Appunti sulla decadenza del capitalismo - Produzione di merci e finanza

Con il progressivo manifestarsi delle tante difficoltà che tormentano il modo di produzione capitalistico (al termine “decadenza” si dà spesso questa interpretazione), lo stesso possibile collasso del sistema economico tuttora dominante assumerebbe, per alcuni, il sostanziale carattere di un evento storico scontato. La irreversibilità del suo crollo si baserebbe su un concetto “scientista” secondo il quale – con conclusioni idealistiche e persino teleologiche – ogni cosa avrebbe un suo preordinato finale.

Ma il crollo (e la distruzione) del capitalismo non ha nulla di meccanico e di automatico, anche quando il capitale, raggiunta la fase storica dell'imperialismo, evidenzia la tendenza alla propria stasi e putrefazione. Anche se i sopraggiunti fenomeni delle crisi climatiche e delle migrazioni – con le loro proporzioni addirittura di un genocidio – aggraverebbero i mali del capitalismo, avvalorando l’opinione di una sua autodistruzione.

Preso per se stesso, il concetto di decadenza non cambia una realtà nella quale si diffonde un costante peggioramento non solo della società, che arretra in forme di imbarbarimento, ma della stessa specie umana che rischia l’autodistruzione. Sono gli effetti dell’esplodere delle contraddizioni insanabili che si alimentano nella struttura del capitalismo e nei suoi processi di accentramento e concentrazione del capitale. In effetti, oggi assistiamo al concretizzarsi del regresso di molte potenzialità del sistema nel suo complesso, che solo un secolo fa sembravano da fantascienza e comunque non tali da segnare il grave pericolo che rappresenta oggi una sua sopravvivenza. Si tratta quindi di non consolarsi con questa sua decadenza da considerarsi quasi fatale, bensì di affilare innanzitutto le armi della analisi critica di quanto sta accadendo e, contemporaneamente, quelle della necessaria organizzazione politica per il rovesciamento e superamento delle vere cause storiche, materiali, che ci impediscono di aprire le porte ad una nuova società di uomini e donne, finalmente liberi ed eguali. Ed anche se, certamente, oggi si può escludere in forma assoluta quel possibile «rapido incremento del capitalismo» al quale ancora accennava Lenin nell’Imperialismo, tuttavia sarà sicuramente accanita la sua resistenza all’interno di una realtà sociale nella quale prevale una barbarie sempre più violenta.

L’acutizzarsi delle crisi

Le crisi che accompagnano il corso storico del capitalismo (in testa la caduta del saggio medio di profitto), sono ormai approdate a quella che è una vera e propria fase di putrefazione di questo storico modo di produzione. Mentre nel passato le possibilità di una espansione dei mercati si potevano ancora concretizzare, oggi una tale condizione si è in massima parte complicata e quasi del tutto esaurita. Il degrado del sistema capitalistico, e della organizzazione sociale sulla quale si regge, è più che evidente: manca ancora quel momento storico – Marx lo definiva di «commozione rivoluzionaria» – nel quale si determina uno sviluppo al tempo stesso di condizioni oggettive e soggettive tali da contrapporre, alla disgregazione del vecchio mondo, la realizzazione di una nuova organizzazione sia delle forze produttive sia della società non più con l’attuale divisioni in classi contrapposte.

Il declino capitalistico si evidenzia nella crisi che lo ha colpito ultimamente, e che da parte di alcuni degli stessi economisti borghesi si tende ormai a definire “sistemica”. Una crisi di tale portata che nessuno di loro riesce a intravvedere una sia pur tortuosa via d’uscita. Una strada percorribile, anche con la forza, per raggiungere un ipotetico regolamentato e stabile assetto del capitalismo nei suoi movimenti quale specifico modo di produzione e distribuzione. Sempre, s’intende, fingendo di rispettare i mistificanti principi della crescita economica, stabilità finanziaria e… uguaglianza sociale. Insomma, un più equo capitalismo, prendendo tempo per poterlo così salvare dal crollo! E tutti brancolano nel buio mentre si succedono vertici e conferenze internazionali: i partecipanti sono immancabilmente trascinati in un circolo vizioso nel quale le tante concatenazioni tra cause ed effetti polverizzano sul nascere le fantasiose e “ordinate riprese”, oggetto delle loro elucubrazioni. Invano si cerca di immaginare qualche correttivo applicabile alla “organizzazione” prevalentemente finanziaria del sistema, rifiutando qualsiasi accenno, sia pure marginale, al fondamentale settore produttivo e distributivo che trascina a fondo il sistema e la sua società.

La crisi non costituisce più – come per il passato – una momentanea interruzione (cicli economici congiunturali che si ripetono coi loro alti e bassi) dell'accumulazione capitalista, superabili con un modello “aggiornato” che dia spazio alla maggiori produttività conseguita con i progressi tecnologici e scientifici. Ma questo ha accelerato quella che è una inevitabile decadenza del saggio medio di profitto, al seguito di trasformazioni strutturali gigantesche nei processi produttivi di merci. Ne è seguita, e continua a tutt’oggi, una forte riduzione di quel vivo lavoro dal quale il capitale estrae plusvalore; il capitale è costretto, dalla concorrenza e sempre con la illusione di un costante aumento profitto, a seguire l’inarrestabile sviluppo delle forze produttive.

