente che, un domani, all'occorrenza, fisicamente.

Dalla nascita alla rottura del 1952

Il Partito Comunista Internazionalista nacque nel corso del 1942, sebbene “ufficialmente” comparisse sulla scena politica nell'autunno del 1943, con il primo numero di Prometeo, naturalmente clandestino. I compagni che diedero vita al partito erano concentrati soprattutto tra Piemonte e Lombardia, cioè nel cuore della classe operaia italiana. Provenivano, in genere, da una lunga militanza nelle file della “Sinistra italiana”, quella che aveva dato origine al Partito Comunista d'Italia nel 1921, e se anche fin da allora venivano etichettati come bordighisti, è un appellativo alquanto improprio, benché Bordiga abbia dato un contributo teorico-politico di primo piano alla “Sinistra” stessa. Di solito, gli internazionalisti avevano conosciuto galere e la vita precaria dell'esilio, da cui riportarono, dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, l'esperienza politica della Frazione (1). Prima ancora, molti di quei compagni avevano combattuto sul nascere la controrivoluzione staliniana, lotta culminata col Comitato d'Intesa (1925), di cui, non a caso, Onorato Damen era stato uno dei principali animatori, nonostante le resistenze di Bordiga, al quale, però, va poi ascritta la maggior parte dei documenti politici prodotti dal Comitato stesso.

La nascita del partito avvenne in un momento in cui la classe operaia rompeva, con scioperi massicci, il clima di pace sociale imposto da vent'anni di fascismo e rafforzato dalla guerra in corso, mettendo oggettivamente in discussione la guerra stessa e il capitalismo che l'aveva generata. Inutile dire che “Prometeo” non solo sostenne con entusiasmo gli scioperi, ma coi suoi militanti vi partecipò attivamente.

Il partito si sviluppava, tra difficoltà enormi, quando il PCI concludeva in maniera ufficiale, per così dire, la sua traiettoria degenerativa, appoggiando il versante “Alleato” della guerra imperialista, partecipando alla costituzione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) e sostenendo il governo di Badoglio, fucilatore di operai, massacratore di umanità inerme nelle guerre africane, per citare solo le vittime civili di una lunga carriera al servizio della borghesia.

Le posizioni politiche dell'organizzazione, contenute nello “Schema di programma” del 1944, benché per alcuni aspetti, come quello sindacale, fossero ancora “in divenire”, nel complesso posero con chiarezza le pietre angolari su cui far crescere l'organizzazione rivoluzionaria: certe questioni, che avevano travagliato la vita della Frazione, quali la natura sociale dell'URSS, erano state risolte dai compagni rimasti in Italia da molto tempo. L'Unione Sovietica era definita per quella che era, un regime a capitalismo di Stato, il partito “comunista” longa manus di tale regime, volto a indirizzare il proletariato verso il sostegno di uno dei fronti imperialisti durante la guerra e la ricostruzione borghese dopo. Si dava infine per scontato che il sindacato, in quel momento assente per forza di cose, con la fine del conflitto sarebbe stato uno strumento potente nelle mani della socialdemocrazia e dello stalinismo. Lo “Schema di programma”, per quanto documento “provvisorio”, era più avanzato – dal punto di vista dell'inquadramento rivoluzionario dei problemi – della “Piattaforma” del 1945, redatta da Bordiga, il quale non era e non sarà mai iscritto al partito. Le zone d'ombra, i passi indietro teorico-politici, i primi segnali di un'involuzione in senso meccanicistico-idealista di Bordiga, assumeranno una forza dirompente nel corso degli anni fino alla rottura del 1952. Fatto sta che la “Piattaforma” era stata intesa più come un contributo alla futura discussione congressuale che come la carta d'identità fatta e finita del partito; essa conteneva già in nuce elementi che, sviluppatisi in seguito, daranno vita all'aera del bordighismo.

Tornando allo “Schema”, era più che sufficiente per orientare il partito nella situazione complicatissima della guerra, sia riguardo agli schieramenti politico-militari sul campo, che, soprattutto, al fenomeno del partigianesimo, nutrito in gran parte da generose forze proletarie, in genere sinceramente intenzionate a combattere il capitalismo, lottando contro il nazifascismo, ma completamente succubi dell’ideologia e dell’indirizzo politico del CLN. Il suo compito era di tenere bloccate sul terreno dell'antifascismo borghese quelle forze, deviandone e spegnendone il potenziale anticapitalistico sul terreno della guerra imperialista, schierandole a sostegno di uno dei fronti belligeranti. Il partito, dunque, mentre denunciava come un tragico inganno antiproletario la politica del CLN – diretta a dare un abito nuovo, democratico, al capitalismo postbellico – si sforzava, nei limiti operativi strettissimi che gli erano consentiti, di fare chiarezza politica tra le forze partigiane, indicando puntualmente i limiti del moto antifascista che si era sviluppato, per spostarle sul terreno di classe, per unificarle col corpo centrale del proletariato rimasto sui luoghi di lavoro: questo, non la guerriglia, era la base da cui partire per abbattere il capitalismo. Sia detto per inciso, il partito non cadeva nell'astrattismo, sapeva benissimo che molti erano saliti in montagna per sfuggire alle persecuzioni, per disertare la guerra e che non sarebbero potuti tornare tranquillamente a casa: per questo, l'indicazione politica, e militare, che veniva data era quella di attestarsi a difesa di loro stessi e delle loro famiglie, se necessario, di custodire esperienza e armi per metterle a disposizione della classe nel dopoguerra ormai imminente. Né con Kesserling né con Alexander: né con l'impiccatore di partigiani, il massacratore di villaggi inermi all'insegna della croce uncinata, ma neanche col rappresentante del non meno feroce imperialismo britannico, che invitava i partigiani, nel duro inverno del '44, a tornare a casa come se questo non fosse equivalso a una condanna a morte.

