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Home ›Anno 2020: Covid-19 e crisi economica
Pur tralasciando, per il momento, di verificare quanto di fake news e di teorie complottiste stia circolando nell'etere sulle origini ingegneristico-genetiche del virus, o sulla possibilità che dai laboratori americani o cinesi, per errore o volontariamente, sia uscito il “regal corona” con tutti gli annessi e connessi del caso sugli scenari imperialistici internazionali, un paio di cose ci sentiamo in dovere di dirle.
Innanzitutto, quale “condicio sin qua non”, va denunciata la variegata rottura tra la forma produttiva capitalistica e il mondo della natura. Il fenomeno non è certamente nuovo, dura almeno da un paio di secoli, ma mai come in questo periodo si è espresso in tutta la sua devastante nocività. Il tanto decantato sviluppo produttivo è consistito sì nell'aumento della produzione, nell'innovazione tecnologica, nel produrre di più in tempi e costi minori, ma in regime capitalistico tutto questo “progresso” si è trasformato in un maggiore arricchimento della classe dominante e nell'impoverimento di enormi masse lavoratrici. Il medesimo “progresso” invece di favorire, attraverso lo sviluppo delle forze produttive, tempo libero da dedicare ad una migliore qualità della vita, ha imposto una maggiore disoccupazione, l'allungamento della giornata di lavoro, maggiore sfruttamento, salari di fame per la stragrande maggioranza dei lavoratori e un progressivo impoverimento della società. Per un altro verso la spasmodica ricerca del massimo profitto, in tempi recenti resa più difficile e per questo più cattiva, dalle maggiori difficoltà di valorizzazione del capitale sulla base della caduta del saggio medio del profitto, ha finito per intaccare pesantemente anche il rapporto tra società e natura. La rottura di questo equilibrio sta avendo effetti dirompenti a tutti i livelli, da quello eco (in)sostenibile dell'inquinamento alla deforestazione. Dagli allevamenti intensivi alle pandemie degli ultimi trent'anni. Gli scarti organici della produzione chimica, o quelli genericamente industriali, hanno inquinato le falde acquifere ai quattro angoli del mondo, dando in mano il trasporto e lo scarico del materiale, a volte radioattivo, alla mafie di turno. Il che sta rendendo pericolosa la coltivazione degli ortaggi e della frutta provenienti da quelle zone, per non parlare degli allevamenti che di quelle acque hanno bisogno e dei prodotti di derivazione come il latte e i formaggi. Alla base del fenomeno la necessità da parte dei produttori (cioè dei capitalisti) di risparmiare sui costi di smaltimento, scaricando le conseguenze del loro criminale comportamento sul resto della popolazione.
La deforestazione che avviene nelle zone verdi del mondo, veri e propri produttori di ossigeno, in esclusiva funzione del profitto dei proprietari terrieri (coltivazioni di mais, soia segale ecc.) e degli allevatori di bovini, produce due effetti pesantemente negativi. Il primo è quello di favorire la distruzione di un ecosistema in equilibrio, con la conseguenza che alcuni animali, naturalmente portatori di virus, pur di resistere in un ambiente naturale che non è più il loro, sono costretti a modificare le loro abitudini e a invadere altri habitat , con il risultato di avvicinarsi all'ambiente antropizzato, diventarne preda e, attraverso la catena alimentare, arrivare nell'organismo umano infettandolo. Se il salto traumatico ambientale comporta una contiguità prolungata con le società umane, i “nuovi” batteri e virus possono diventare l'innesco di un ciclo infettivo mortale, che ha trovato nella deforestazione e nella rottura dell'ecosistema il suo innesco inevitabile. Da cui la facile connessione tra l'interesse economico, la traumatica mutazione eco-ambientale e la diffusione di virus che il capitalismo non produce ma che non è in grado gestire adeguatamente, favorendone, invece, la diffusione.