Una nuova valorizzazione?

Quando si manifesta – come sta accadendo – la caduta del saggio di profitto, si ha una sovrabbondanza, una sovraccumulazione di capitali. Nonostante, specie negli ultimi decenni, vi sia stato indubbiamente un allargamento e rafforzamento del processo di produzione e riproduzione capitalistico, tuttavia l'espansione di masse di capitale monetario, anche nella sua forma di capitale da prestito che rimane tuttavia inattivo per nuovi investmenti, non indica un incremento del capitale produttivo di merci bensì proprio il contrario.

Ecco dunque un ammasso di titoli cartacei (azioni, obbligazioni, titoli di proprietà fondiaria) che vanno a costituire un sistema chiuso in se stesso, che si basa sul saccheggio di plusvalore disponibile a scala mondiale, al fine di spacciare per vero l’assunto del denaro che produce denaro. Cercano di tirare dalla loro parte una coperta che si sta accorciando, in uno scenario che si fa deflazionistico venendo a scarseggiare quella valorizzazione alla quale si aggrappano (con violenza… ) l’interesse e la rendita fondiaria. Ma senza uno sviluppo del settore produttivo (con scambi mercantili in crescita) viene meno quel processo di produzione immediato di ricchezza (che per il capitale significherebbe un gonfiarsi del valore eccedente) dal quale dipende il valorizzarsi dei titoli cartacei. Senza una costante riproduzione di impiego della forza-lavoro (il cui “costo”, cioè il capitale variabile, diventa un determinante mezzo di scambio per lo sviluppo del capitalismo stesso), il capitale va a sbattere contro un ostacolo per lui fatale.

Paradossalmente, è lui stesso che va riducendo – col progresso tecnologico – questo fenomeno storico (- v + c) dal quale, al contrario, la sua sopravvivenza e la sua riproduzione sociale dipenderebbero da un aumento di forza-lavoro da sfruttare. Col capitale fittizio, dunque, il sistema sprofonda ulteriormente nel baratro, nonostante il potere – dello Stato, e delle armi in piena efficienza – di cui dispone. Il denaro, anziché incrementare, come sarebbe necessario per il capitalismo, lavoro salariato e mezzi funzionali ad una sua reale valorizzazione, cioè investito direttamente nella produzione di merci, ricorre – per simulare un suo incremento – alla appropriazione di parte del plusvalore “creatosi” nel settore manifatturiero. Così, in un vorticoso giro di crediti e debiti, si determinano unicamente spostamenti di masse di denaro che, non dando vita ad un movimento di produzione e di consumo-acquisto di merci, porteranno inevitabilmente al gonfiarsi e poi all’esplodere di bolle speculative di proporzioni gigantesche.

Non si è infatti ottenuta alcuna supplementare valorizzazione, alcun plusvalore, quello cioè che soltanto si ricava sfruttando la forza-lavoro per produrre merci. Alla fine i crediti concessi (solo per acquisti o altre speculazioni) dovranno essere poi rimborsati, addirittura con interessi. Così avviene per i Titoli di Stato: sarebbero garantiti in ultima istanza dallo Stato, il quale metterà le mani in tasca ai cittadini (alla “ricchezza sociale” in generale) con imposte, vendita di “beni pubblici”, tagli alle spese “sociali”. In primis, a pagare sarà il proletariato.

Si moltiplicano nel frattempo gli oggetti forniti dalla “industria finanziaria”, del tutto staccata dalla produzione delle merci, ed avanzando la pretesa di poter attingere al plusvalore che è stato “prodotto” altrove, ottenendo così un aumento del capitale-denaro iniziale. Basti pensare al moltiplicarsi dei sempre più rischiosi titoli derivati.

Quel capitale fittizio (1) ha oggi una espansione universale che si nutre artificiosamente di virtuali guadagni. Si arriva alla illusione di una “capitalizzazione” di quella che dovrebbe essere una futura produzione di valore. Saremmo cioè di fronte ad una “rappresentazione” astratta di un futuro valore. Una “rappresentazione” che altro non fa che svalorizzare ulteriormente il denaro, proprio mentre – con il livello oggi raggiunto dalle forze produttive e il conseguente diminuire dell’utilizzo di lavoro vivo – il capitalismo non può più funzionare. Si riduce progressivamente la base stessa della valorizzazione, si riducono i profitti, il capitale fittizio diventa parassita di se stesso!

I crediti non si orientano più agli investimenti ma al tentativo di incentivare i consumi di merci, col risultato di aumentare la circolazione di questo capitale-denaro del tutto fittizio, incapace di produrre il benché minimo valore. Ciononostante, si assiste al disperato tentativo di raccogliere all’infinito denaro, deregolamentando il settore finanziario, aumentando le cartolarizzazioni, e si dilata (indebitandosi) il gettito dei titoli statali e privati, gli indebitamenti pubblici e privati.

