Francia: un nuovo attacco contro la classe lavoratrice

Presa di posizione della Tendenza Comunista Internazionalista sugli scioperi francesi

Negli ultimi mesi i lavoratori francesi sono entrati in sciopero e scesi in strada nelle manifestazioni e in assemblee di piazza contro la nuova legge sul lavoro. Ciò che colpisce riguardo la legge El Khomri (dal nome del ministro del lavoro), soprattutto se confrontato con il resto d'Europa, non è il suo contenuto, ma la reazione che ha provocato tra ampi settori della classe lavoratrice e della cosiddetta “società civile” - cioè studenti e strati significativi della piccola borghesia in declino - che ha avuto inizio soprattutto durante i raduni serali di “Nuit debout” [Notte in piedi].

Benché nati su iniziativa degli ambienti politici del radical-riformismo (trotskysmo, stalinismo riciclato, no-global, pacifismo, ecc.), caratterizzate, dunque, dalla presenza diffusa delle illusioni tipiche di quell'ambiente, non possono essere considerati semplicemente come il frutto delle manovre di un riformismo ansioso di occupare la scena politica.

“Nuit debout”, come i movimenti delle “piazze” (Tahrir, Taksim, ecc) che sono apparsi negli ultimi anni (Grecia, primavere arabe, Spagna ...), nonostante la confusione e l'enorme debolezza politica, è chiaramente espressione di un profondo malessere sociale. Si tratta di un rifiuto istintivo dei meccanismi su cui si basa questa società. Questo movimento è infatti espressione della nuova composizione della classe lavoratrice forgiatasi negli sconvolgimenti prodotti da decenni di crisi e ristrutturazione.

Ci troviamo oggi davanti ad una miscela di lavoratori dei comparti manifatturieri tradizionali uniti a quelli dei servizi, dai lavoratori del commercio ai dipendenti dei settori tecnologici (high tech). Accanto alla precarizzazione, che rende le condizioni di lavoro precarie e di breve termine (contratti a zero ore, ecc), abbiamo anche assistito alla “proletarizzazione” di quelle che una volta erano considerate le “professioni” e al massiccio aumento della disoccupazione tra i laureati. Molti lavoratori sono stati costretti (contro la loro volontà) a diventare lavoratori autonomi e a sopravvivere con redditi più bassi rispetto a quelli del loro precedente lavoro, mentre molti appartenenti alla tradizionale piccola borghesia si trovano ad affrontare un processo di “proletarizzazione”.

Tutti hanno sperimentato condizioni di vita e di lavoro peggiori (per salario, orario, “garanzie” o “diritti” di lavoro) nel corso degli ultimi quarant'anni anni e, in particolare, negli ultimi dieci anni. Questa nuova generazione di proletari ha trovato maggiori difficoltà rispetto al passato nel combattere insieme perché frammentata in luoghi di lavoro più dispersi sul territorio e più piccoli, spesso sottopagata e costantemente ricattati dalla minaccia di licenziamento. Tale composizione sociale, causata dai cambiamenti nell'economia nel suo complesso, tende ad esprimere il suo malcontento, la sua rabbia nelle strade o nelle “piazze”.

Questo non significa che i luoghi di lavoro (qualunque essi siano) passino in secondo piano o abbiano perso il loro ruolo strategico centrale nella lotta di classe rivoluzionaria. Il posto di lavoro rimane la linfa vitale del capitale, il luogo in cui il plusvalore viene estorto: questo non è cambiato. Infatti la confusione politica dei movimenti di strada nelle “piazze” è dovuta in larga parte al fatto che molti di coloro che entrano a far parte dei ranghi del proletariato ancora non riconoscono questo dato di fatto. È questa condizione di oggettiva frammentazione della nostra classe, insieme all'assenza di lotta della classe lavoratrice e di un punto di riferimento rivoluzionario, che rende così difficile la ripresa di una prospettiva anticapitalista.