Il riscaldamento climatico e le glaciazioni sono fenomeni naturali e ciclici, ma quando all'interno di questi meccanismi spontanei dell'evolversi della natura si innesta il “virus” del profitto, gli effetti vengono decuplicati, esasperati e, molto spesso in maniera colpevolmente incontrollabile. Le emissioni di gas serra, i buchi nell'ozono, che consentono ai raggi solari di penetrare nell'atmosfera sino a surriscaldarla di oltre due gradi, hanno come effetto immediato lo scioglimento dei ghiacciai millenari. Dal loro scioglimento, oltre al fenomeno dell'innalzamento delle acque con conseguenze gravi per l'ecosistema precedente, possono emergere e riprendere vita batteri e virus la cui nocività potrebbe essere letale. Al riguardo si sono tenute una ventina di Assise Internazionali per contenere gli effetti negativi di questi fenomeni umani. Risultato zero. La paura dei mutamenti climatici è stata nettamente inferiore alla voracità di quegli interessi capitalistici che li hanno prodotti. Nello scontro tra “belle” dichiarazioni e i pressanti interessi dei capitalismi internazionali, non c'è stata lotta, hanno stravinto i secondi. Lo stesso dicasi per l'allevamento intensivo, soprattutto dei bovini , che vengono gonfiati dall'ormone della crescita, da una alimentazione a base di carne e/o di pesce e di quel mais transgenico che proviene in larga misura proprio dalla deforestazione dei “polmoni verdi” del mondo. Questi fattori contribuiscono alla produzione di emissioni di metano, al surriscaldamento e all'inquinamento dell'aria. In più, gli allevamenti intensivi comportano la somministrazione di antibiotici, di antiparassitari e, quando va bene, di anabolizzanti che finiscono sulle tavole degli umani consumatori, ignari di ciò che son costretti a mangiare. In via subordinata, va anche denunciato l'incredibile spreco di acqua che questi allevamenti intensivi di bovini impongono. Basti un dato per tutti. Per produrre una bistecca da un chilogrammo occorrono complessivamente 12 mila litri di acqua. Per non parlare delle varie modificazioni genetiche (fatte passare per ibridazioni) degli animali d'allevamento intensivo che, sempre in nome del profitto, devono essere sempre più pesanti (per vendere più carne), devono produrre sempre più latte (in poche generazioni si è passati da vacche che producevano spontaneamente 18 litri di latte al giorno, a 35 con punte massime di 40). Se poi qualcuno ha visto qualche allevamento intensivo dei polli, o si ricorda degli esperimenti di clonazione della pecora Dolly e quelle genetiche sulla mucca pazza, e i pericolosi esperimenti che hanno portato alla meningite bovina, abbiamo quadrato il cerchio di un perverso percorso alla cui base c'è sempre l'inquietante presenza del dio profitto. È pur vero che oggi gli ambienti di allevamento sono curati molto meglio di prima. I capi di bestiame sono più controllati e la pulizia degli ambienti è fatta di norma. Ma, paradossalmente, è proprio l'uso di queste molecole chimiche di contrasto, che possono costringere qualche batterio o virus a trovare il modo di resistere ai trattamenti igienizzanti per mezzo di una mutazione genetica, e a diffondersi, via alimentazione, nell'ambiente umano, con le conseguenze che sappiamo. Senza contare le numerose “devianze” alle più banali norme di sicurezza per gli animali perché troppo costose. Cosi, mentre nelle vaste aree nelle quali gli animali sono industrialmente allevati, vengono inquinati con i loro liquami estesi tratti di territorio, le falde acquifere e quelle di superficie, liberando oltretutto nell'aria metano e altri gas serra. Così è avvenuto che negli enormi spazi dedicati all'industria dell'allevamento intensivo, come nelle pianure del Brasile, dell'Argentina, degli Usa e dell'Australia, gran parte delle superfici agricole è occupata da monoculture agricole di mais e soia geneticamente modificati, che sottraggono terre ai contadini tradizionali, inquinano il suolo e contribuiscono al riscaldamento globale. Il dato impressionante è che, in nome del solito profitto, le moderne metodiche di allevamento intensivo hanno ingigantito il numero dei capi di bestiame moltiplicando tutti gli effetti nocivi che abbiamo precedentemente citato. Si calcola che il numero degli animali allevati nel mondo, sia passato dai 7 miliardi del 1970 agli oltre 24 miliardi del 2011 (dati FAO), i dati più aggiornati ci dicono che oggi sono quasi raddoppiati.
Per concludere, c'è il più grande business del mondo, quello che da decenni innesca lotte civili, tensioni internazionali e guerre. Quello che fa correre il mondo verso la sua distruzione, ovvero il petrolio e tutti i suoi derivati (plastica), al pari del carbone e di tutti i combustibili prodotti da fonti non rinnovabili. Il risultato del loro enorme consumo ha trasformato l'atmosfera dei centri industriali, delle grandi metropoli, ma più in generale di tutto il pianeta (hanno trovato tracce di gas combusti da petrolio nei ghiacciai alle falde dell'Himalaya) in una bolla tossica e irrespirabile, con vittime all'interno delle comunità particolarmente colpite, che vanno da Taranto a Pechino, passando per il resto del pianeta sotto forma di piogge acide, inquinamento dell'aria, surriscaldamento dell'atmosfera. I morti che tutto ciò lascia dietro di sé non sono mai considerati come vittime del “progresso di estorsione del plusvalore”, ma come nascosti martiri “dell'evoluzione sociale”. È proprio l'inquinamento che, secondo autorevoli scienziati borghesi, fungerebbe in questa crisi da Coronavirus come vettore nella trasmissione del virus stesso, che trova nelle polveri sottili (PM 10) un comodo mezzo di trasporto. Per cui non è azzardato lanciare lo slogan che “il vero virus è il capitalismo” e che solo dalla sua estinzione è possibile salvare una umanità sempre più stritolata dalla ferrea morsa di una società mortalmente decadente. Un esempio chiarificante sta nella decisione di Trump di tagliare gli investimenti sulla ricerca dei virus. Sino ad un paio di anni fa il governo americano aveva sostenuto il programma Predict, finanziato dalla Usaid, l’Agenzia americana per la cooperazione internazionale. In funzione di queste ricerche della Predict sono stati identificati 900 nuovi virus da animali, compresi ben 160 nuovi ceppi di Coronavirus. Ma Trump, nell’ottobre 2019, ha deciso di chiudere Predict, ritenuto troppo favorevole alle istanze ambientali ed ecologiste.