La moneta moltiplica artificiosamente se stessa

È la crisi del processo di accumulazione capitalistica, a seguito del contrarsi dei saggi di profitto, ad originare l'abnorme crescita della sfera finanziaria e della diffusione dei suoi “prodotti”; il tutto si accompagna alla crescente appropriazione parassitaria del plusvalore proveniente da settori produttivi. Questo capitale-monetario è più che effimero, costituito da crediti scambiabili con titoli (come quelli del debito pubblico) e funge in generale da base di partenza per la creazione di altra moneta da credito. Un credito questa volta prevalentemente diretto ad un momentaneo incremento dei consumi, unicamente a sostegno di un mercato sofferente ma senza la prospettiva di quella riproduzione allargata che per l’accumulazione capitalistica è vitale.

Si crea moneta per mezzo della moneta stessa; i debiti come anticipazione di un reddito futuro, indipendentemente dalle condizioni critiche della economia reale.

A questo punto si assiste ad un movimento di grandi masse di denaro che aspirano a farsi capitale, ma che non trovando un “impiego remunerativo” nel mondo della produzione materiale a causa della tendenziale caduta del saggio di profitto, vagano alla ricerca di un’altra, impossibile, loro reale valorizzazione. Il capitale creditizio si pone ora principalmente in relazione con la prospettiva di un futuro interesse, per ottenere il quale è costretto a percorrere la strada della speculazione (imbrogli creditizi e azionari, crisi) nel tentativo di cercare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui lo stesso sviluppo delle forze produttive lo ha rinchiuso.

Gli strumenti di circolazione di questa “finanza per la finanza” sono vari e numerosi: dalle options agli swaps, ai futures, eccetera. Come più volte affermato, si assiste ad un colossale gioco d’azzardo internazionale: ogni giorno nel mondo avvengono “transazioni finanziarie” per almeno un migliaio di miliardi di euro e dollari. La stessa Federal reserve valuta al solo 5%, di questa enorme massa di capitali, il movimento finanziario per le esigenze di produzione e reale valorizzazione (D – M – D’), mentre il restante 95% si riduce ad una pura transazione virtuale di denaro, cioè D – D. Un movimento dove la possibilità di incrementare il capitale iniziale (per ottenere D’) si alimenta parassitariamente e violentemente attraverso il prelievo di quote di plusvalore già ottenuto nei processi produttivi per i quali, appunto, è stata investita una minima parte del capitale in movimento sui mercati finanziari.

Dunque, D - D' come forma assoluta del capitale-denaro, valore che si valorizza con il rapporto di D con se stesso e misurato a se stesso, dove scompare anche «il termine medio che ancora esiste nel capitale commerciale puro, D - M - D' ». (Marx, Storia delle teorie economiche).

E' il capitale espressamente ritirato, separato dal processo, come presupposto del processo, di cui è il risultato e soltanto nel quale e mediante il quale è capitale.

Siamo al compimento di ciò che Marx definiva (a proposito della «forma concettualmente impropria dell’interesse»)

la rappresentazione del capitale-feticcio, la rappresentazione che attribuisce al prodotto accumulato dal lavoro la forza di generare plusvalore in progressione geometrica in virtù di una misteriosa qualità innata, di modo che questo prodotto accumulato del lavoro avrebbe già da tempo scontato per l’eternità tutte le ricchezze del mondo. Qui il prodotto del lavoro passato, lo stesso lavoro passato, è gravido in sé e per sé di una frazione di pluslavoro vivo presente o futuro. Si sa invece che, in primo luogo la conservazione e anche la riproduzione del valore dei prodotti del lavoro trascorso sono in realtà soltanto il risultato del contatto di quest’ultimo con il lavoro vivo e che, in secondo luogo, il dominio dei prodotti del lavoro trascorso sul vivente pluslavoro dura solo finché dura il rapporto capitalistico, un rapporto sociale determinato in cui il lavoro morto si contrappone in modo indipendente e soverchiante al lavoro vivo.

Quando il capitale abbandona la produzione di merci e come semplice denaro in circolazione va alla ricerca di un plusvalore col quale riprodursi in continuazione, senza produzione di merci, avremo il movimento su se stessa di una massa monetaria dal valore fittizio. Essa sopravvive solo in forma parassitaria. Non rappresenta più un valore assimilabile a quello del tempo di lavoro socialmente necessario a produrre le merci; si è trasformata in idolo, addirittura una cosa che può “far soldi” da sola, al di fuori della produzione e vendita di merci. Là dove svolge l’attività di strumento di mediazione per tutti gli scambi (compreso quello riguardante la vendita-compera della forza-lavoro). Ed ecco allora D che diventa autonomamente D’, al di fuori di quel circuito dove il capitale monetario si accumula in un maggiore quantità sfruttando il lavoro umano. Tutto ciò da cui il denaro trae valore, scompare nel nulla:

il movimento che ha mediato questo processo svanisce nel suo stesso risultato, senza lasciare traccia. Senza dover fare nulla per raggiungerlo, le merci trovano la forma del proprio valore, nella sua forma finita, nel corpo di una merce esistente al di fuori e al loro fianco... Da qui la magia del denaro... L'enigma del feticcio del denaro è quindi semplicemente l'enigma del feticcio delle merci, che è diventato visibile e accecante agli occhi.

