In ricordo di Onorato Damen

Il 14 ottobre del 1979 scompariva Onorato Damen, uno dei più coerenti e conseguenti rappresentanti del movimento comunista, italiano e internazionale.

Dedicò tutta la vita cosciente alla liberazione del proletariato – e quindi dell'umanità intera – dal dominio del capitale, sempre in prima fila nel cercare di orientare la classe lavoratrice verso il superamento rivoluzionario della società borghese.

Dall'opposizione attiva alla prima guerra imperialista mondiale, alla nascita del Partito Comunista d'Italia; dallo scontro, anche armato, contro il fascismo, alla lotta contro la degenerazione dell'Internazionale Comunista, fuori e dentro le galere fasciste durante il Ventennio; dalla formazione del Partito Comunista Internazionalista nel pieno del secondo conflitto mondiale – con gli enormi pericoli immaginabili – alla tenace battaglia contro i gravi sbandamenti del secondo dopoguerra che investirono settori del partito. Una militanza che non venne meno, nonostante la non più verde età, anche durante gli anni bui della Ricostruzione, del “miracolo economico” - fondati su uno sfruttamento e un'oppressione del proletariato particolarmente spietati -, fino all'esplosione della protesta studentesca e operaia tra la fine degli anni '60 e il decennio successivo. Questa la sintesi della sua vita di rivoluzionario comunista. Per oltre sessant'anni, il segno distintivo di Onorato, se così si può dire, è stato proprio l'attività instancabile per formare lo strumento indispensabile all'archiviazione del modo di produzione capitalistico e della formazione sociale che ne deriva, vale a dire l'organizzazione rivoluzionaria, il partito di classe. Formarlo, svilupparlo, assicurarne comunque la permanenza, come permanente è il rapporto di sfruttamento capitale-forza lavoro su cui poggia il capitalismo, indipendentemente dagli alti (pochi) e bassi della lotta di classe proletaria e, dunque, dalla consistenza numerica, legata in gran parte all'andamento alterno della lotta di classe stessa. A questo si è dedicato, il che implica la difesa delle basi teorico-politiche, verificandole e mettendole al passo con la realtà sempre mutevole della società borghese, salvaguardandole dalle insidie, non da ultime quelle sorgenti all'interno del partito. Le più pericolose, forse, perché generano sconforto, scompiglio tra la compagine militante, spesso con teorizzazioni che all'apparenza possono persino sembrare affascinanti, quando invece sono per lo più il frutto della pesantezza quasi insopportabile della sconfitta e di lunghi anni di controrivoluzione. A volte, non ci sono solo le teorizzazioni che, pur indebolendo gravemente l'organizzazione rivoluzionaria – magari prospettandone lo scioglimento o la trasformazione in una specie di circolo di pensatori – sono fatte in buona fede: si affacciano anche traditori e rinnegati, il cui ruolo distruttivo e infame non ha bisogno di commenti. La storia del movimento comunista, per non dire dell'umanità in lotta contro lo sfruttamento e l'oppressione, è piena di simili miserie che giocano un ruolo, a volte significativo, nell'indebolire e peggio ciò per cui si sono spese tante energie.

Con queste considerazioni, chiudiamo questo breve ricordo di Onorato Damen e riproponiamo un articolo che, al di là della polemica contingente e di valutazioni politiche che abbiamo ulteriormente affinato – grazie all'eredità politica di Onorato e dei compagni della sua generazione – conserva la sua validità nell'inquadrare le questioni di fondo della lotta per il comunismo.

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Difendiamo la Sinistra italiana

da Battaglia comunista - 1966

Una volta tanto bisogna pure fare il controllo dei dati della propria contabilità politica per rivedere criticamente la propria condotta in confronto agli avvenimenti e anche in confronto di coloro che la pretendono a depositari di non si sa quale coerenza ai principi ed ai metodi che ci dovrebbero essere comuni.