Come la scienza economica borghese affronta il problema coronavirus
Ora possiamo affrontare il problema in termini semplici appoggiandoci a quanto sentenziano i teorici dell'uscita da questa ulteriore crisi economico-finanziaria che il Coronavirus ci ha confezionato.
I “guru” dell'economia internazionale stanno approcciando il problema della crisi da Coronavirus da un punto di vista finanziario, “bancario centrico”, e non poteva essere diversamente, commettendo una serie di errori valutativi dell'intero sistema economico-finanziario mondiale che cercano di dominare, non accorgendosi di esserne dominati.
Per loro la crisi, e pensiamo a tutte le crisi sin qui avvenute negli ultimi decenni, sarebbero dovute alla mancanza di domanda. Di questo se ne discuteva già nell'Ottocento all'interno degli schemi dell'economia classica di Ricardo e Smith. Da buoni marxisti, gli rispondiamo che la teoria delle crisi dovute alla mancanza di una sufficiente domanda, crisi ineluttabilmente intrinseca al sistema capitalistico basato sull'iniquo rapporto tra capitale e forza lavoro, è falsa, come imprecisa e fuorviante l'altra definizione che al sostantivo crisi aggiunge l'aggettivo finanziaria. È falsa, perché è solo una parziale osservazione delle contraddizioni all'interno del sistema capitalistico. È falsa perché nella sua unicità di analisi perde di vista ben altre contraddizioni che segnano pesantemente l'attuale crisi. È falsa perché vede solo nel fenomeno finanziario, dei movimenti dei capitali fittizi e speculativi l'essenza di queste crisi. Ciò detto, va da sé che si produce “sempre troppo” sotto forma di merci e servizi in rapporto ad una progressiva diminuzione del costo del lavoro (salari e stipendi), il che non riesce a supportare completamente la domanda. Lo sviluppo delle forze produttive ha come scopo quello di produrre di più a costi inferiori, dove i costi inferiori sono, in larga parte, proprio i salari e gli stipendi che concorrono a formare la domanda. Quindi meno domanda equivale ad una minore realizzazione dei profitti per l'apparato produttivo di merci e servizi, e i capitali non vanno più prevalentemente all'investimento produttivo ma verso la speculazione. Meccanismo perverso che, nel breve periodo, può produrre dei vantaggi per alcuni capitali, ma che alla fine crea bolle speculative sempre più grandi sino a farle scoppiare. Scoppi che inceppano ulteriormente sia il sistema finanziario sia quello produttivo sottostante che, in ultima analisi, è alla base della speculazione stessa nel momento in cui i saggi del profitto, che latitano sempre di più, spingono i capitali verso l'avventura speculativa in cerca di extra profitti. Allora non è all'interno del mercato, del suo muoversi in termini di merci e di capitali che vanno ricercati i motivi degli squilibri del sistema, ma è nei meccanismi che presiedono alla valorizzazione del capitale, alla formazione del profitto e alle forme contraddittorie che li regolano che bisogna andare per comprenderne la cause. Non è sufficiente rimanere all'interno del mercato (crisi di domanda o di offerta, di sovrapproduzione o di sottoconsumo) in cui si manifestano solo gli effetti di quei meccanismi economici che operano contraddittoriamente all'interno della forma produttiva e, quindi, distributiva del capitalismo.
Infatti, la causa prima della crisi strutturale attuale è il frutto di una cronica insufficienza di valorizzazione dei capitali produttivi dovuta alla legge della caduta del saggio del profitto. Detto in termini semplici, lo sviluppo delle forze produttive, cioè i maggiori investimenti tecnologici in capitale costante (macchinari, materie prime ecc..) rispetto agli investimenti in forza lavoro, consente di produrre più merci, ma alla condizione di togliere posti di lavoro e, di conseguenza, di restringere inevitabilmente l'ambito della estrazione di plusvalore. È il rimpicciolirsi della fonte di formazione del profitto, che finisce per contrarre ulteriormente la domanda stessa, diminuendo il numero dei percettori di reddito. Siamo in presenza di una delle tante contraddizioni del sistema produttivo-distributivo capitalistico in cui, per massimizzare i profitti, si produce sempre di più a fronte di una riduzione assoluta o parziale del numero dei lavoratori e, quindi, di una quota parte della domanda. Per cui la caduta del saggio del profitto è contemporaneamente sinonimo di una diminuzione del saggio di valorizzazione del capitale e della contrazione della massa dei redditi da lavoro che, sul mercato ha l'effetto di diminuire la domanda, costringendo i capitali ad imboccare altre strade per rimpinguare i sempre più magri “bottini” dell'estorsione del plusvalore. Ecco perché la speculazione è direttamente proporzionale alla diminuzione del saggio del profitto. Più i processi di valorizzazione del capitale tendono a rallentare più la speculazione aumenta sino a creare una massa enorme di capitale speculativo internazionale pari, oggi, a 13 volte il prodotto mondiale lordo. Ciò nonostante, per i “guru” la soluzione a questa crisi sarebbe semplice: ancora nuovo danaro pubblico che viene dato quasi gratuitamente alle Banche le quali, a loro volta, lo dovrebbero dare alle imprese sotto forma di finanziamenti produttivi, per riprendere il ciclo “normale” di finanziamento-produzione-distribuzione (quest'ultima iniqua, come da precedente richiamo al rapporto capitale-forza lavoro, e penalizzata da una progressiva diminuzione del potere d'acquisto ). Evidentemente, non è bastata l'esperienza della crisi del 2008 all'interno della quale, in Europa come negli USA, sono caduti a pioggia migliaia di miliardi nelle casse degli Istituti di Credito con scarsi risultati sul piano della ripresa economica. Le Banche, gonfie di capitali freschi, hanno prima messo a posto i bilanci interni, hanno scaricato