Gli innumerevoli cambiamenti nell'organizzazione del processo produttivo (e distributivo), l'attacco forsennato della borghesia alla “vecchia” e “nuova” classe lavoratrice, sono andati in parallelo con una campagna politica e ideologica sistematica, volta a presentare il crollo dell'ex URSS -- che non aveva nulla a che fare con il socialismo -- come la fine di ogni speranza in un mondo diverso e migliore, che va sotto il nome di comunismo.

L'URSS, come la Cina oggi, è stata solo una forma di capitalismo di Stato. Comunque sia, ai “nuovi” proletari risulta difficile percepire se stessi come un'unica classe lavoratrice. Invece di opporre i loro interessi inconciliabili alla società capitalistica nel suo insieme, una società che non può essere riformata ma solo distrutta, essi si oppongono solo a questo o a quell'aspetto della società borghese (il predominio della finanza, le varie forme di “ingiustizia sociale”, l'oppressione di genere, la devastazione ambientale, le guerre, ecc).

In queste circostanze, si sente il bisogno di un punto di riferimento di classe, un partito rivoluzionario, per organizzare e dare una direzione a questo profondo malcontento sociale contro il capitalismo, al fine di rovesciarlo. Senza di esso, ancora una volta, ogni espressione di protesta o di rivolta sociale è inevitabilmente destinata ad essere riassorbita e sconfitta dal sistema; ma sarebbe una sconfitta sterile, da cui, cioè, il proletariato non potrebbe trarre insegnamenti in vista di una futura ripresa della sua lotta contro il capitale, mentre, al contrario, il capitale continua ad avanzare come un rullo compressore sulla classe operaia nel suo complesso.

Nella realtà, la legislazione sul lavoro francese non differisce, nella sostanza e spesso anche nelle misure specifiche, da ciò che i governi di ogni colore politico hanno messo in atto in tutta Europa (per rimanere nel vecchio continente) da almeno un quarto di secolo, allo scopo di rendere la forza lavoro più “flessibile”, più “produttiva” rispetto alle esigenze dell'azienda (privata o “pubblica”), di eliminare per quanto possibile ogni ostacolo alla estorsione di quantità crescenti di plusvalore. Detto in altro modo, quelle norme che ancora “limitano” e “disciplinano” lo sfruttamento operaio (inteso in senso lato) secondo regole figlie di un'altra epoca e che lo stato attuale del capitalismo non può più tollerare. La crisi profonda in cui versa il sistema economico mondiale “incattivisce” il padronato, lo spinge a premere sui suoi governi affinché eliminino tutto quello che impedisce la formazione e la realizzazione di un profitto “giusto”, di un profitto, cioè, adeguato all'attuale composizione organica del capitale, agli investimenti necessari per far proseguire il processo di accumulazione, alla fame insaziabile di una speculazione finanziaria abnorme, che non solo si appropria di una grossa parte della ricchezza presente, prodotta dalla classe lavoratrice, ma ipoteca anche quella futura. In breve, dietro alla guerra, non solo sociale, che la borghesia muove contro il proletariato e le stratificazioni sociali a esso vicine, c'è una delle crisi più gravi del capitalismo, di cui le guerre imperialiste, con i loro tragici “effetti collaterali” della fuga di milioni di essere umani in condizioni disperate, sono “solamente” un'altra faccia della medaglia.