Le bugie, dettate da crassa ignoranza o interessata malafede, sul ruolo dei compagni durante la seconda guerra mondiale, ci hanno accompagnato fin dal 1944, quando il PCI indicava i nostri compagni come agenti della Gestapo e invitava i partigiani a trattarci come tali. In almeno due occasioni l'istigazione all'omicidio ebbe seguito: con Fausto Atti, nel bolognese, e Mario Acquaviva nell'astigiano.

Il nostro, dunque, non era indifferentismo – magari venato di vigliaccheria, come qualcuno amava insinuare – ma l'unico atteggiamento coerentemente comunista nei confronti della guerra. Nessun altro, nemmeno gli anarchici, assunse un punto di vista così nettamente classista (2).

In ogni caso, nessuno si faceva illusioni sulle possibilità di presa delle posizioni politiche del partito sulla classe durante la fase terminale del fascismo e sull'apertura di una ripresa rivoluzionaria nel dopoguerra, ma si prospettava (e si sperava) che i lutti, le miserie, il dissesto economico avrebbero dischiuso spazi di intervento e di radicamento del partito. Contrariamente a quanto affermano recenti ricostruzioni storiche (3), lo scenario che i “liberatori” anglo-americani avrebbero aperto era colto, nelle sue linee generali:

Questo è comunque certo: che la vittoria, una vittoria schiacciante delle potenze dell'Intesa [gli Alleati, N.d.R.] rafforzerà enormemente il fronte di resistenza del capitalismo mondiale e restringerà le possibilità obiettive della rivoluzione proletaria. Si ha la riprova della giustezza di questa analisi nella constatazione che una parte del proletariato “sente” la guerra democratica e guarda ad essa e alla sua vittoriosa conclusione come se si trattasse della “sua” guerra e della “sua” vittoria (4).

Questa valutazione verrà, purtroppo, confermata dai fatti e ribadita più volte negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto, sulla stampa e nei “momenti” più alti del partito, quali il convegno di Torino del 1945 e il congresso di Firenze del 1948. Anzi, se mai ci fu qualche compagno che si aspettava l'apparire di una fase rivoluzionaria, in cui il partito avrebbe potuto esercitare il suo ruolo di guida, questo va cercato tra coloro che, delusi del modo in cui si sarebbero messe le cose, di lì a poco avrebbero teorizzato il “non c'è niente da fare” e quindi l'eliminazione del partito in quanto strumento politico ineludibile della lotta di classe e la sua conversione in un nucleo di “pensatori” e di “restauratori” del marxismo. Questo atteggiamento è una costante nella storia del movimento operaio: la sconfitta fa emergere ed esaspera i punti deboli della teoria, soprattutto se è l'impianto generale della stessa ad avere basi malferme. Il riferimento è, ovviamente, a Vercesi, esponente di primo piano della Frazione e poi tra i principali veicoli – dentro l'organizzazione – dei dubbi, dei “non detti”, dei ripensamenti teorici, in sostanza, della contrarietà di Bordiga all'esistenza del partito, che portarono alla spaccatura del 1952 (5). Se nel convegno di Torino le divergenze su singole questioni – come quella sindacale – erano tali da rientrare nella normale dialettica di un'organizzazione rivoluzionaria e, anzi, da farla crescere teoricamente nonché politicamente, a Firenze si respirerà già un clima diverso: i compagni dovranno combattere contro le tendenze liquidazioniste di Vercesi e le sue capriole in merito alla questione sindacale, tipiche del futuro bordighismo. Nessuno contestava il fatto che il sindacato fosse un organismo irrecuperabile alla lotta operaia, essendo ormai inglobato nei meccanismi dello stato borghese, e che i contrasti al suo interno – sfociati poi nella nascita della CISL e della UIL – fossero il riflesso della Guerra fredda tra i due poli imperialisti dominanti (USA-URSS). Nessuno pensava di poter conquistare la direzione della CGIL e si lasciava aperta l'ipotesi di quale – e se – altro organismo avrebbe potuto sostituire il sindacato in quanto organismo di massa della lotta “economica”. Il congresso di Firenze è molto chiaro in proposito e lega l'evoluzione del sindacato alle trasformazioni del capitalismo, non a fattori ideologici: per esempio, i dirigenti traditori, che basterebbe sostituire per risanare in senso classista l'organismo sindacale. Forse non è inutile ricordare che nella relazione del comitato esecutivo sul sindacato per il congresso (6), ci sono punti di contatto con uno degli ultimi scritti di Trotsky, rimasto incompiuto a causa del suo assassinio (7), ma essa va molto più in là o, meglio, le indicazioni politiche sono coerenti con le premesse materialiste dell'analisi; al contrario, Trotsky, nonostante l'acutezza dell'esordio, ricade nel solito volontarismo idealistico che lo fece scivolare, non di rado, nel più sconcertante opportunismo e peggio. Se si dava il sindacato per perso alla causa operaia, non per questo si dava la parola d'ordine di uscirne e di astenersi dagli scioperi solo perché indetti dalla CGIL: al contrario. Gli internazionalisti dovevano stare – e stanno – dove c'è la classe con le loro posizioni, fuori o dentro il sindacato – ma, in questo caso, senza far parte della sua struttura gerarchica – per strapparla al controllo della borghesia. Tutto ciò era scritto a chiare lettere, ma, dal 1948 in poi, come s'è detto, una parte dei compagni cominciò a mettere in discussione teoricamente e praticamente non solo il punto di vista sindacale, ma anche quello sul partito, sulla natura sociale dell'URSS, sulla dittatura proletaria, sulle lotte di liberazione nazionale. Si trattava di nodi teorici caratterizzanti, che nodi poi non erano mai stati, ma che tali divennero sotto il lavorio di Bordiga e dei suoi “fedeli”. Così, il partito non era più il dirigente politico della rivoluzione e della transizione al comunismo, dialetticamente intrecciato con gli organismi del potere proletario – i consigli – unici titolari dell'esercizio di quel potere, ma assegnava a se stesso anche il ruolo spettante ai consigli medesimi, come se la mortificazione prima e lo svuotamento poi dei soviet non dovessero imputarsi alle difficoltà enormi incontrate dai bolscevichi, ma alla natura del rapporto esistente tra partito e classe. Le necessità – e gli errori – divennero, per i compagni bordighisti, virtù. L'Unione Sovietica non era più un paese a capitalismo di Stato, ma una “cosa” non meglio identificata che, in ogni caso, non si poteva definire capitalista, ma “industrialista di Stato”. Le ricadute politiche erano pesanti, a cominciare dal fatto che l'imperialismo sovietico dovesse essere considerato un imperialismo di seconda categoria rispetto all'imperialismo numero uno, quello statunitense, da contrastare invece apertamente. La stessa natura delle guerre di liberazione nazionale e, dunque, l'atteggiamento dei rivoluzionari verso di esse, vennero rivisti, in nome di una lettura schematica del marxismo e di un recupero altrettanto acritico delle più scivolose posizioni della Terza Internazionale sui “popoli coloniali”. Le lotte per l'indipendenza nelle colonie francesi e inglesi erano considerate, in sintesi, come una riedizione delle lotte condotte dalla borghesia europea fino al 1870 contro i residui feudali, per cui occorreva sostenere, sia pure in modo critico, le borghesie locali che ne erano alla guida e, aggiungiamo noi, le future beneficiarie assieme ai poli imperialisti di riferimento. Così, si tornava indietro rispetto alla posizione secondo cui le lotte di liberazione nazionale non avevano più nulla di progressivo ai fini della rivoluzione proletaria:

[il partito] Combatte la tattica dell'appoggio a pretesi moti nazionali e alle cosiddette lotte di emancipazione delle colonie, che sono di fatto un particolare travestimento delle competizioni internazionali tra le maggiori potenze imperialistiche; considera chiusa anche per i paesi coloniali e semicoloniali l'epoca storica della rivoluzione borghese e aperta quella della rivoluzione proletaria e, di fronte alle vuote parole della libertà e dell'indipendenza nazionale, afferma che l'emancipazione dal giogo dell'imperialismo può essere solo la risultante della vittoria internazionale del proletariato sul regime internazionale della produzione capitalistica (8).

Infine, per tornare alla questione forse più controversa e meno compresa dai nostri critici e avversari, vale a dire quella sindacale, i compagni che fecero nascere un altro partito (i liquidazionisti del giorno prima!) dallo stesso nome – con il giornale “Programma comunista” – dettero vita a una serie di capriole in cui c'era di tutto: dalla riconquista della CGIL alla fondazione del sindacato rosso e, persino, “l'esperimento” della diserzione da uno sciopero. Non è un caso se quelle questioni irrisolte (per i compagni bordighisti) continuarono a sobbollire dentro il corpo della nuova organizzazione, provocando crepe e lacerazioni fino a far saltare la pentola con la crisi dirompente di “Programma” nel 1982.

Tessendo e ritessendo la trama del partito rivoluzionario, contro l'opportunismo e il settarismo

La spaccatura del 1952 ebbe, com'è ovvio, conseguenze pesanti sul campo internazionalista, limitando di molto la sua capacità di intervento e, quindi, la possibilità di ricambio fisico dei militanti. Certo, le trasformazioni prodotte dal boom postbellico, quello che noi chiamiamo il terzo ciclo di accumulazione del capitale, hanno avuto un ruolo significativo nel ridurre ai minimi termini le forze internazionaliste, ma non vanno sottovalutati, dialetticamente, gli effetti demoralizzanti causati dalla scissione, altrimenti si cade in una sorta di menscevismo di ritorno. Secondo questa concezione più o meno serpeggiante in tanti compagni orfani di qualche organizzazione della Sinistra Comunista, le determinazioni economico-sociali, certamente fondamentali, diventano un assoluto, slegato dagli altri fattori che compongono la società capitalistica e che, in ultima analisi, poggiano su quelle determinazioni medesime. Dunque, da quel punto di vista antidialettico, bisogna aspettare che il capitalismo sviluppi fino in fondo le sue potenzialità e solo allora si potrà parlare di prospettiva rivoluzionaria, come se due secoli e passa di capitalismo non fossero più che sufficienti per archiviare questo antistorico modo di produzione. Come se l'imperialismo non avvolgesse nella sua rete tutto il globo terracqueo, nonostante i diversi livelli di sviluppo – per così dire – economico. Con questi criteri, l'Ottobre 1917 non ci sarebbe mai stato (menscevismo, appunto) né ci sarà mai un altro episodio rivoluzionario, perché il modo di produzione capitalistico è, per sua natura, dinamico, e le sue potenzialità sono “infinite”, almeno fino a che non avrà consumato l'ultimo essere umano e ogni forma vivente sul pianeta. Da molto tempo esistono le condizioni oggettive per il passaggio a un modo di produzione superiore, ciò che manca è il fattore soggettivo, l'intervento della volontà trasformatrice e organizzata degli uomini (maschi e femmine) sulle cose. E manca lo strumento politico necessario affinché possa emergere questo fattore di trasformazione rivoluzionaria, il partito internazionale del proletariato. A scanso di equivoci, ribadiamo che stiamo parlando delle condizioni storiche generali, non delle condizioni specifiche che creano i presupposti per lo smantellamento concreto della società capitalistica, il salto rivoluzionario, possibile solo in un periodo di crisi profonda del sistema.