i titoli “tossici”, venduto una parte di crediti non più esigibili per il fallimento delle imprese debitrici, poi hanno continuato ad investire prevalentemente sul terreno della speculazione e le imprese sono rimaste al palo, o quasi. La sola differenza con la crisi del 2008 è che oggi la cascata di miliardi di euro, 750 in prima battuta, in seguito si sono aggiunti 2700 da parte della BCE, più 100 miliardi come fondo contro la disoccupazione, e oltre 2 mila e 770 miliardi di dollari da parte della Federal Reserve con l'aggiunta di altri 2300, sono soldi che stanno arrivando durante la crisi e non dopo, sia alle Banche che direttamente alle imprese proprio per evitare il fatale ingorgo tra il capitale finanziario gestito dalle Banche e le imprese che non lo ricevono a sufficienza. Quest'ultime, peraltro, nella situazione ex post della crisi da “Coronavirus” saranno costrette a chiudere o a lavorare al rallentatore. Anche se, va detto, tutti questi soldi sono potenziali e non tutti finiranno nelle delle aziende e della popolazione, Il commercio subirà la stessa situazione, così come la logistica e tutto l'indotto produttivo-distributivo, compresa una parte dei servizi. Il che comporta inevitabilmente un aumento della disoccupazione e l'ennesima politica dei sacrifici già invocata da Confindustria con il placet dei sindacati. E certamente, a salvare il sistema creditizio non sono sufficienti le forme assicurative di cui si doterebbero le Banche per non correre il rischio di fallire come nel 2008. Per cui il sistema creditizio, come è già avvenuto in questi ultimi dieci anni senza grandi successi, prende dallo Stato soldi a costo zero, se non sotto costo, solo in parte lo investe produttivamente sotto forma di crediti esigibili nei confronti di imprese “garantite”, il resto va ancora alla speculazione sui mercati delle azioni più appetitose o verso il mercato monetario (dollaro in primis, ma anche renminbi, yen e rublo, a seconda degli andamenti imperialistici monetari mondiali). Andrà anche verso il mercato obbligazionario, se garantisce tassi di interesse congrui alla massa degli investimenti speculativi fatti e a condizione dell'affidabilità dell'Ente, ovvero dello Stato che li emette. Conclusione, con simili politiche finanziarie ci sarà un aumento del debito pubblico, una diminuzione per la fine del 2020 di 10/15 punti del Pil mondiale, un progressivo indebitamento di tutta l'economia mondiale. Nonostante il secondo diluvio di capitali, non si eviterà la chiusura di quelle fabbriche che non reggeranno le difficoltà di un mercato sempre più ristretto e competitivo e l'ingigantirsi di una speculazione spaventosa che rischia di ripetere, nonostante le nuove instillazioni di capitali, una crisi finanziaria maggiore di quella da cui non siamo ancora usciti.
Le prime conseguenze economiche
Un'altra differenza con la crisi del 2008 sta nel tragico fatto che quella del “Coronavirus” non solo si sovrappone alla precedente sommando disastri economici a disastri finanziari, ma mette in evidenza l'impoverimento delle famiglie che in questi dieci anni hanno dovuto sopperire alla mancanza di un welfare in disarmo, proprio nei settori chiave del sostegno alla povertà. Per restare sempre negli Usa quale osservatorio privilegiato della nascita di tutte le ultime crisi, è pur vero che il governo Trump ha previsto un fondo per la disoccupazione, ma all'interno di un trend che, in soli due mesi (febbraio e marzo) ha visto un calo della produzione del 5,6%, e si prevede una diminuzione a fine anno del 16%, con una perdita media del quasi 12%. Per cui c'è poco da sperare, anche perché il peggio deve ancora venire. La chiusura di centinaia di migliaia di fabbriche e aziende in genere ha già portato a moltiplicare le richieste dei sussidi di disoccupazione, arrivate a 16 milioni. Gli stanziamenti previsti, anche se nominalmente ingenti, non saranno in grado di tappare tutte queste nuove falle che si sommano a quelle della “vecchia” crisi. Prima ancora dello scoppio di questa crisi, Il Bureau of Labor Statistics forniva dati secondo i quali risultava che oltre il 20% delle famiglie americane era composto da disoccupati. (Va ricordato per l'ennesima volta che il trucco, per rendere “positivi” i dati statistici, è sempre consistito nel calcolare solo i disoccupati ufficiali, cioè quelli che cercano un lavoro fino a quattro settimane dopo la perdita del loro impiego, dopo di che escono ufficialmente dalle statistiche). Quasi il 90% dei nuovi posti lavoro, di cui l'amministrazione Trump si vantava durante i primi due anni della sua Amministrazione, era soltanto a par-time (dai 3 ad un massimo di 6 mesi di contratto, soprattutto, ma non solo, nella ristorazione e nei fast-food, con una retribuzione media di 350 dollari settimanali). Senza contare che nel computo degli occupati rientrano anche quelli che lavorano una o due settimane al mese, e non tutti i mesi, con contratti a termine e salari di fame. In questo modo almeno 90 milioni di proletari e di piccola borghesia americani si sarebbero dovuti considerare disoccupati o sottoccupati, invece di figurare come occupati a tutti gli effetti nei calcoli statistici ufficiali. Se poi aggiungiamo che all'interno di questi 90 milioni ci sono 50 milioni di diseredati (homeless, lavoratori poverissimi, che vivono in case-roulotte, in macchina o in case fatiscenti) che vivono sotto la soglia della povertà e, come s'è detto, l'aggiunta di 16 milioni di disoccupati in tre sole settimane tra la fine di marzo e i primi di aprile, il quadro è completo. Questo a testimonianza che già prima della crisi del “Corona” l'economia americana, al pari di quella internazionale, era ben lontana dall'aver superato quella dei “sub prime” e che la seconda si è sommata alla prima in un percorso di crisi permanente di cui non si vede la fine.