Basta col welfare, è l'ora del workfare. Detto con altre parole, fuori dal linguaggio incomprensibile del personale politico borghese, non si deve interrompere il prelievo forzoso del salario indiretto e differito, ma questa quota di salario deve andare sempre meno ai servizi sociali (pensione, sanità, scuola ecc.), per essere sempre più risucchiata dalle “istituzioni” economico-finanziarie della borghesia ossia l'impresa ovunque e comunque operante. Occorre tagliare i sussidi ai disoccupati distribuiti indiscriminatamente e a tempo pressoché indeterminato (secondo il verbo borghese): il disoccupato deve allontanare il “legittimo” sospetto di essere un fannullone e accettare qualunque lavoro, qualunque rimunerazione, qualunque organizzazione dell'orario – anche se tutto questo complica enormemente la sua vita e ne degrada la qualità – pena la perdita del sussidio. Anche le deboli barriere contro lo strapotere padronale in “fabbrica” devono essere spazzate via: che un licenziamento sia giusto o meno, agli occhi dello stesso diritto borghese, non ha più importanza; per salvare le apparenze e in coerenza con la logica dominante del mercato, quattro soldi posso bastare per liberarsi di chi non è giudicato idoneo a prestare la sua opera nella sedicente comunità aziendale, soprattutto se con la lotta mostra l'inganno di una “comunità” fondata invece sullo sfruttamento, dunque sulla contrapposizione inconciliabile tra sfruttatori e sfruttati.

Lo stesso contratto collettivo deve passare in secondo piano, dare la precedenza al contratto aziendale (o territoriale, di prossimità...), perché più flessibile rispetto alle esigenze aziendali in un periodo di incertezza, alla necessità di adeguarsi più rapidamente e puntualmente agli alti e bassi del mercato. È facile capire come, soprattutto nelle piccole aziende – la maggioranza – dove il controllo del padrone è più diretto, dove la sindacalizzazione è più bassa (al di là di ogni valutazione sul sindacato), dove, in molti casi, non esiste neppure un contratto aziendale, questo, se mai si farà, sarà orientato, in genere, al ribasso rispetto ai già poco entusiasmanti contratti nazionali, oltre a indebolire il senso di appartenenza a un'unica categoria (per non dire classe), a favorire lo sviluppo di egoismi aziendalisti, di una mentalità ristretta, meno aperta alla solidarietà con gli altri lavoratori. Se in altri periodi storici, con una classe meno passiva (anche di gran lunga), più propensa, per così dire, a scendere sul terreno del conflitto sociale, la contrattazione collettiva poteva apparire agli occhi della borghesia come il male minore e persino un elemento utile della programmazione economica generale – tanto più se la lancetta del saggio del profitto non puntava verso il basso – oggi le difficoltà del processo di accumulazione e il “mutismo” sostanziale della classe (in parte figlio di quelle difficoltà) spingono il capitale a premere sull'acceleratore dell'attacco complessivo alle condizioni di esistenza del proletariato. “Jobs act” in Italia, “Loi Travail” in Francia, legge Peeters in Belgio, e prima ancora legge Hartz in Germania, il Tatcherismo in Gran Bretagna, solo per ricordare alcune tappe della “via crucis” della classe operaia, del lavoro salariato-dipendente: vanno tutte nella stessa direzione.

Il più contestato o, al contrario, il punto fermo considerato irrinunciabile dal padronato francese, l'articolo 2 della “Loi Travail” (la precedenza alla contrattazione aziendale) non assomiglia forse a determinati articoli di alcune leggi varate dai governi di altri paesi, che permettono la deroga – in peggio - ai contratti nazionali?

Legge dopo legge, viene confermata e accelerata la tendenza generale al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro proletarie iscritte nel DNA del processo di accumulazione capitalistico che, arrivato a un certo punto, raggiunta una determinata composizione organica del capitale, è costretto a potenziare quegli strumenti a torto considerati da molti eredità marginali di fasi storicamente superate del capitale, vale a dire la svalorizzazione della forza lavoro (abbassamento marcato del salario) e l'allungamento dell'orario (e della vita) di lavoro; in breve, l'estorsione del plusvalore assoluto.

Nulla di sorprendente, da questo punto di vista, nella condotta del governo francese, cosa che non si può dire per il comportamento dei maggiori (non tutti) sindacati francesi, in testa la CGT, visto le mobilitazioni messe in atto e il paragone con il comportamento di molti altri sindacati, CGT compresa, negli anni precedenti. Stiamo dunque assistendo ad un radicale cambiamento della CGT, se non alla conversione del sindacalismo francese alla prospettiva rivoluzionaria? Niente d tutto questo, naturalmente.