È producendo merci, attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro, e vendendole, che si “crea” e poi si realizza quel plusvalore che valorizza il capitale; un plusvalore che in parte diventerà capitale finanziario, la cui caratteristica è – soprattutto oggi – quella di opera attraverso la concentrazione e la centralizzazione di grandi quantità di denaro il cui impiego e la cui destinazione godono di una relativa indipendenza dal capitale industriale. Ma la loro valorizzazione è del tutto fittizia, con rendimenti che deriverebbero da semplici movimenti del denaro stesso, cominciando da operazioni di credito e debito. Inizialmente, il saggio medio dell'interesse viene considerato come il guadagno minimo ricavabile da ogni capitale dato in prestito.

Svanisce così anche l'ultima traccia di ogni connessione con il reale processo di valorizzazione del capitale e si fissa la rappresentazione del capitale come un automa che si valorizza di per se stesso.

Marx, Il Capitale, Libro Terzo

Crescita autonoma del capitale finanziario?

Il capitale finanziario non potrebbe esistere senza appropriarsi del plusvalore proveniente dalla produzione industriale; nate per sostenere i processi produttivi, le società finanziarie sono oggi direttamente sostenute dalla produzione di merci e dal loro consumo: è questo un risultato storico e pertanto irreversibile.

Questa finanziarizzazione del modo di produzione capitalistico deriva innanzitutto dalla tendenziale caduta del saggio medio del profitto e quindi poggia sulla illusione (ormai diventata una vera e propria ossessione) che al contrario i saggi di interesse del capitale possano mantenersi ad alti livelli autonomamente e indipendentemente, garantendo al capitale impiegato ad interesse composto un aumento in progressione geometrica.

Si crede di aver eliminato quella produzione di merci attraverso la quale (diminuendo il tempo di lavoro pagato col salario (oltre alla sua sostituzione con mezzi meccanici) si valorizza il capitale investito. Ma allora la caduta del saggio di profitto gli dimostra come lo sfruttamento del vivo lavoro umano sia l’unica «condizione necessaria per la riproduzione e valorizzazione del capitale». Si deve produrre plusvalore e avere un mercato nel quale si affollino masse di consumatori che, pagando le merci, consentano al capitale di realizzare il plusvalore in esse contenuto.

Ma la produzione di plusvalore (la cui quantità dovrebbe sempre aumentare per le “esigenze” del capitale) tende a calare via via che diminuisce l’impiego di lavoro vivo; in più, la maggior parte del plusvalore, ancora estorto alla forza-lavoro nei settori produttivi di merci, non ritorna affatto là dove è stato “prodotto” per alimentare i cicli di una produzione in crisi. Esso invece si disperde per sorreggere (uscite senza… entrate e bilanci in rosso!) le impalcature sovrastrutturali e scricchiolanti della società borghese.

Questo nonostante lo sfruttamento della forza-lavoro, ancora impiegata, sia spinto a forme e livelli incredibili. Paradossalmente, più la produttività del lavoro aumenta, grazie ad una spinta dell’automatizzazione delle macchine (fino ai robot) e quindi assumendo un carattere del tutto sociale, e più si incaglia la produzione e la realizzazione di plusvalore (sia assoluto sia relativo) ed aumenta la caduta del saggio medio di profitto, mutando la composizione organica del capitale.

Va sempre ricordato che, al contrario di quanto avviene nel processo produttivo in cui si genera valore, sfruttando il lavoro salariato, nella circolazione non si produce nulla e qui - paradossalmente – avviene l’illusoria autonomizzazione del valore, la sua fissazione (il capitale fittizio) con la pretesa di avere un interesse, un valore che si crea a partire da se stesso. Il denaro autocreatore di valore in sostituzione di una sempre più difficoltosa valorizzazione attraverso il processo produttivo; il denaro impegnato nella circolazione e non più, come capitale, valore in processo ma valore oggettivato nella forma denaro che

non funziona né come valore di scambio né come valore d’uso: è tesoro morto, improduttivo. Da esso non prende avvio alcuna azione.

Marx, Frammento del testo originario di Per la critica dell’economia politica, inserito nei Lineamenti fondamentali

Il credito “progressivo”

Nella storia dello sviluppo del capitalismo il plusvalore trasformato in capitale finanziario, indirizzato verso il sistema del credito destinato per investimenti al mondo industriale, rappresentò un grande vantaggio per l’accumulazione capitalistica. Il credito inizialmente ebbe una funzione “progressiva”. Vale la definizione di Hilferding, citata da Lenin nell'Imperialismo: «Il capitale finanziario è il capitale di cui dispongono le banche, ma che è impiegato dagli industriali».

Ma oggi, diversamente da quanto accadeva nella prima fase imperialistica con l'esportazione dei capitali eccedenti verso i paesi arretrati (e con la trasformazione della maggior parte di quei capitali in capitale industriale), l'appropriazione parassitaria di plusvalore non viene compensata adeguatamente da una produzione aggiuntiva di plusvalore. Oggi, con la produzione di capitale fittizio, assistiamo ad una appropriazione e ad un trasferimento di plusvalore verso i centri metropolitani senza una crescita della sfera economica di questi ultimi. Una forma di accumulazione che, indipendentemente dalla economia reale, si basa soltanto sul movimento del denaro.