Queste manipolazioni statistiche fraudolente, artatamente confezionate e messe a “disposizione” dell'opinione pubblica, avvengono anche nel calcolo del Pil (con opportuni aggiustamenti, i quali prendono come base il Pil trimestrale più alto trasformandolo in annuale). Inoltre, si fanno passare per “ investimenti fissi” le spese militari e quelle cosiddette di “ricerca e sviluppo”. Il tutto ancora una volta spacciato per “crescita” nel solito tentativo di gettare fumo negli occhi della opinione pubblica, che deve essere rassicurata e deve stare tranquilla per non rompere la pace sociale in un clima di crescente incertezza. Ciliegina sulla torta di menzogne, va aggiunto che, in queste fraudolenti operazioni contabili, avviene anche che le polizze assicurative contro le malattie sono trasformate in “spese per investimenti per beni di largo consumo”. Non da ultimo, va detto che soltanto un 20% dei salari (dati del BLS) ha avuto negli ultimi anni aumenti, peraltro molto contenuti, mentre per l’80% dei lavoratori il salario è fortemente diminuito, rimanendo, come potere d'acquisto, agli anni 198o.
Già agli inizi di questa crisi non sono però mancate le grida di allarme da parte di alcuni autorevoli analisti americani, che della situazione interna conoscono anche le pieghe più recondite, pur rimanendo vittime della falsità statistiche di cui abbiamo fatto cenno. Per esempio, Mickey Levy economista della Banca Berenberg, ex capo economista della Bank of America, afferma che «L'economia statunitense è in recessione», e lo dice sulla base del suo ultimo aggiornamento di dati e scenari economici. «Avremo una dura contrazione dell'attività economica e del Pil nella prima metà dell'anno, con un calo del 4,5% nel primo trimestre e dell'11,7% nel secondo». Ma non è il solo a temere per il futuro crisi più profonde. Citigroup dà il 40% di probabilità di una debacle dell'intero sistema, in tempi lunghi ma non lontani. Se questo è il quadro agli esordi della crisi, gli scenari che ci aspettano non sono certo confortanti, nemmeno sul piano “del quieto vivere”, nonostante il tentativo di comprare con pochi spiccioli la pace sociale che, se terminasse, finirebbe per stravolgere ulteriormente i piani di rilancio dell'economia capitalistica sia negli Usa che in Europa. Piani che, accanto agli investimenti promessi ai settori chiave dell'economia e anche alle piccole e medie industrie, devono forzatamente prevedere un lungo periodo di lacrime e sangue per la forza lavoro. Nel frattempo, e siamo soltanto al 20 marzo, molte delle Majors americane prevedono il ricorso al nuovo Q.E. Secondo le stime di Bloomberg, dopo i rifinanziamenti di CEC Entertainment, Metropolitan Transportation Authority, Diamondrock Hospitality, Tailored Brands, J Jill, Boyd Gaming e National Vision, sono seguite a breve quelli dati alla Ford (15,4 miliardi), Kohl’s (1 miliardo) e TJX (1 miliardo) per un controvalore di giornata di 21 miliardi di dollari, a seguire AT&T (3 miliardi), Delta Airlines (2-4 miliardi), Edison International (800 milioni) e Pioneer Natural Resources (1 miliardo). Ma l'aspetto più preoccupante è che siamo in presenza, nella stragrande maggioranza dei casi citati, delle stesse aziende che, dopo aver usufruito della fase monetaria più lunga e favorevole della storia americana (2009-2019), dopo aver operato il buybaks (remunerazione degli azionisti tramite il riacquisto di azioni e aumento dei dividendi) per centinaia di miliardi (2016-2019), dopo aver usufruito del più ampio taglio fiscale dal secondo dopoguerra ad oggi (2017) e aver registrato profitti da record (2018), oggi sono costretti, (vedi recentemente il caso Boeing), a ricorrere al salvataggio pubblico, pena il rischio di fallimento._ Questo negli Usa, ma non diversamente dall'Europa e dall'Italia che già erano in recessione tecnica alla fine dell'anno precedente. Per cui, mentre sulle imprese e sulle banche caleranno ancora migliaia di miliardi di dollari e di euro, sulla classe lavoratrice arriveranno, insieme alle briciole, misure pesantissime, erogate in nome dell'emergenza e della necessità di sacrificarci tutti (?), perché la barca è una e va salvata a tutti i costi. Dimenticando di dire, come al solito, che in quest'unica barca c'è chi rema e chi batte il tempo. Inoltre, la crisi da virus sta mettendo in