Innanzitutto la nostra cura è andata ad una adesione non formale all’ideologia marxista e alla sua giusta applicazione senza la pretesa di aver dato mano ad una opera di restaurazione di questa dottrina. Tuttavia abbiamo tenuto a non confonderci né con chi traduce il pensiero di Marx e di Lenin in termini di idealismo e volontarismo, né con chi questa concezione formula in termini di economismo e di determinismo meccanicista secondo i canoni del positivismo e non della dialettica rivoluzionaria. Proprio per questa premessa erronea e infeconda, non ha mai avuto diritto di cittadinanza nella “sinistra italiana” l’assunto teorico che considera il partito tutto e le masse proletarie niente; che attribuisce al partito non solo la funzione di avanguardia e di guida, su cui siamo tutti d’accordo, ma quella di operare la rottura rivoluzionaria e di esercitare il potere della dittatura nella prima fase della gestione socialista non col proletariato ma per il proletariato perché ritenuto incapace a questo compito.

Per questi compagni la rivoluzione d’Ottobre è una specie bastarda di rivoluzione socialista in funzione antifeudale; è socialista solo per quel tanto che ha avuto come base un proletariato armato ed un programma socialista. Si tratterebbe in una parola di una rivoluzione fatta dal partito bolscevico in quanto tale non in quanto espressione di classe del proletariato russo.

Ma se si riconosce la presenza d’un proletariato armato, è proprio e solo questo proletariato che dà il contenuto sociale alla rivoluzione e sostanzia di fatto l’opera del suo partito. Non è quindi merito del solo partito bolscevico se la rivoluzione d’Ottobre si è realizzata in quanto rivoluzione socialista, ma ciò è dovuto, e bisogna dirlo con chiarezza, al proletariato russo, in quanto classe storicamente rivoluzionaria, sotto la guida del partito di Lenin. Ed è ovvio che lì dove è il proletariato, quale che sia l’ampiezza e la potenza del suo sviluppo di classe, lì è anche la sua matrice storica, il capitalismo, anche se si tratta di oasi di capitalismo disperse nel mare magnum di un’economia arretrata e prevalentemente agricola, ma tuttavia capitalismo, già tragico protagonista d’una politica imperialista che aveva vissuto il primo grande scontro col nascente capitalismo giapponese ed aveva vissuto giornate di terrore di classe davanti allo spettro della rivoluzione proletaria nel 1905.

Si trattava per il partito bolscevico di realizzare la politica, allora possibile, del proletariato russo in unione al contadiname povero, felice momento d’uno sviluppo che doveva essere necessariamente russo e internazionale insieme, in funzione quindi d’una rivoluzione socialista internazionale che era riuscita a rompere l’anello più debole dello schieramento del capitalismo imperialista, ed aveva chiara la coscienza che la vittoria si sarebbe avuta nella misura in cui si fosse riusciti a fare dell’episodio russo la fase iniziale di un allargamento del fronte rivoluzionario che avrebbe consentito di regolare lo sviluppo della costruzione socialista in Russia al passo d’una rivoluzione montante dei maggiori paesi europei ad economia più avanzata, quali l’Inghilterra, la Germania e la Francia.

La Sinistra italiana si è sempre battuta sulla base di questi principi tanto nell’ambito del partito come in quello della III Internazionale. A queste recenti contorsioni teoriche sui problemi del partito e della rivoluzione noi non sapremmo attribuire che il valore di un dilettantistico esibizionismo di scuola.

Tutto questo spiega perché, in seguito al crollo della Internazionale Comunista, questi compagni, quale che sia stato il posto di responsabilità avuto nei quadri della organizzazione del partito, hanno sostenuto che non c’era più niente da fare per tutto un ciclo storico e si sono ritirati sotto le tende sostituendo i compiti, anche personali, della milizia rivoluzionaria con una facile coerenza intellettuale e una più facile adesione “sedentaria” ai principi della lotta di classe che pur continuava senza di loro e contro le loro stesse teorie e dentro il fascismo prima e poi nell’ibridume politico della democrazia subentrata al fascismo.