A molti rimane incomprensibile il rapporto struttura-sovrastruttura e le ricadute della seconda sulla prima, di cui diventa parte. Per fare un esempio banale, lo stalinismo (ed eredità varie), nel deviare e soffocare le spinte, se non rivoluzionarie, di certo anticapitalistiche del proletariato, ha dato una grossa mano al capitale per superare, in un dato momento, le sue difficoltà. Non esiste, infatti, l'«economia» staccata dalla lotta di classe: ogni crisi, anche la più devastante, può essere superata se la lotta di classe – di parte proletaria – è assente o disorganizzata, priva di una guida politica che sappia dove e come indirizzare l'energia “sovversiva” delle masse. Forse che negli anni immediati del dopoguerra non esistevano per i “ceti popolari” dure condizioni di esistenza, una grande disponibilità alla lotta (9) e persino un'ampia circolazione di armi? Eppure, il capitalismo si riprese con straordinario vigore anche e non da ultimo perché lo stalinismo (i vari partiti nazionalcomunisti) aveva “armato” l'esercito proletario di cui era alla testa con fucili caricati a salve (metaforicamente parlando). In breve, la “sovrastruttura” dello stalinismo non contò meno degli “strutturali” sacchi di grano, latte in polvere e dollari americani del piano Marshall, nel conservare il potere della borghesia. Chi imputa al nostro partito – a torto, appunto – una sopravvalutazione delle possibilità rivoluzionarie del dopoguerra, non di rado è pronto a esaltarsi per i luminosi, certo, ma purtroppo sporadici episodi di lotta operaia del nostro tempo, un tempo che è “terra desolata” dal punto di vista delle manifestazioni politiche di classe del proletariato. Per gli internazionalisti, per il nostro partito cominciò così la lunga marcia attraverso il deserto, ma, contrariamente alla leggenda, il partito non si chiuse – e non si chiude – mai in un atteggiamento settario, ostile per principio ad altre correnti che si collocavano, almeno soggettivamente, sul terreno rivoluzionario, per verificare la possibilità di farle maturare su posizioni coerentemente comuniste attraverso il confronto politico, condizione preliminare per eventuali collaborazioni sul piano pratico. Il giudizio su quelle esperienze (10) può essere naturalmente diverso a seconda della prospettiva, ma un dato è indubbio: non furono tentativi abborracciati di mettere insieme gruppi diversi per “fare” a scapito dei principi e della coerenza rivoluzionaria. I nostri compagni parteciparono e animarono quei tentativi senza preconcetti ma anche senza illusioni, in ogni caso mai disposti a svendere la nostra storia politica in cambio di facili, ma confusi, raggruppamenti. L'obiettivo era sempre quello di dare alla classe il suo strumento politico, per non disperderne il potenziale anticapitalistico o farlo riassorbire dal sistema, lo stesso obiettivo che spinse il partito, nel settembre del 1960, ad avanzare a Programma comunista e ad Azione comunista la proposta di incontrarsi per confrontarsi sulla necessità impellente di costruire un polo di riferimento effettivo per la classe. Naturalmente, Programma non accettò, al contrario di Azione comunista, ma anche con questa organizzazione le cose non andarono molto avanti, perché, tra le altre cose, troppe erano le tare staliniste che l'appesantivano e che la portarono alla dissoluzione con l'inizio di altre storie per i suoi componenti.

La data di invio della lettera (15 settembre 1960) non era ovviamente casuale, di mezzo c'era stato il governo Tambroni e, nel luglio, i violentissimi scontri tra manifestanti e forze dell'ordine borghese in particolare a Genova, a Reggio Emilia, in Sicilia, durante i quali la polizia sparò uccidendo diversi manifestanti (cinque, solo a Reggio Emilia), tutti proletari, alcuni giovanissimi, altri ex partigiani. Col luglio 1960 appariva sulla scena politica una nuova generazione, i “giovani dalle magliette a strisce”, ma anche quel “giovanilismo” che tanta fortuna avrà nei successivi decenni, più per il capitale che per la gioventù in generale e quella proletaria in particolare, diventata ai giorni nostri un articolo merceologico specifico, oltre che ricco giacimento di plusvalore. I “giovani” (11), protagonisti del luglio '60, i “giovani” nella fiammata di Piazza Statuto a Torino due anni dopo (12), considerata, da quella che sarà chiamata la “Nuova sinistra” l'anno di nascita ufficiale del cosiddetto operaio-massa. Solo pochissime organizzazioni, praticamente il campo internazionalista e, se non ci sbagliamo, anarchico, furono dalla parte dei manifestanti, attaccati da tutta la “sinistra”, compresi i “mitici” Quaderni Rossi, come teppisti e provocatori; ma molto di rado, per non dire mai, il nostro atteggiamento viene ricordato dalle successive e apologetiche ricostruzioni storiche di quell'episodio.

L'andare, per forza di cose, sistematicamente controcorrente ha portato il nostro partito a essere “dimenticato” dall'Accademia (comprese le sue “eresie”), ma, fatto ben più importante, gli ha precluso la possibilità di incidere in maniera significativa sul corso degli eventi eruttati dal vulcano capitalista. Ovviamente, ciò non significa l'astenersi dall'intervento, al contrario, ma, in ultima analisi, sono le condizioni storiche generali a consentire il grado di incidenza politica del partito. Tale è stato anche per il '68.