luce quanto il sistema capitalistico sia da anni alla frutta. Lo smantellamento del welfare è avvenuto su tutti i fronti, da quello pensionistico a quello dell'istruzione, dai tagli ai sevizi a quelli dei finanziamenti della ricerca scientifica. E quello che oggi drammaticamente risalta sono soprattutto i tagli nella sanità, che mostrano tutta la loro tragica carenza e criticità nei confronti della pandemia. Spagna e Inghilterra hanno già dichiarato di non avere i mezzi sanitari per affrontare adeguatamente l'emergenza, oltretutto partendo colpevolmente in ritardo nell'affrontare la crisi “Coronavirus”. Negli Usa le cose non vanno meglio. A parte il ritardo provocato dell'incoscienza criminogena del presidente, il sistema sanitario degli Usa, stoppato il tentativo di Obama di estendere la sanità anche ai meno abbienti, e abortito per la tenace resistenza della Lobby delle assicurazioni, si trova al centro dell'emergenza, con strutture non adeguate ad affrontare una situazione così grave e vasta. Come se non bastasse l’errore peggiore di Trump è stato il taglio degli investimenti sulla ricerca dei virus. Nell’ultimo decennio era stato sostenuto il programma Predict, finanziato da Usaid, l’agenzia americana per la cooperazione internazionale. Grazie a Predict erano stati identificati, anche in Africa, 900 nuovi virus da animali, compresi 160 nuovi ceppi di coronavirus. Ma Trump nell’ottobre 2019 ha deciso di chiudere Predict ritenuto troppo favorevole alle istanze ambientali ed ecologiste.
Manca di tutto, dai macchinari per la respirazione assistita, ai tamponi e ai reagenti chimici per verificare la positività dei tamponi stessi. Il governo Usa è stato addirittura costretto ad importare dalla Cina qualche milione di mascherine, perché il suo sistema sanitario ne era sprovvisto e nessuna fabbrica è stata in grado di riconvertire la produzione in materiali sanitari e in tempi utili. Come al solito, chi è ricco può sperare di salvarsi usufruendo degli ospedali di eccellenza, chi è povero muore. Un esempio è dato dalle recenti statistiche che sono uscite in America riguardo alla differenza di morti tra la popolazione bianca e quella nera che, per definizione, appartiene alle stratificazioni più povere. Ad esempio, in Illinois gli infettati bianchi sono al 27,5% e i neri al 29,4%, mentre i deceduti da Corona sono neri al 42% e i bianchi al 37%. Si potrebbe dire un divario relativamente modesto. Ma se disaggregassimo i dati ne uscirebbe che gli afroamericani sono soltanto il 13,8% dell'intera popolazione, che è in maggioranza bianca. A Chicago (siamo all'8 di aprile), abbiamo che il 70% dei decessi è tra la popolazione di colore. E I neri rappresentano solo il 29% dell'intera popolazione metropolitana. In North Carolina i contagiati sono di colore nel 37% dei casi a fronte di un 21% del resto della popolazione, ovviamente bianca. In Michigan poi, dove la popolazione dello Stato è composta per il 14% da neri, gli afroamericani infetti sono il 35% dei casi complessivi e il 40% dei morti. Nella città d New York, i casi di maggior contagio si contano nelle zone con i redditi più bassi, nelle periferie dove “abitano” gli homeless, nel South Bronx meridionale o nel Queens, dove abitualmente vivono i meno abbienti, i disoccupati e parte di quei 16 milioni di disperati che hanno fatto richiesta del sussidio di disoccupazione. Nessuna meraviglia. Non è il Coronavirus che è razzista, ma la società americana che non concede protezione sanitaria alle stratificazioni sociali più povere che, come si diceva poc'anzi, se non ha i soldi per farsi una assicurazione, muore.
In Italia, negli ultimi dieci anni, sono pesantemente diminuiti i finanziamenti alla sanità per 37 miliardi di euro. Si sono tagliati migliaia di posti di lavoro (medici, infermieri e addetti ai laboratori di ricerca). Si sono chiusi i presidi sanitari periferici con la perdita di 70 mila posti letto, arrivando così al fatidico appuntamento con la “crisi virale” in condizioni di alta precarietà sanitaria. Negli istituti per anziani manca praticamente tutto e il tasso di mortalità dei degenti è impressionante, ed è così alto che sono in atto alcune indagine della magistratura milanese sui maggiori nosocomi della Lombardia, tra i quali la “mitica Bagina” meno conosciuta come Pio Albergo Trivulzio.