Quando questo capitale, nella sua forma di denaro, assume quantitativamente una enorme presenza e si rivolge non più all’investimento, diretto o indiretto, nei processi produttivi ma bensì alla speculazione (monete, accaparramento di materie prime, ecc.) allora la fase storica del capitalismo assume una caratteristica completamente parassitaria. Viene in parte superata la stessa prima fase imperialistica, nella quale dominava la presenza dello “Stato usuraio, dove la borghesia vive esportando capitale e tagliando cedole”.

Chiaramente, quel capitale che ancora viene chiamato finanziario ma che è del tutto fittizio, si è prodotto – e si autovalorizza (nella illusione del capitale che figlia se stesso) – attraverso una intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale produttivo, un maggiore prelievo di plusvalore dal mondo della produzione, ottenuto anche attraverso l’applicazione di innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche e quindi, ancora, con un ulteriore sviluppo delle forze produttive, sia pure nei limiti della stessa formazione sociale borghese.

Nel tempo, questo sistema finanziario si è reso autonomo, diventando capitale quasi esclusivamente da speculazione: un valore che valorizzerebbe se stesso, saltando un proprio impiego diretto nella produzione di plusvalore e mostrandosi vitale soltanto in una agitazione convulsa sui mercati per lo più mediatici e con lo scopo di rastrellare il plusvalore già prodotto ed esistente sulla faccia della Terra: il plusvalore necessario a garantirgli un interesse, a dar vita apparente alla forma astratta D – D’.

Capitalismo parassitario

In conclusione: nella sua affermazione e nel suo progressivo sviluppo mondiale, il capitalismo approda (nel succedersi delle crisi dei cicli di accumulazione e del loro superamento) ad una fase nella quale si manifesta una eccedenza di capitali, masse enormi, i quali non trovano nel processo produttivo - che li ha generati - una adeguata “remuneratività”, un soddisfacente saggio di profitto per un loro reimpiego produttivo: è il momento storico del dilagare del capitale finanziario e delle sue attività speculative al di fuori del campo propriamente produttivo, alla ricerca di altre “valorizzazioni”.

Con le “attività” del capitale finanziario si afferma il carattere parassitario tipico di una società decadente, la quale nulla più può dare di progressivo sia in campo economico sia in campo sociale, quindi tanto nella struttura quanto nella sovrastruttura. Si intensifica oltre ogni limite lo sfruttamento della forza-lavoro impiegata, per ottenere una massa di plusvalore a cui possa attingere il capitale per le proprie operazioni speculative e per coprire i costi della gestione economica e sociale del suo dominio (amministrazione burocratica, repressioni poliziesche e spese militari).

L'appropriazione di quote di plusvalore, estorto in altri settori, cicli produttivi o aree diverse, si trasforma non più - se non in parte minore - in capitale industriale (cioè andando pur sempre ad incrementare gli investimenti nei processi produttivi) bensì in capitale finanziario; questo capitale si “riproduce” secondo la immaginaria formula D - D', che si sostituisce a quella propria del capitalismo (D - M - D'); attraverso cioè interessi e forme di rendita finanziaria speculativa, una plusvalenza che si sostituisce al normale profitto industriale.

La formazione di masse enormi di capitali in eccesso (non sufficientemente remunerativi in un ciclo di produzione entrato in crisi) evidenziano l'impossibilità di dare vita a nuovi cicli di accumulazione, di riproduzione allargata del capitale. (Il capitalismo non conosce altra soluzione a questa sua esigenza se non quella della distruzione di capitali e mezzi di produzione in eccedenza attraverso la guerra e un conseguente avvio di nuovi cicli di accumulazione.)

Quindi assistiamo all'esasperata ricerca di una valorizzazione al di fuori del mondo della produzione di merci, attraverso attività puramente speculative e parassitarie. Ma queste non possono avere una loro remunerazione se non mediante una sempre maggiore estensione delle forme di appropriazione di un plusvalore proveniente dall’esterno, necessario a fornire margini di guadagno al denaro improduttivo. Cioè, proprio là dove lo stesso viene ottenuto con lo sfruttamento e la svalutazione del valore della forza lavoro, attraverso l'incremento sia del plusvalore relativo (processi di lavoro automatizzati) che del plusvalore assoluto (lunghezza della giornata di lavoro). Il motore dello “sviluppo”, propagandato dagli apologeti del capitale, diventa quello di un'appropriazione di ricchezza basata sulla circolazione di capitale fittizio, sul capitale finanziario proveniente da altro capitale finanziario, nella illusione, vera e propria follia, che il capitale possa figliare capitale attraverso una forma di partenogenesi finanziaria.

In realtà il capitale finanziario non produce una sola goccia di plusvalore; ottiene una sua remunerazione succhiando quote di plusvalore provenienti dal mondo della produzione.

Abbiamo dunque visto come – in parte già parassitaria fin dai suoi inizi – questa appropriazione di plusvalore da parte del capitale finanziario, per trasformarla in un suo proprio guadagno, avvenga in un primo tempo attraverso un impiego dello stesso capitale finanziario nel mondo della produzione (credito e interesse). In seguito, il capitale finanziario, cresciuto a dismisura, cerca una sua indipendente valorizzazione, fuori dal mondo della produzione. Si rivolge quindi ad attività puramente speculative che nulla hanno a che vedere neppure indirettamente con la produzione reale di plusvalore, bensì provocano la sua “requisizione” e la sua dissipazione. Possiamo a pieno titolo, ma solo in questi ben definiti termini, parlare di un capitalismo in fase di decadenza, il quale – oggi più che mai – è in attesa di quella spallata finale che solo il proletariato, organizzato e guidato con la guida del proprio partito politico, dovrà dargli per aprire le porte all’avvento della nuova la quale, grazie al grande sviluppo delle forze produttive, darà il via ad un nuovo e diverso modo di produrre e distribuire.