Le idee-guida, per così dire, del movimento erano saldamente radicate nella mitologia della terza Internazionale decadente o nell'armamentario idealistico di matrice anarchica, consiliare, “francofortese”, che ben pochi interstizi lasciavano alle nostre agguerrite politicamente, ma scarse numericamente, forze. Certo, anche noi allargammo la nostra area di influenza e di reclutamento, ma niente di paragonabile ai “gruppi”, spuntati come funghi dopo una giornata di pioggia. Banalmente, non basta aver ragione – o più ragione di altri – per vederselo riconosciuto dalle masse, anzi, l'esperienza, illuminata dal materialismo storico, dice che quasi sempre è vero il contrario. Là dove – e stiamo parlando del “Biennio rosso” 1968-69 – molti vedevano l'apertura di una fase rivoluzionaria, sintetizzata dallo slogan “Padroni, borghesi, ancora pochi mesi”, noi giudicavamo positivamente, va da sé, il ribollire di fabbriche e scuole, gli episodi numerosi, ma circoscritti e dal fiato corto, di insubordinazione operaia al sindacato (oltre che al padronato), però vedevamo anche chiaramente i grossi limiti politici, il ritardo complessivo della classe e, dunque, la capacità di recupero da parte della “sinistra” e dei sindacati. Il quarto congresso del partito, del dicembre 1970, dedicato in gran parte all'Autunno caldo, in particolare alla questione sindacale, è lì a dimostrarlo. Ad anni di distanza, sembra ancor più sconcertante la sicumera di quegli ideologi, soprattutto del campo operaista (il riferimento è al duo Tronti-Negri), che prospettavano una specie di onnipotenza operaia che scuoteva in maniera irreversibile il “comando del capitale”, tanto da provocarne la crisi e la mutazione genetica, vale a dire l'annullamento della legge del valore. Si tenga presente che tutto questo, venduto in decine di migliaia di libri ad altrettanti compagni/e (allora), veniva proclamato tra la fine del ciclo di accumulazione e l'inizio della “Ristrutturazione”, quando il capitale cominciava a smantellare le grandi concentrazioni operaie – in Occidente – per riprendersi con gli interessi – che non abbiamo ancora finito di pagare – ciò che aveva concesso sotto la pressione delle lotte economiche, per contenere nei limiti delle compatibilità la pressione operaia. Anzi, quella lotta, addomesticata e capitalizzata – non senza fatica – dai partiti di “sinistra” e dal sindacato, aveva permesso a quest'ultimo di accreditarsi definitivamente agli occhi del padronato come un ingranaggio importante nella gestione capitalistica della forza lavoro. Il congresso ribadiva inoltre (a beneficio di futuri critici...) che la crisi del capitalismo – e nel dicembre 1970 era lì lì per scoppiare – diventa «dirompente» solo «sotto l'incalzare del moto ascendente della classe operaia» (13); non c'è dunque nessun “crollismo” (14): il capitalismo non crolla nemmeno di fronte alla difficoltà economiche più grandi se non c'è l'intervento cosciente del proletariato. Allo stesso tempo, non c'è un rapporto meccanico tra approfondimento della crisi e presa di coscienza della classe: questo dipende da una serie di fattori, tra i quali la presenza fattiva del partito rivoluzionario riveste un ruolo primario, insostituibile. È quanto riconobbero, per esempio, i compagni della CWO alla terza conferenza internazionale della Sinistra Comunista (Parigi, 1980):

È vero che all'epoca della Ia conferenza [Milano, 1977, N.d.R.] noi avevamo una visione meccanicistica del legame tra approfondimento della crisi e presa di coscienza politica della classe. Noi oggi siamo convinti che la politicizzazione della classe dipenda essenzialmente dall'intervento dei rivoluzionari (15).

Le conferenze internazionali, nate per iniziativa del partito, raggiunsero l'obiettivo che si erano prefissate, cioè la decantazione, la delimitazione di quello che veniva definito il “campo politico proletario”. Nel 1983 venne infatti fondato il “Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario” con la CWO britannica, per la sintonia registrata sulle questioni fondamentali. Ne erano esclusi idealisti-meccanicisti di ogni specie, a cominciare, va da sé, dalla Corrente Comunista Internazionale e dai bordighisti, che avevano da sempre rifiutato ogni confronto tra rivoluzionari, ritenendosi già il partito mondiale della rivoluzione. A questo proposito, come abbiamo detto mille volte, il BIPR (oggi “Tendenza Comunista Internazionalista”) non è né pretende di essere il partito internazionale pronto per l'uso, anche se, certamente, riteniamo che la nostra storia, il nostro bagaglio teorico-politico possono dare un contributo fondamentale – quando e se – al processo di aggregazione delle avanguardie rivoluzionarie a livello mondiale.

La crisi di un ciclo storico del capitale e il problema di sempre: il partito di classe

Sul numero 12/1971 di Battaglia comunista si leggeva che

la crisi è ben lontana dall'aver toccato il fondo e […] ben lontano dall'aver creato le condizioni per una svolta rivoluzionaria.

purtroppo, non era una diagnosi sbagliata. La crisi era appena cominciata (16) e il capitale avrebbe messo in atto le misure necessarie – quelle che Marx chiama controtendenze – per cercare di risollevare il saggio del profitto a un livello tale da far ripartire il processo di accumulazione o almeno da rallentarne l'avvitamento. Il “neoliberismo” (termine improprio) è stata la strada intrapresa una quarantina di anni fa, chiamata anche (sempre impropriamente) globalizzazione, le cui caratteristiche abbiamo più volte analizzato. Forte riduzione delle grandi concentrazioni operaie – sempre in Occidente – delocalizzazione di interi settori industriali là dove i costi della manodopera sono molto più bassi, dove il dispotismo padronale regna incontrastato; messa in concorrenza verso il basso della forza lavoro – manuale e non – in un processo di “manchesterizzazione” del proletariato (e persino di settori della piccola borghesia), cioè di ritorno massiccio a condizioni di lavoro di tipo “ottocentesco”, di cui la precarietà dilagante e la svalorizzazione del salario (anche al di sotto del valore della forza lavoro: non si arriva a fine mese) sono componenti di primo piano. A questo si aggiungono lo sviluppo abnorme della sfera finanziaria, che impone e dirige la musica dell'economia mondiale, della predazione pura e semplice, come mezzi per mantenere in vita lo “zombie” del capitalismo mondiale, che, cercando di eludere la legge del valore (l'economia fondata sul debito e sulla truffa), è costretto a ribadirla spietatamente, per accrescere quel plusvalore che deve dare ossigeno tanto al profitto industriale quanto alla rendita finanziaria.