Le prime conseguenze economiche
Questo è il tragico scenario se la crisi da “corona” durerà solo quattro o sei mesi, perché se dovesse durare di più le cose andrebbero molto, ma molto peggio. Gli effetti rebound nel settore finanziario quale conseguenza di una ripresa economica, che i soliti “guru” si aspettano già a partire dagli inizi del quarto trimestre del 2020, sono una pia illusione. Le statistiche fornite al riguardo sono una proiezione basata sul nulla, come le analisi dell'andamento positivo dell'economia mondiale prima della crisi del 2008, che nessuno degli analisti aveva preannunciato, fatte salve pochissime eccezioni. La ripresa economica, se ci sarà, avrà tempi lunghi e sarà solo temporanea e non risolutiva in questa fase di decadenza del sistema economico capitalistico. Non è che passato, ipoteticamente e sperabilmente, lo spettro del “corona”, dalla settimana successiva tutto riprenderà come prima. La Cina è economicamente in ginocchio. Gli ultimi dati sull'incremento del Pil davano un misero 2,8%. Gli Usa sono pieni di debiti e di deficit sino alla cima dei capelli e si basano solo sulla supremazia del dollaro e sull'esercito più potente del mondo per sopravvivere. Mezza Europa è in recessione tecnica, Germania compresa, e il futuro è sempre più grigio. I nuovi soldi che la BCE che starebbero erogando, dovrebbero servire, in minima parte, a mantenere i redditi delle famiglie, la cassa integrazione nel caso dei lavoratori dipendenti, o i sussidi diretti nel caso degli autonomi. Ma, soprattutto, dovrebbero fornire alle imprese la liquidità necessaria per pagare debiti e fornitori ed evitare che falliscano o che siano costrette a licenziare i dipendenti. Mentre, come già detto, le tranches più consistenti andranno a gonfiare le casse delle banche e di conseguenza, le bolle speculative sino a quando i saggi del profitto delle imprese saranno così bassi da non giustificare nuovi investimenti, sempre fatte salve le solite eccezioni quali le grandi Majors che godono dell'intervento diretto dello Stato quando i finanziamenti delle Banche non risultano essere sufficienti o addirittura assenti. In una relazione realizzata dall'Organizzazione del Lavoro (che riunisce i governi, i sindacati e le organizzazioni degli industriali di 187 Paesi) si ipotizza che la crisi da pandemia rischierebbe di provocare, a scala internazionale, la perdita di 25 milioni di posti di lavoro almeno, andando ad incidere su di un tessuto produttivo in cui, già a partire dal 2019, si contavano 188 milioni di disoccupati nel mondo. Un numero nettamente superiore a quello che si è verificato dopo la crisi economica del 2008, che determinò un incremento della disoccupazione mondiale di 22 milioni di unità. Sempre secondo le stime dell'Organizzazione del lavoro saranno le vecchie economie capitalistiche occidentali quelle più funestate dalla crisi, con una perdita di guadagni che si prevede sfiorerà i 3100 miliardi di euro entro la fine del 2020. Senza contare che l'OIL non tiene minimamente conto delle condizioni economiche e finanziarie devastate dei paesi della periferia del capitalismo, come il Brasile, il Venezuela, India e la Stessa Russia che parzialmente si salva con i giacimenti di gas e petrolio, pur subendo i danni del crollo del prezzo del greggio. Inoltre prevede che «Tra 8 e 35 milioni di persone rientreranno nella categoria dei cosiddetti “lavoratori poveri” (che sono quelli che guadagnano meno di 2,90 euro al giorno)», mentre si pensava che nel 2020 la cifra totale di questi, pari a 630 milioni di persone, sarebbe diminuita di 14 milioni di persone. Più allarmante è L'Agenzia delle Nazioni Unite con sede a Ginevra, che aveva anticipatamente pubblicato un rapporto il 18 marzo, in cui prevedeva che la crisi producesse almeno 25 milioni di disoccupati, ma soltanto a livello europeo. Nell'ultima sua stima, le proiezioni sugli effetti del Coronavirus a livello internazionale e per gruppi di regioni economiche sono peggiorati di molto. L'Agenzia prevede infatti che la crisi ridurrà drasticamente il numero di ore lavorate nel mondo del 6,7%, già a partire dal secondo trimestre del 2020, il che equivale ad un esubero (licenziamenti) di 195 milioni di lavoratori. Secondo una ulteriore stima della medesima Agenzia, nei settori trainanti dell'economia mondiale potrebbero essere «circa 1,25 miliardi i lavoratori ad alto rischio per l'incremento drastico e devastante dei licenziamenti, delle riduzioni dei salari e dell'orario di lavoro». Ma i saggi del profitto, al di là delle inevitabili fluttuazioni di breve periodo, non sono destinati ad aumentare, se non a costi immani di supersfruttamento del proletariato internazionale. Troppo e irreversibilmente alta è la composizione organica del capitale (rapporto tra la massa del valore del capitale costante e il numero/valore delle unità della forza lavoro impiegate nel ciclo produttivo). Si stima che nel settore metalmeccanico (produzione di automobili, autocarri e macchinari di movimento terra), la forza lavoro sia, in rapporto al capitale costate, del solo 7%. Rimanendo in tema di previsioni, e torniamo all'ultimo trimestre del 2019 quando la crisi del “coronavirus” non era all'orizzonte, lo status dell'economia mondiale era già sull'orlo del tracollo. Con questa crisi si sommeranno disastri economici su disastri economici, con effetto moltiplicatore su tutto lo scenario internazionale.