La decadenza storica del capitalismo

L’interpretazione dei deleteri fenomeni, economici e sociali, che stanno sconvolgendo il mondo contemporaneo secondo il concetto di una decadenza storica del capitalismo, dà l’impressione semplicistica che tutto faccia parte di un divenire storico universale, quasi in dipendenza di una legge sovrannaturale. In realtà, questi fenomeni sono posti in essere da cause ben precise, le quali impongono al capitalismo nuovi comportamenti formali e priorità per tentare una propria conservazione. Con qualche modifica superficiale nei rapporti (economici, sociali e politici) con i quali esercita il proprio sfruttamento e dominio sul proletariato.

Sta di fatto che un rallentamento della caduta del saggio del profitto risulta possibile – e come tale il capitale si sforza di metterlo in atto – alla condizione di frenare (altra contraddizione) lo sviluppo delle forze produttive che scienza e tecnica spingono invece verso traguardi sempre più avanzati. Il capitale, a questo punto, si spinge persino all'indietro, ricercando rami della produzione dove maggiormente predomini il lavoro vivo, risparmiando sul capitale costante (decentramento delle produzioni, aree indotte, risparmio di materie prime, truffe, ecc.) e impiegando manodopera a basso prezzo.

È così che il capitalismo risponde alle proprie intrinseche contraddizioni, ricorrendo a «cause antagoniste» che, se apparentemente frenano al momento la caduta del saggio del profitto, «in ultima istanza ne accelerano sempre la caduta». (Marx)

Si apre quindi una fase in cui si manifestano pienamente e si accentuano fenomeni come la ricerca di extraprofitti, il parassitismo, le concentrazioni sia industriali che finanziarie. Lo stesso avviene per quanto riguarda le controtendenze volte a compensare la caduta del saggio di profitto; al punto che il capitale ritorna addirittura a forme di estorsione del plusvalore assoluto. Si vede quindi costretto, per la propria sopravvivenza, a distruggere le forze produttive che risultano eccedenti o a lasciare inutilizzati interi settori produttivi e costringere ad una totale inoperosità milioni di individui, gettandoli nella miseria e nella disperazione per l'impossibilità, senza salari, di accedere al consumo mercantile. Il mercato mostra a questo punto tutti i propri limiti di assorbimento di un potenziale accrescimento del volume delle merci prodotte, nonostante le condizioni di indigenza a cui sono costrette masse crescenti di proletariato tanto nelle zone ancora definite “sottosviluppate” quanto nelle stesse metropoli del più avanzato capitalismo.

Sono praticamente esaurite le condizioni per realizzare adeguati profitti. I cicli infernali del processo di accumulazione del capitale (espansione, depressione, crisi ed infine la guerra come unica via temporanea d'uscita) si succedono inarrestabili, trascinando questo modo di produzione e distribuzione in un alternarsi di violente manifestazioni di distruzione e ricostruzione delle forze e dei mezzi di produzione di cui dispone, o potrebbe disporre, l'intera umanità.

Qui va ribadito che per il capitalismo è un obbligo quello di diminuire “relativamente” la domanda di lavoro, via via che la trasformazione delle merci in denaro rallenta riducendo il numero di coloro che parte di quelle merci dovrebbero acquistare. Questo quando già la domanda degli operai è – e lo deve essere, per il sistema! – minore del valore di quanto essi producono. Il quale

è tanto più grande quanto più piccola è relativamente questa domanda. Né tanto meno è sufficiente la domanda reciproca dei capitalisti.

Marx, Storia teorie economiche, Einaudi 1954/58, II vol., pag. 499

Quando la crescita della massa totale del profitto non riesce più a compensare la caduta del suo saggio, quando cioè la produzione di plusvalore è in assoluto insufficiente, oltre che nel suo rapporto con la parte di capitale impiegato nella produzione, allora scoppia la crisi con un ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato.

Dominio totale

Il dominio reale e non più solo formale del capitale sulla società, è oggi un fatto compiuto. Il lavoro è completamente sottomesso al capitale. Tale sottomissione si è pienamente concretizzata attraverso la produzione di plusvalore relativo (aumento della produttività sociale della forza lavoro), la quale ha in generale preso il sopravvento sulla iniziale produzione di plusvalore assoluto (aumento della produzione attraverso il prolungamento della giornata di lavoro).

L’esasperata estorsione di plusvalore relativo, a seguito dei fenomeni storici della concentrazione e centralizzazione, delle innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche applicate ai processi produttivi, ha così spinto e spinge il capitale – sotto il pungolo della concorrenza internazionale – ad accentuare la maggiore potenza della propria dominazione reale sul lavoro. Ne risulta la diffusione ovunque della più alta forza produttiva sociale e, contemporaneamente agli incrementi della produttività e all’estorsione di plusvalore relativo, anche l’aumento della composizione organica del capitale e quindi, di nuovo, la caduta del saggio di profitto.