In tale contesto si colloca la caduta del blocco “socialista”, che, appunto, socialista non era. Il venir meno di uno dei due poli imperialisti non ha per niente attenuato i contrasti interborghesi, al contrario: la lotta pro o contro il ruolo del dollaro come moneta di riferimento mondiale (e signoraggio annesso) a cominciare dal prezzo del petrolio, per il controllo dei flussi energetici, per un miglior posizionamento sulla scacchiera imperialistica mondiale, sotto il pungolo della crisi è continuata come e più di prima, magari col nome di lotta di civiltà, guerra santa e sconcezze simili. Il non aver saputo legare il “neoliberismo” con la natura del processo di accumulazione, con la fase storica del capitalismo odierno, ha reso sterile l'attivismo, generoso, del movimento “No-global”, inchiodandolo alle illusioni – e delusioni – del riformismo, l'ha disarmato politicamente e portato, letteralmente, a farsi macellare dalla repressione statale: monito per eventuali futuri movimenti ben più caratterizzati in senso classista. La mattanza di Genova – 2001 – non si spiega solo con la feroce, ottusa protervia del personale politico allora (allora?) al governo – a Napoli, pochi mesi prima, con altro “esecutivo”, ci furono le prove generali – ma con la volontà di dire chiaro e tondo che la messa in discussione dell'ordine sociale non è in alcun modo tollerato, nemmeno nelle forme mansuete e innocue della Rete Lilliput. Tuttavia, la denuncia politica, senza sconti, dei limiti enormi del movimento “No-global”, non ci ha impedito, anzi, di essere attivamente presenti (fermo restando, va da sé, la nostra indipendenza politico-organizzativa) là dove masse di gioventù ribelle hanno cercato, confusamente, di opporsi a uno stato di cose ostile non solo al loro presente, ma, ancor di più, al futuro loro e di grandissima parte dell'umanità. Per l'ennesima volta, i controvertici hanno dimostrato che senza l'organizzazione rivoluzionaria, le mura della fortezza borghese inevitabilmente infrangono e respingono le ondate della protesta sociale, a maggior ragione se dichiaratamente interclassista come i movimenti “altermondialisti”.

Siamo monotoni con questa insistenza sul ruolo del partito? ma è il modo di produzione capitalistico a esserlo...

Che bilancio fare, allora, di questi settant'anni di vita del partito? Dal punto di vista teorico-politico, riteniamo di poter passare l'esame, benché non ci nascondiamo errori, così come non ci consoliamo per le conferme ricevute dalle nostre analisi. Non è raro che i rivoluzionari – come ogni altro essere umano – a volte leggano la realtà con schemi del passato, che non funzionano più con le trasformazioni nel frattempo intervenute. Per decenni, abbiamo pensato che la contrapposizione USA-URSS portasse alla terza guerra mondiale, invece la crisi ha causato l'implosione di uno dei due fronti, che, assieme all'enorme svalutazione di capitale costante prodotta dall'introduzione del microprocessore nei processi produttivi e al “neoliberismo”, ha, per il momento, consentito al capitalismo – nell'assenza di lotta proletaria – di prolungare la fase di crisi, senza arrivare a un conflitto su larga scala. Di fatto, la crisi ha avuto, sul sedicente socialismo reale, l'effetto di una guerra, da cui è uscito vincitore – benché malconcio – il capitalismo “nazionale” meglio attrezzato dal punto di vista economico, non militare. Ma agli errori si può riparare se si è metodologicamente attrezzati e noi, tutto sommato crediamo di non essere sguarniti di quell'attrezzatura, di averla anzi tenuta efficiente.

Le ragioni della sopravvivenza, per ora, del capitalismo – il che non esclude affatto, al contrario, la prospettiva di una guerra globale tra imperialismi rivali – tanto economiche (vedi sopra) quanto sociali e politiche, sono state e sono abbondantemente analizzate, non da ultimo la sostanziale passività o, almeno inadeguatezza, della risposta proletaria alla “guerra termonucleare” condotta, da decenni, dalla borghesia contro il proletariato.

C'è chi, invece, o perché male attrezzato dall'inizio o perché ha scompigliato la cassetta degli attrezzi, è rimasto schiacciato dal proprio disorientamento, finendo per buttare via non solo gli strumenti analitici inservibili, ma tutta la cassetta. Fuor di metafora, di fronte alla, finora, assenza del proletariato come parte attiva della lotta di classe e al perdurante stato di estrema debolezza numerica delle forze che si richiamano alla “Sinistra Comunista”, c'è chi crede che tutta l'esperienza della “Sinistra”, vista come un blocco unico, sia da archiviare. Ora, è fin troppo facile osservare ciò che molti compagni o personaggi di quell'area sanno anche se a volte fingono di non sapere ossia che la “Sinistra” è sempre stata ben lontana dall'essere un blocco unitario e che le critiche rivoltele indistintamente riguardano invece esclusivamente le organizzazioni in cui spesso hanno militato per decenni.

Per esempio, la “Sinistra”, noi compresi, viene accusata di aver nutrito illusioni sull'apertura di nuove possibilità per i rivoluzionari, dopo il crollo del muro di Berlino. Naturalmente, per quanto ci riguarda, è tutto falso. Basta vedere cosa dicevamo in un documento del gennaio 1990, due mesi dopo il crollo del muro e prima dell'implosione dell'URSS. Con esso, si registrava sì l'apertura di uno nuova fase – cosa persino ovvia, verrebbe da dire oggi – ma le prospettive non erano certo quelle sostenute dai critici dell'ultima ora:

Più che un'epoca di pace, va preparandosi un'epoca di grandi conflitti sociali ed interborghesi. Generalmente sono queste le fasi storiche in cui maturano le grandi svolte ed i grandi movimenti sociali; tuttavia – nonostante l'esistenza di un così gran numero di fattori oggettivi e soggettivi a favore di possibili aperture rivoluzionarie – il modo in cui si è prodotta questa nuova situazione si ritorce contro l'unica soluzione classista della crisi. Nell'immediato, agli occhi delle grandi masse non è lo stalinismo che appare nudo, ma è l'idea stessa del comunismo che appare falsa e comunque come utopia priva di qualunque possibile realizzazione. Al contrario, la democrazia appena conquistata giustificherà, per tempo più o meno lungo, anche nuovi grandi sacrifici agli occhi dei lavoratori dell'Est, mentre apparirà ai lavoratori occidentali, quel “sempre meno peggio” che è bene pensarci su due volte prima di buttare al macero. […] intanto, però, tutti i possibili movimenti – tanto all'Est quanto all'Ovest – subiranno l'influenza delle ideologie democraticistiche e piccolo borghesi quali pacifiste ed ecologiste. Un ruolo non secondario potranno svolgere le istanze nazionalistiche e religiose, mentre è prevedibile una funzione ancora marginale per formazioni e correnti come la nostra rispetto ai grandi movimenti di massa (17).