Proprio a tale mentalità si deve se al momento del deflusso della lotta operaia in Italia, questi compagni hanno teorizzato la tattica di tirare i remi in barca, lo scioglimento del partito e il ritorno ai compiti della frazione rompendo così di fatto l’organizzazione internazionalista, la sola che aveva dimostrato di battersi contro lo stalinismo. Nell’interesse di chi?

Per noi il partito si forgia giorno per giorno, attraverso la lenta e faticosa formazione dei quadri che non sono mai selezionati abbastanza ora al fuoco della lotta, ora delle repressioni violente e ora delle disillusioni, soprattutto quando il tradimento ti colpisce alle spalle ad opera dei tuoi stessi compagni.

Non è vero, non è mai stato vero che il partito sorge solo nella fase storica dell’assalto rivoluzionario ma al contrario esso ha bisogno di militare per tutta una fase storica prima di raggiungere la sua pienezza di organo abilitato alla guida e all’azione rivoluzionaria.

Va osservato a questo proposito la ridevole confusione abbattutasi tra questi compagni al susseguirsi dei moti spontanei delle masse operaie verificatisi soprattutto nei paesi del blocco sovietico, confusione che ha raggiunto il parossismo di fronte agli avvenimenti ungheresi che hanno considerato chi, ad es. il gruppetto dell'emigrazione in Francia, come azione provocatoria del capitalismo americano; chi ha invece visto nell’intervento armato russo la difesa di istituzioni e di conquiste, se non comuniste, comunque capitalisticamente progressive che andavano salvate di fronte all’attacco del capitalismo occidentale; e chi infine, ha visto negli avvenimenti la realizzazione di un fronte nazionale antirusso ivi comprese le forze armate dei “consigli operai”. La teoria possibilista, che distingue tra reazione e reazione; tra Thiers e Stalin; tra Stalin e Kruscev; tra la reazione esercitata da un capitalismo parassitario e quella esercitata da un capitalismo progressivo, non poteva dare frutti diversi.

Si trattava invece di una esperienza che andava sottoposta al vaglio della critica marxista per individuarne gli aspetti positivi di classe incontestabilmente prevalenti e per rilevarne nel tempo stesso quelli negativi soprattutto per chi vorrebbe trasferire agli organismi di fabbrica, privi di tradizione politica, senza una visione unitaria dei compiti fondamentali della classe e soprattutto senza alcuna garanzia di continuità organizzativa, di direzione e di lotta, i compiti che sono propri del partito della classe operaia.

Bisognava dire, e noi lo abbiamo detto e ripetuto, che i “consigli” sono, sì, la più alta espressione organica della lotta operaia e della sua coscienza rivoluzionaria, ma che senza la presenza del partito di classe si potrà pervenire all’insurrezione, in nessun caso alla rivoluzione socialista.

In una parola noi respingiamo l’idea che fa del partito una entità astratta, non legata a possibilità obiettive, non resa viva, non verificata con la realtà mutevole della lotta, non tradotta cioè in termini di vita operaia secondo gli obiettivi della lotta rivoluzionaria. Un tale partito sarebbe soltanto di comodo, un circolo di cultura che si sposta come un qualsiasi carro di Tespi in cui l’uno disserta e i compagni, ridotti a semplici iloti della cultura, annuiscono.

No, la concezione di un tale partito non è quella di Lenin che ha speso tutta una vita sui libri e nella lotta e nell’esilio per preparare quel materiale umano senza il quale il proletariato internazionale non avrebbe avuto le giornate di Ottobre; e se la rivoluzione bolscevica è un dato incontestabile della storia lo si deve al fatto che quel partito era legato alla classe operaia e questa al suo partito come in un tutto inscindibile, in una fase resa obiettivamente favorevole alla soluzione rivoluzionaria dal crollo di uno dei pilastri della guerra e dell’imperialismo.

Non è forse qui, in questi problemi, la netta linea di demarcazione tra leninismo e blanquismo?

È superfluo dire che il nostro posto, il posto del nostro partito è sempre stato e rimane dalla parte di Lenin.

Giovedì, October 10, 2019