La CGT in Francia da anni è una vera e propria istituzione dello stato borghese e tale intende rimanere. L'attuale (recente) comportamento della CGT non è tanto dettato da una maggiore sensibilità da parte di questo sindacato verso la difesa degli interessi dei lavoratori, ma è dovuto, principalmente, a due diversi fattori. Primo: la CGT teme di perdere elementi importanti del suo potere con la nuova legge (con tutto ciò che comporta in termini di interessi economici).

Secondo: esso deve gestire la rabbia di ampi settori della classe lavoratrice, non disposti ad accettare passivamente la riforma, e controllare le pressioni provenienti da alcuni segmenti della classe (i giovani e tutti coloro che temono per un futuro incerto) pronti a mobilitarsi al di là di ciò che la stessa CGT vuole. Questi due aspetti hanno spinto, e in qualche modo forzato, la CGT verso azioni più radicali, affiancate però alle recenti dichiarazioni di apertura nei confronti del governo e ad atti repressivi verso settori “fuori controllo”.

Con ancora più decisione, naturalmente, escludiamo la presunta conversione della CGT verso qualsiasi prospettiva rivoluzionaria. Ma questo vale per tutti i sindacati. Il sindacato è per sua stessa natura l'organismo che contratta il prezzo della forza-lavoro, quindi dipende dal capitalismo, è strettamente legato a esso, non punta al suo rovesciamento. La storia del sindacalismo, e non solo in Francia, lo conferma. Ciò che caratterizza politicamente una lotta, e coloro che la conducono, è la direzione che si vuol dare a questa lotta e le organizzazioni sindacali non mirano solo al ritiro o alla modifica della legge El Khomri, ma ad una politica di riforme, per altro incompatibile con lo stato attuale del capitalismo.

Altre volte, in Francia, erano partiti scioperi a tempo indeterminato e vasti movimenti di contestazione (1995, 2006), che però, se hanno momentaneamente rallentato l'attacco borghese (il che in sé non è certo disprezzabile), non l'hanno fermato e hanno seminato ben poco – a nostra conoscenza – sul terreno della coscienza di classe rivoluzionaria. La grande determinazione alla lotta, messa generosamente in campo dal proletariato francese, allora era stata, in fin dei conti, diretta dal sindacato, esattamente come sta avvenendo finora. Il sindacato non si smentisce, in linea con la sua tradizione stalinista, nel sostenere le forze dell'ordine borghese nella soppressione di alcuni elementi combattivi e di opposizione che vi sono all'interno del sindacato stesso e dei cortei.

Naturalmente, non pensiamo che tutto ciò che sta accadendo sia semplicemente frutto di un piano prestabilito del sindacato, anche se l'approvazione dell'articolo 2 - come abbiamo già detto – potrebbe procurargli dei problemi e indebolirlo ulteriormente. C'è molta rabbia sociale, ed è in crescita, ma fino ad ora si esprime per lo più a livello sindacale, catturata e diretta dai sindacati maggioritari (CGT, FO) e dal cosiddetto sindacalismo alternativo (SUD).

Nonostante la diffidenza, nonostante la disillusione nei confronti del sindacalismo, questo continua ad essere il punto di riferimento organizzativo delle esplosioni di collera sociale.

Il punto è che queste ondate di protesta si scontrano con margini di mediazione ormai ridotti all'osso; è una facile previsione affermare che la maggiore flessibilità e il complessivo impoverimento della nuova classe lavoratrice avranno un'accelerazione in Francia, come si vanno accelerando nel resto d'Europa, e alla sconfitta seguirà ancora scoramento, frammentazione, dispersione. Per i comunisti diventa sempre più centrale intervenire in questo genere di situazioni, appoggiando gli interessi generali del movimento per maturare coscienza di classe rivoluzionaria, per fungere come polo di orientamento capace di aggregare intorno alla prospettiva internazionalista un primo scheletro di organizzazione rivoluzionaria.