Dai già citati dati economici e finanziari, ora passiamo a quelli dell'indebitamento globale, sintomo di una economia malata che cerca di sopravvivere oscillando tra speculazione e indebitamento, sperando di ripagare primo o poi i debiti contratti e di “sanare” con la speculazione le falle che la crisi da saggio del profitto sta facendo all'interno dell'economia reale. Speranze destinate solo ad aggravare la situazione e non a risolverla. Secondo l'Institute of financial finance i debiti accumulati sino al terzo trimestre del 2019 dalle famiglie, dalle imprese non finanziarie e dagli Stati ammontava all'astronomica cifra di 253mila miliardi di dollari, il 322% del Pil mondiale. Un costo basso del danaro e un dollaro debole, oltre alla vitale necessità di reperire finanziamenti sul mercato internazionale, hanno spinto all’indebitamento anche i Paesi emergenti, che hanno raggiunto il record nominale di 72mila miliardi di dollari. In forte crescita soprattutto il debito in valuta estera, il che ha creato un'esposizione finanziaria potenzialmente esplosiva, sopratutto se in futuro gli Usa dovessero procedere a una “normalizzazione” dei tassi di interesse (aumento). E, come sta accadendo, la crisi “virale” farà il suo corso nel destabilizzare ulteriormente queste deboli economie, strozzate da un debito pubblico insostenibile, dalla recessione internazionale e dallo spauracchio che il servizio sui loro debiti in dollari possa essere aumentato da un rialzo dei tassi di interesse americani. Sta di fatto che il debito dei Paesi “emergenti”, calcolato in valuta pregiata (quasi esclusivamente in dollari), ha raggiunto il picco di 8.300 miliardi di dollari ed è praticamente più che raddoppiato in appena 10 anni. Nel complesso, il debito dei Paesi emergenti, escluso il settore finanziario, ha raggiunto il 187% del Pil, con una punta incredibile ad Hong Kong (365%). Gli anni a venire non potranno che peggiorare la situazione, gettando nel baratro le loro economie e trascinando con sé centinaia di milioni di proletari. Se questo è il quadro generale attraverso il quale si presenta la situazione economica mondiale di fronte ad una crisi , due sono le prospettive possibili di “salvezza” dell'intero mondo capitalistico. La prima consiste in un supersfruttamento basato sull'allungamento della giornata lavorativa, sull'aumento dei ritmi di produzione, sul contenimento dei salari e sul decurtamento delle pensioni e, più in generale, sull'ulteriore smantellamento del welfare. Operazioni già in atto, ma non ancora in termini sufficienti. Rimanendo però all'interno della fase attuale, per i proletari che lavorano nelle strutture produttive strategiche (quelle che non possono essere sospese o rallentate) la situazione diventerebbe insostenibile. La mancanza di condizioni igieniche-sanitarie adeguate, la forzata vicinanza tra lavoratore e lavoratore, la scarsa reperibilità di mascherine e tute, per non parlare della necessità della costruzione ex novo di docce e di altri sistemi di decontaminazione, potrebbero favorire una epidemia interna – e quindi poi esterna - ai luoghi di lavoro, come per altro si è verificato: vedi le province di Brescia e di Bergamo, in cui il padronato locale si è opposto all'istituzione di “zone rosse” quando il contagio era già diffusamente in corso. Allora, ai sacrifici già in atto e a quelli che verranno, si sommerebbe la paura dell'infezione, con il rischio di perdere la vita e non più soltanto il posto di lavoro. Per cui la borghesia si troverebbe di fronte ad una probabile, quanto determinata, risposta di classe fatta di scioperi, rivendicazioni economiche e di sicurezza sul lavoro di difficile gestione. In questo caso la “militarizzazione”, che oggi, in maniera soft, si presenta come necessario aiuto all'amministrazione dell'ordine comportamentale della popolazione in regime di emergenza sociale, si trasformerebbe immediatamente in militarizzazione vera e propria contro le rivolte operaie in nome della pace sociale. Altrimenti la soluzione delle soluzioni (la seconda) sarebbe una “bella” guerra che tutto distruggerebbe per tutto ricostruire, dando al sistema capitalistico gli spazi economici per un nuovo ciclo di accumulazione. Se queste sono le reali prospettive che la crisi del capitalismo ci riserva, alla faccia delle “soluzioni” finanziarie dei “guru”, solo la ripresa della lotta di classe su scala internazionale, guidata dal suo partito rivoluzionario, potrà salvarci dell'ennesima carneficina che l'imperialismo va criminalmente preparando, perché, ripetiamolo, il più mortale dei virus è il capitalismo.
– FD, 10 Aprile 2020
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