In effetti, man mano che le forze produttive si sviluppano, la socializzazione della produzione tende a diventare un fatto concreto, ma finché domina il capitale questa socializzazione è sfruttata unicamente con lo scopo di ottenere una valorizzazione del capitale stesso. Come scrive Marx nel Capitolo VI inedito,

il processo lavorativo diventa semplice mezzo al processo di valorizzazione, di autovalorizzazione del capitale-mezzo per fabbricare plusvalore.

Ancora:

l’incremento della forza produttiva del lavoro socializzato e con esso l’applicazione della scienza al processo di produzione immediato

dà un forte impulso sia allo sviluppo delle capacità produttive sia alla socializzazione del lavoro. Tendenzialmente, il capitalismo diminuisce il tempo di lavoro necessario e incrementa il pluslavoro. Questo pluslavoro, che il capitale privatamente si appropria, si contrappone al lavoro necessario; soltanto con la eliminazione delle condizioni capitalistiche della produzione, il lavoro necessario e il pluslavoro potranno fra loro collegarsi all’interno del lavoro sociale complessivo, alzando il livello dei bisogni secondo una pianificazione sociale e in base allo sviluppo tecnico e scientifico in quel momento raggiunto dall’umanità. Non sarà più il capitale ad imporre il proprio comando sulla socialità del lavoro, sottoponendola alle sue finalità. L’operaio diventa

un infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle immani forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine e che con esso costituiscono il potere del ‘padrone’.

Marx, Il capitale

Precisazioni finali

Va riconfermata la premessa che per saggio di profitto s’intende

interesse + profitto di ogni tipo + rendita fondiaria, e la ripartizione del profitto tra queste diverse categorie è per esso indifferente.

Il Capitale, Libro Terzo

Sempre annotando che l’estorsione di plusvalore assoluto – utile per una compensazione di quella tendenziale caduta – si è dimostrata nel tempo difficile da mantenere ed espandere. Il pluslavoro, in quanto produttore di plusvalore, incontra dei limiti naturali, fisiologici. Inoltre, l’aumento della giornata lavorativa per alcuni lavoratori, crea disoccupazione per altri. Contribuendo a far sì che la «legge assoluta, generale dell’accumulazione capitalistica» è quella di una crescita della massa della sovrappopolazione relativa la quale o viene mantenuta improduttiva oppure eliminata (con la fame, le privazioni o con la guerra). Lo sviluppo della produttività del lavoro

"per forza di cose genera ed accelera condizioni di sovrappopolazione relativa che presenta aspetti tanto più evidenti quanto più evoluto è il modo di produzione di un paese." (Il Capitale, Libro Terzo, cap. XIV).

La produzione di plusvalore relativo, che si realizza pienamente all'apice stesso dello sviluppo capitalistico, diventa perciò non soltanto il mezzo migliore per lo sfruttamento della forza-lavoro, ma anche la «base» sulla quale

si erge un modo di produzione tecnologicamente (e non solo tecnologicamente) specifico, che modifica la natura reale del processo lavorativo e le sue reali condizioni.

Marx, Il Capitale, Libro Primo – Capitolo VI inedito, La Nuova Italia, pag. 68

La modificazione della natura reale del processo lavorativo si caratterizza col fatto che oggi masse enormi di capitale mettono in movimento quantità minime di forza-lavoro: si ricava sempre più plusvalore dai singoli operai, il cui numero però diminuisce, rendendo problematica una ulteriore valorizzazione del capitale, uscito dal processo lavorativo e quindi escluso dall'impiego per la riproduzione allargata.

Il declino della produzione di valore

Il lavoro di ciascun operaio viene uniformato a quello che diventa un livello sociale in generale corrispondente al limite raggiunto dalla produttività in ogni specifico settore. Il tempo di lavoro che si calcolerà per produrre un paio di scarpe sarà quello necessario a produrre un paio di scarpe nelle condizioni più avanzate della produttività a seguito dello sviluppo tecnologico presente. Nel Capitale, Marx scrive:

Il lavoro che forma la sostanza dei valori è lavoro umano eguale, dispendio della medesima forza lavorativa umana. La forza lavorativa complessiva della società che si presenta nei valori del mondo delle merci, vale qui come unica e identica forza-lavoro umana, benché consista di innumerevoli forze-lavoro individuali.

Così Marx spiegava la svalorizzazione del lavoro: con l’introduzione del telaio meccanico a vapore, per trasformare in tessuto una data quantità di filato, il tessitore inglese impiegava metà tempo in confronto a quando lavorava col telaio a mano. In un’ora lavorativa produceva una doppia quantità di tessuto; «soltanto una mezz’ora lavorativa sociale» era sufficiente a produrre il medesimo tessuto di prima, il quale «scese alla metà del suo valore precedente». (Marx, Il Capitale, Libro I). Per il capitale è più che evidente l’obbligo – per sopravvivere – di sottomettersi alle nuove regole derivanti da un tempo di lavoro socialmente ridotto.