Appoggiamo le lotte della classe lavoratrice francese, ma al contempo la mettiamo in guardia dalle trappole del sindacalismo, dell'opportunismo vecchio e nuovo, dalle istanze della piccola borghesia, perché l'alternativa è sempre e solo la definitiva cacciata del padronato nel suo complesso ed una nuova forma di organizzazione sociale fondata sul potere nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici. Nel 1871 la Comune di Parigi ci aveva già mostrato la strada da intraprendere.

Le lotte cominciano e finiscono. Valutare le loro conquiste è sempre difficile, ma se la classe operaia non avanza sia in termini di organizzazione, attraverso più ampi organismi di classe come assemblee e comitati di sciopero, sia in termini di coscienza politica, esse non lasceranno una grande eredità.

E nell'inevitabile riflusso che segue le ondate di lotta, i rivoluzionari devono mantenere viva quella coscienza politica all'interno della classe operaia (intesa in senso lato) non solo rielaborando politicamente – per seminarle nella classe - le lezioni delle lotte più recenti, ma quelle dell'intera storia del movimento rivoluzionario. Essi devono porsi l'obiettivo concreto della costruzione del partito della classe proletaria all'interno di questi movimenti sociali.

È il partito lo strumento indispensabile per rilanciare concretamente la lotta anticapitalista. È proprio in questi momenti che l'organizzazione deve e può maturare in modo tale da essere abbastanza forte da poter diventare un vero partito politico della classe, un organismo che indichi la strada nella direzione del rovesciamento dell'ordine capitalista: portare la lotta di classe dal piano della mera difesa dei propri interessi immediati a quello dell'affermazione di un mondo nuovo possibile; trasformare la crisi capitalistica nella possibilità storica del superamento del capitalismo stesso. Questa è la questione politica che abbiamo dinnanzi.

La Tendenza Comunista Internazionalista opera all'interno di questa prospettiva per la costruzione e lo sviluppo di una organizzazione rivoluzionaria radicata nella classe operaia internazionale. Certo, non è un compito facile, né di breve termine, ovviamente, ma bisogna pur mettersi in cammino, se si vuole farla finita con questo mondo disumano: unisciti a noi!

TCI
Lunedì, June 27, 2016

Comments

Siccome un compagno ci ha scritto sia per esprimerci il suo apprezzamento per la presa di posizione sugli eventi francesi che una perperplessità relativa alla forma in cui è stato enunciato un concetto, riteniamo qui di specificare una volta di più ciò che pensiamo. Si sa, meglio abbondare che scarseggiare in fatto di chiarezza.

La formulazione che al compagno rischia di sembrare, per così dire, un po' debole dal punto di vista della nostra impostazione è la seguente: "Essi [i comunisti] devono porsi l'obiettivo concreto della costruzione del partito della classe proletaria all'interno di questi movimenti sociali. È il partito lo strumento indispensabile per rilanciare...". A noi pare che il significato, tenuto conto del contesto, sia chiaro, ma, come si diceva, due parole in più non costano niente. Dunque, non si deve intendere che il partito va costruito esclusivamente nelle occasioni di fermento sociale, ma solo che queste sono un'occasione importante per cercare di radicare l'organismo rivoluzionario nella classe, nel momento in cui essa (o spezzoni di essa) si muove e non subisce passivamente l'iniziativa e l'ideologia della borghesia. In tali momenti è meno diffcile (non diciamo più facile...) seminare e raccogliere gli elementi più sensibili della classe e di coloro che, pur non appartenendo socialmente al proletariato, sono attratti dalla e vogliono lavorare per la prospettiva del comunismo. Insomma, per sintetizzare, i comunisti devono porsi l'obiettivo concreto della costruzione del partito della classe proletaria e operare per il suo radicamento politico all'interno di questi movimenti sociali (lotte operaie, proletarie, mobilitazioni, manifestazioni ecc.), attraverso la propaganda dell'alternativa anticapitalista e della strategia rivoluzionaria per raggiungerla...

Smirnov