Lo stesso si può dire di altri ex militanti o “frequentatori” dell'area bordighista, il quali, delusi a vario titolo dalla loro precedente esperienza, riversano sull'insieme del “campo politico proletario” osservazioni critiche anche – in parte – condivisibili, che addirittura riprendono, forse in maniera inconsapevole, certi contenuti della nostra polemica di sempre col bordighismo. Riproposizione acritica di vecchie posizioni del Comintern e settarismo sono i mali che affliggono la “Sinistra Comunista”: d'accordo, purché si aggiunga l'aggettivo “bordighista”.

Benché dotati di indubbi strumenti culturali, non sono capaci di interpretare i nostri documenti (18) e, fatto più serio, il complesso rapporto della minoranza rivoluzionaria con la classe, le ragioni storiche di una separazione fisica che, in ultima istanza, poco hanno a che vedere con sempre possibili insufficienze politiche ed errori umani.

Ancora una volta, troppo comodo decretare la morte di una fantomatica “Sinistra” per i suoi vizi d'origine, se poi tali vizi non vengono espressamente indicati e confrontati con ciò che le diversi componenti di quell'area hanno detto e fatto. Lasciamoli allora, tutti quegli intellettuali, a intrecciare corone funebri per un caro estinto che tale non è né ha intenzione di diventarlo, per quanto la vita in questa società sia piena di pericoli. L'aver saputo resistere in un ambiente così ostile è già un fatto positivo, perché la sopravvivenza di un'organizzazione politica è legata, anche e non certo da ultimo, all'aderenza delle sue analisi a una realtà così complessa e mutevole come quella del capitalismo.

Naturalmente, non basta sopravvivere. Perché il partito viva una vita vera, nella, con e per la classe, beh, questo non dipende solo dalla nostra volontà (anzi) e dalle nostre capacità, (tante o poche che siano): dipende dalla classe stessa. Finché subirà senza – o quasi – colpo ferire l'iniziativa della borghesia, la sua ideologia pervasiva, le nostre voci saranno, per forza di cose, sovrastate dal rumore di fondo dell'ideologia borghese. Ma non è detto che sarà sempre così: allora, potremo davvero cominciare a giocare quella partita per la quale non smettiamo di allenarci.

Celso Beltrami

(1) Vedi gli articoli di Fabio Damen sulla Frazione all'estero e sulla nascita del Partito Comunista Internazionalista sui numeri 2, 3, 4 di Prometeo, IV serie, anni 1978, 1979, 1980.

(2) «Al gioco borghese si presentarono (occorre dirlo?) perfino... i terribili campioni del... rivoluzionarismo più “intransigente”: gli anarchici. Il carattere non storicistico ma volgarmente volontaristico della loro dottrina, la particolare “forma mentis” passionale, confusa, spesso illogica, la superficialità delle loro analisi , portarono [gli anarchici] nelle file del C.L.N. fianco a fianco […] con preti, mazziniani e borghesi. [gli anarchici] non furono minimamente sfiorat[i] dal dubbio che la guerra che essi combattevano rientrasse nel novero delle contese imperialistiche: aderendo al C.L.N. i “più radicali negatori di ogni forma di governo” non sospettarono minimamente di dare il loro appoggio a nuovi organismi dello stato borghese che essi “abbattono definitivamente”... in teoria, e consolidano in pratica con tutti i mezzi […] Una triste nemesi storica ha voluto che il primo e ultimo atto della tragedia bellica (Spagna e Italia) vedessero gli anarchici scendere a patti (ministri, liberatori, C.L.N.) con il capitalismo, contribuendo a rendere veramente totalitaria la sconfitta della classe operaia», Il proletariato e la seconda guerra mondiale, articoli tratti da Battaglia comunista del novembre 1947- febbraio 1948, in Quaderni internazionalisti 1, Il proletariato e la guerra, pp. 38-39.

(3) Dino Erba, Nascita e morte di un partito rivoluzionario, Il Partito Comunista Internazionalista 1943-1952, All'Insegna del Gatto Rosso, 2012.

(4) Schema di programma del Partito Comunista Internazionalista, 1944.

(5) Dalla relazione presentata dal C. E. in vista del Congresso Nazionale del Partito, dicembre 1947, su Quaderni internazionalisti, cit., p. 67:

Il partito non si fece né alimentò illusioni in questo senso [l'apertura di una fase rivoluzionaria], previde alla fine del conflitto l'aprirsi di una situazione storica apertamente reazionaria, e si preparò a dire in essa la sua dura e coraggiosa parola così come aveva saputo dirla contro tutto e contro tutti in piena guerra mondiale.