La sottomissione alle nuove logiche del capitale è tassativa; essa impone che in un’ora di lavoro, con nuove e più potenti macchine, si produca un quantitativo maggiore di merci. La quantità di valore raffigurata in quell’ora di tempo astratto è sempre quella: muta solo la quantità delle merci prodotte, le quali si suddividono il medesimo precedente valore in un'incessante dinamica concorrenziale che spinge i capitalisti alla conquista dei mercati. Quindi ricerca di un aumento continuo della produttività, diminuendo al minimo il lavoro necessario ancora in vigore come norma sociale. La precisazione di Marx è inoppugnabile:

La produttività aumentata non produce solamente una più grande quantità di ricchezza materiale, ma attua anche una riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario. Data la misura temporale astratta del valore, questa ridefinizione del tempo di lavoro socialmente necessario modifica la grandezza del valore delle merci individuali prodotte, e non il valore totale prodotto per unità di tempo. Il valore totale rimane costante e quando aumenta la produttività si trova ad essere semplicemente ripartito fra una più grande quantità di prodotti.

Ne deriva una costante diminuzione del valore delle merci e la necessità (per il capitale) di inseguire un aumento continuo della produttività.

Ecco perché Marx parla di una inesorabile «contraddizione in processo»:

Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. (...) Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato.

Grundrisse

Ma lo sviluppo illimitato della potenza produttiva - man mano che l’impiego di forza-lavoro diminuisce - si scontra con quello che è il fine della produzione di ricchezza astratta. I limiti storici del capitalismo si evidenziano. «Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo». (Marx)

DC

(1) Per Marx (e per noi) si definisce “capitale fittizio” quel denaro che dovrebbe realizzare un plusvalore col quale pagare l’interesse che spetta eventualmente a chi quel denaro ha prestato. Se ciò non avviene, si ha un debito insoluto; aumenta pericolosamente la massa dei debiti e dei crediti. Nelle relazioni di credito, vengono emessi titoli (come quelli del Tesoro) definiti da Marx «riflesso autonomizzato del capitale-denaro reale». E’ dunque capitale fittizio, poiché – se non lo si utilizza per investimenti nella produzione di merci – la sua valorizzazione è soltanto immaginaria. Con la crisi dei settori produttivi, quelle che si aprono sono soltanto le paludi delle speculazioni.

Il capitale in generale è lavoro morto ed esso si ravviva, come fosse un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo: più sopravvive e più ne succhia. Questo lavoro morto si è precedentemente materializzato in mezzi di produzione i quali, in possesso dei capitalisti, dominano il lavoro vivo. Marx definisce “capitale fisso” quello costituito da edifici, impianti, macchine, ecc., cioè elementi che partecipano a più cicli produttivi; alle merci prodotte in ciascun ciclo cedono solo una parte del proprio valore. Chiama – limitatamente al “consumo” che appunto si verifica in ogni ciclo di produzione – “capitale costante” le materie prime e ausiliarie e la parte dei mezzi di produzione e di lavoro che si consumano (logorano) in ogni ciclo. L’esistenza del capitale fisso equivale nel medesimo tempo «come rapporto tra valore d'uso del capitale e valore d'uso della forza-lavoro». Nelle macchine si oggettiva un “valore morto” il quale fa scomparire gran parte di quello vivo, col risultato che la stessa singola forza-lavoro diventa «qualcosa di infinitamente piccolo». Masse enormi di prodotti fanno scomparire «ogni rapporto al bisogno immediato del produttore e quindi al valore d'uso immediato».

Approfittiamo di questa nota per rimarcare quanto scriveva Marx:

L'accumulazione della scienza e dell'abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, rimane così, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale, e si presenta perciò come proprietà del capitale, e più precisamente del capitale fisso, nella misura in cui esso entra nel processo produttivo come mezzo di produzione vero e proprio. [Le macchine sono] la forma più adeguata del capitale fisso, [il quale, a sua volta, si presenta come] la forma più adeguata del capitale in generale, considerando il capitale nella sua relazione con se stesso.

Con l’aumento del capitale fisso, aumenta la produttività della società:

essa si commisura al capitale fisso, esiste in esso in forma oggettiva e, viceversa, la produttività del capitale si sviluppa con questo progresso generale che il capitale si appropria gratis. (…) Nel capitale fisso il mezzo di lavoro, dal suo lato materiale, perde la sua forma immediata e si contrappone materialmente, come capitale, all'operaio. La scienza si presenta, nelle macchine, come una scienza altrui, esterna all'operaio: e il lavoro vivo si presenta sussunto sotto quello oggettivato, che opera in modo autonomo. L'operaio si presenta superfluo, nella misura in cui la sua azione non è condizionata dal bisogno del capitale.

Il risultato è quello che con la progressiva introduzione di innovazioni scientifico-tecnologiche, le quali si ineriscono nei processi della produzione mercantile, vengono condizionati gli stessi cicli economici. L’effetto immediato è quello di un confronto diretto del profitto realizzato in relazione con il capitale investito. In magistrali pagine dei Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (La Nuova Italia, 1968-70, II vol. pp. 389-411). Marx spiega come

con le macchine il lavoro oggettivato si contrappone materialmente al lavoro vivo come il potere che lo domina e come attiva sussunzione di esso sotto di sé: non solo in quanto se ne appropria, ma nello stesso processo di produzione reale.

Mercoledì, May 15, 2019

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.