E Aldo Lecci, nel congresso del 1948, così si esprimeva:

Però egli [Vercesi] ha affermato di essersi sbagliato nel '45 a Torino quando credeva in una ripresa del corso rivoluzionario, mentre oggi gli consta che in tutto il mondo la classe proletaria è alleata del capitalismo e che tutto ciò che noi facciamo può solo tornare a vantaggio dell'uno o dell'altro blocco imperialista […] Nel comizio di oggi del compagno Vercesi si nasconde il tentativo di ridurre il partito al club dei superuomini, dei pretesi scienziati del marxismo, che si sentono superiori e disdegnano di mettersi a contatto della realtà nella quale vivono le masse […] Questi elementi che cercano di nascondere il loro pessimismo dietro il nostro preteso ottimismo vengono, politicamente inattivi, a gettare frasi grandiloquenti in mezzo a noi senza apportare alcun contributo positivo alle posizioni da noi difese e propugnate, senza confutazioni teoriche e politiche dei nostri “errori” e deviazioni. I compagni coi quali abbiamo lavorato sanno che non ci siamo mai illusi né abbiamo mai illuso alcuno con posizioni e prospettive determinate. Siamo sempre stati duri e precisi, abbiamo sempre ripetuto ai compagni: “reclutate con prudenza, radiate ogni volta che incontrate incomprensione politica; forse dovremo ridurci ancora; la situazione non permette uno sviluppo del partito di classe; si tratta di formare i quadri, l'ossatura del partito”.

Resoconti: convegno di Torino 1945, congresso di Firenze 1948, p. 16.

Tra parentesi, si possono trovare parecchie analogie con l'atteggiamento di tanti critici contemporanei nostri e dell'esperienza della “Sinistra Comunista” in generale...

(6) L'evoluzione del sindacato e i compiti della Frazione Sindacale Comunista Internazionalista, relazione presentata dal C.E. in vista del congresso nazionale, Battaglia comunista n. 6-1948, ripubblicata in Prometeo, III serie, n. 10-1967.

(7) Pubblicato su Battaglia comunista 7, 28 agosto 1945 e su Marx – Rosa Luxemburg – Lenin e Trotskij, Marxismo e sindacato, Edizioni Samonà e Savelli, 1970, anche se non si dice che venne pubblicato per la prima volta su BC.

(8) Dalla Relazione presentata dal CE in vista del congresso nazionale del Partito, Firenze 1948, Tesi sui compiti del partito di classe, punto 11.

(9) G. Manzini, in “Una vita operaia”, Einaudi, pp. 57-58, così racconta la vita di un operaio di Sesto San Giovanni subito dopo la guerra:

Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. Per avere appena un po' di respiro bisognava muoversi. Gli scioperi si accendevano facilmente, non c'era bisogno di volantini, un'assemblea e via, si passava la parola, si partiva. Quasi tutto era ancora razionato, olio, burro e zucchero costavano come alla borsa nera. Si usava molto lardo perché era l'unico genere che non era scomparso. Carne una volta alla settimana, al sabato ... Ed era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, c'erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare, ma i cancelli erano stretti.

(10) Tra il 1952 e il 1953, il partito intraprese rapporti fatti di incontri e discussioni col gruppo francese Socialisme ou barbarie e il POC (Partito operaio comunista, trotskysta, presente soprattutto in Puglia). Nel 1956 (l'anno del XX congresso del PCUS, della rivolta in Ungheria e degli scioperi in Polonia) fino ai primi del 1957, il partito intesse in rapporti di discussione coi Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (animati da Cervetto e Parodi), Azione Comunista e i Gruppi Comunisti Rivoluzionari (trotskysti) per verificare se e fino a che punto sarebbe stato possibile intraprendere un lavoro comune. L'esperienza venne derisa col nome di “Quadrifoglio foglia di fico” da Bordiga, il quale si fece beffe anche del fatto che esponenti del “Quadrifoglio” si fossero fatti intervistare alla radio (“Microfonie diarroiche”, il programma comunista, n. 5, 2 – 16 marzo 1957 ). Chissà perché, anni dopo concesse l'interessantissima intervista a Sergio Zavoli, per il programma televisivo “Nascita di una dittatura”: misteri dell'invarianza bordighiana?

(11) In realtà, nel luglio '60 ogni generazione proletaria scese in piazza, tra cui i “vecchi” partigiani ancora illusi che il PCI attendesse l'occasione giusta per fare la rivoluzione. Lo stesso vale per i momenti successivi sopra accennati, anche se è indubbio che la gioventù ebbe un ruolo di primo piano, se non altro nei “combattimenti” di strada.

(12) Nel luglio del 1962, in seguito a un accordo separato firmato dalla UIL con la Fiat, accordo bidone, inutile specificarlo, masse di giovani operai e proletari in genere, molti di recente immigrazione dal Sud e dalle zone “depresse” del Nord, assaltarono la sede della UIL in piazza Statuto, dando vita ancora una volta a scontri molto duri con le forze di polizia.

(13) Documenti del IV congresso, dicembre 1970, pp. 27-28.

(14) Per “crollismo” si intende quella concezione, attribuita erroneamente ai sostenitori della caduta del saggio del profitto come elemento primario della crisi capitalistica, soprattutto negli anni venti e Trenta del Novecento, secondo la quale il capitalismo sarebbe crollato automaticamente da sé per le sue contraddizioni economiche, senza l'intervento cosciente della classe operaia. Henryk Grossmann fu uno dei principali imputati – a torto, naturalmente – di questa concezione.

(15) Verbali della Terza conferenza internazionale, Parigi 1980, p. 6.

(16) Con la denuncia degli accordi di Bretton Woods del 1944, da parte del presidente americano Nixon, il 15 agosto del 1971, si ritiene chiusa la fine del lungo boom del dopoguerra e l'inizio della crisi, la stessa che si prolunga fino a oggi.

(17) Dal Documento approvato dalla Assemblea nazionale di Battaglia Comunista, Milano 27 gennaio 1990.

(18) Secondo alcuni, apparterremmo al “marxismo occidentale” (Pannekoek, Korsch ecc.), il congresso del 1948 rappresenterebbe una svolta estremista verso le posizioni della sinistra tedesco-olandese anni '20, se abbiamo ben capito, in pratica evidenzieremmo una certa parentela con la corrente del Consiliarismo: ma, allora, anche il Lenin delle Tesi d'Aprile di “Tutto il potere ai soviet!” è un consiliarista; ammettiamo che, così inteso, ci sta bene l'appellativo di consiliarista.

Domenica, June 1, 2014

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.